martedì 31 maggio 2016

Storia della Federconsorzi - Il pasticciaccio del compromesso storico bolognese


di Antonio Saltini

7ª parte
Un affaire che ha assunto rilevanza nazionale, la cui portata si può spiegare solo inquadrando la vicenda nella tregua d’armi in cui i partiti della sinistra attendevano il maturare delle condizioni favorevoli per lanciare contro la Federconsorzi l’ultimo attacco. Non si spiegherebbe altrimenti l’asprezza delle reazioni che la fotocopia di un accordo tra la Regione Emilia Romagna e la Federazione dei consorzi agrari ha acceso tra le forze dell’agricoltura. I rappresentanti comunisti che hanno trattato per raggiungere l’accordo hanno realizzato uno dei capovolgimenti di fronte in cui i manuali di strategia, tanto militare quanto politica, additano lo strumento più efficace per sconvolgere le difese nemiche.
Il 1977 è stato per l’agricoltura italiana anno denso di avvenimenti: la definizione dei rapporti tra Stato e Regioni, il dibattito sul Piano agricolo-alimentare, la Costituente contadina non sono state che le scadenze più vistose di un calendario intenso e diversificato. Proprio allo scadere dell’anno, tuttavia, quello che poteva apparire un banale evento di cronaca ha acceso tra le forze agrarie una contesa di violenza tale quale da anni non si registrava sulla scena politica della nostra agricoltura. Quella contesa non è improbabile sia destinata a lasciare in eredità all’anno nuovo conseguenze più significative di quelle prodotte da leggi attese da anni e da eventi che hanno avuto risonanza europea.
Arde la miccia, si onora uno scomparso illustre L’evento di cronaca è stato, il 7 dicembre, la diffusione, da parte dell’Unione regionale delle cooperative di Bologna, di una nota in cui si denunciava l’esistenza di una bozza di accordo tra la Regione e la Federconsorzi, di cui la nota accludeva il testo: una paginetta dattiloscritta contenete la “dichiarazione di principi” in base ai quali i due organismi avrebbero orientato i propri rapporti in futuro.
Il breve commento che accompagnava il testo denunciava nell’accordo la manifestazione di una volontà prevaricatrice dell’autonomia delle organizzazioni cooperative operanti nella Regione, che la nota sosteneva essere i soli organismi legittimati a concordare i rapporti reciproci e l’utilizzazione delle strutture di pertinenza di ciascuna. Poteva apparire un episodio di litigiosità regionale: la successione degli eventi che sarebbero seguiti alla pubblicazione della nota avrebbero convertito l’episodio locale in evento nazionale, trasponendolo dai confini della cronaca al piano degli equilibri complessivi tra le forze agrarie.
Due giorni dopo la pubblicazione della nota bolognese moriva, a Roma, stroncato da un infarto, il direttore generale della Federconsorzi, Leonida Mizzi, da trent’anni guida incontrastata del grande complesso finanziario, industriale, commerciale. Fonti molto vicine alla persona collegavano l’evento allo scontro durissimo che lo stesso giorno il direttore della Federconsorzi aveva sostenuto con i dirigenti della Confcooperative, decisi a sbarrare la strada al “compromesso storico” in versione petroniana. Secondo i meglio informati l’infarto sarebbe intervenuto, il telefono ancora in mano, a conclusione di un diverbio con Enzo Badioli, il presidente dello schieramento avversario.

Il “compromesso” provoca il secondo lutto
Il 12 dicembre si teneva a Bologna, presso l’Assessorato all’agricoltura, un’”udienza conoscitiva” tra l’assessore, Giorgio Ceredi, e i rappresentanti delle organizzazioni agricole sul tema del credito. Il problema, da anni al centro di intense negoziazioni tra i responsabili regionali e le parti agricole, suscitava, nell’occasione, toni di asprezza insolita appena la discussione toccava il tema dell’erogazione del credito in natura praticato dai Consorzi agrari. In strettissima successione temporale, l’Assessorato all’artigianato e all’industria proponeva alla Giunta regionale la concessione, con procedura d’urgenza, di 400 milioni alle cooperative per la promozione delle rispettive attività. Qualche osservatore additava nel provvedimento un espediente per attenuare la carica polemica dell’organizzazione cooperativistica cattolica: la miccia innescata dalla Confcooperative non avrebbe potuto, tuttavia, essere soffocata: continuando a bruciare la fiamma si avvicinava al barile della polvere. Il documento diffuso aveva costretto la stampa a interessarsi del “compromesso” emiliano, il gruppo democristiano in Consiglio regionale si apprestava a dare battaglia dichiarando inaccettabile la segretezza nella quale l’accordo era venuto maturando. I democristiani costringevano anche i socialisti a prendere posizione: nemici tradizionali della Federconsorzi, i socialisti, che del “compromesso” ritenevano di non essere stati sufficientemente informati dagli alleati comunisti, con i quali dividono il governo della Regione, si facevano promotori di un’interpellanza alla Giunta che veniva firmata dal capogruppo Bartolini.
Sul contenuto dell’interpellanza si apriva la discussione nella seduta del 22 dicembre. Fino dall’esordio il confronto assumeva i toni della concitazione e della veemenza: i consiglieri socialisti si univano a quelli dell’opposizione in un attacco concentrico contro i responsabili comunisti. Il presidente della Regione, Sergio Cavina, e l’assessore Ceredi difendevano l’operato della Giunta cercando con ogni forza di rompere l’accerchiamento in cui erano costretti. Al termine del confronto Cavina, visibilmente provato dalla durezza dello scontro, veniva colto da collasso cardiaco e decedeva prima che fosse possibile qualunque soccorso.

Tra zuffe e silenzi
Il silenzio più assoluto continuava ad essere mantenuto, intanto, dalla dirigenza della Federconsorzi, dove il ruolo di direttore generale era stato rapidamente ricoperto con la nomina di Enrico Bassi, collaboratore diretto di Mizzi nella gestione del bilancio. Altrettanto impenetrabile il silenzio della Confederazione dei coltivatori diretti, detentori tanto della presidenza della Federconsorzi quanto della quota maggioranza dei seggi dei consigli di amministrazione di tutti i Consorzi agrari provinciali.
Quel silenzio, che i responsabili della Coldiretti mantenevano anche in occasione del dibattito al Consiglio regionale del 22 dicembre, risultava tanto difficile da spiegare da indurre alcuni organi di stampa a leggervi la prova della sostanziale condiscendenza dell’organizzazione di Bonomi al “compromesso” tra la Regione e la Federconsorzi.
I responsabili della Regione denunciavano, intanto, come mendace l’attacco della Confcooperative: il testo diffuso come protocollo di un accordo formale non sarebbe stato, sosteneva l’assessore Ceredi, che un promemoria scambiato tra le due parti dopo l’ultimo incontro di una lunga serie iniziata, alcuni anni prima, dal predecessore, Emilio Severi, di cui Ceredi proclamava che tutte le forze regionali erano state informate.
Il 13 gennaio Terra e Vita pubblicava un’intervista al segretario generale della Confcooperative, Giuliano Vecchi, il quale ribadiva le ragioni dell’opposizione della propria organizzazione all’accordo, che dichiarava costituire prova emblematica di verticismo, un atteggiamento in radicale contrasto ad ogni spirito di partecipazione. Nella stessa circostanza Vecchi enunciava la serie dei principi che avrebbero dovuto ispirare una riforma della Federconsorzi che restituisse l’organismo alla sua originaria natura cooperativistica, e denunciava la responsabilità della Coldiretti per l’immobilismo che essa ha favorito in trent’anni di potere incondizionato sulla Federconsorzi.
Le dichiarazioni di Vecchi al nostro giornale acuivano la tensione tra l’organizzazione cooperativistica cattolica e la Confederazione bonomiana. Quella tensione esplodeva in occasione di un’assemblea preliminare per il congresso nazionale della Confcooperative, a Lugo di Romagna il 14 gennaio, quando tra Vecchi e gli esponenti della Coldiretti si accendeva il più violento diverbio. Lo scontro assumeva i toni più aspri con il direttore della Federazione di Forlì, Falcioni. Drammaticamente la durezza del confronto provocava, ancora, un grave malore a Giuliano Vecchi, che doveva essere ricoverata con urgenza all’Ospedale di Lugo per trauma cardiaco.

Attorno al colosso la mischia
Questa, brevemente, la cronaca degli eventi, la cui stessa drammaticità dimostra come la loro portata si spinga ben oltre la disputa sull’autenticità di un documento carpito e diffuso per alimentare schermaglie di parte, provando inequivocabilmente come la vicenda coinvolga nessi fondamentali del quadro agrario nazionale. A esaminarla in tutte le implicazioni è legittimo affermare, anzi, che la disputa non costituisce che il riproporsi al mondo politico, alle forze economiche e quelle agricole, di quello che ha costituito, nell’arco intero del Dopoguerra, l’epicentro di ogni tensione della politica agraria, il nodo costituito dalla natura, dalle funzioni, dal potere economico della Federconsorzi, un organismo sul piano tecnico e su quello finanziario di monolitica solidità, il maggiore complesso nello scenario agricolo nazionale, un apparato di cui una storia densa di fratture ha fatto un colosso economico e, insieme, un’entità dalle contraddizioni insanabili tra la natura statutaria e la prassi operativa.
E’ attorno alla Federconsorzi che si sono combattute le battaglie più aspre della storia agraria del Dopoguerra. Era al termine della più dura di quelle battaglie, quella combattuta tra il 1960 e il 1961 sulle gestioni degli ammassi, segnando la vittoria della Democrazia cristiana sul Partito comunista e sul Partito socialista, che non riuscivano a imporre il controllo che pretendevano sull’operato dell’ente, che aveva inizio la lunga stagione del silenzio sull’organizzazione e sulle sue attività che ha infranto la divulgazione del testo del “compromesso”.
In quel lungo silenzio la Federconsorzi ha potuto consolidare la propria forza finanziaria e le proprie strutture industriali e commerciali, mentre gli antichi avversari si limitavano a sporadiche schermaglie di stampa, dirette a rafforzare nell’opinione pubblica l’immagine di un organismo dedito a pratiche monopolistiche e parassitarie, senza impegnarsi in un attacco frontale, che nessun osservatore meno che superficiale poteva comunque reputare per sempre esorcizzato.
E’ dagli anni in cui la Federconsorzi uscì indenne dallo scontro sugli ammassi che si registra, infatti, l’erosione progressiva della forza della Confederazione bonomiana, beneficiaria diretta del potere economico del complesso agrocommerciale, quindi baluardo della sua difesa politica, un’erosione che procede inarrestabile per la crisi al vertice di cui soffre la Confederazione, e che è venuta predisponendo un terreno sempre più favorevole per l’assalto finale alla cittadella federconsortile.

Nella fedeltà ai trattati di scienza militare
Giace da tempo in Parlamento una proposta di legge per la riforma dell’Aima, un organismo voluto, nel contesto del Centrosinistra, dai socialisti per ridurre il campo d’azione della Federconsorzi, ma che gli uomini della Democrazia cristiana sono riusciti a dirigere al limbo degli organismi privi di funzioni. Non è difficile intravvedere nell’Aima, tuttavia, dopo una riforma che ne ampliasse i poteri e i mezzi di azione, la testa di ariete del futuro ultimo assalto contro la Federconsorzi e i Consorzi collegati. La lotta della Sinistra per l’espugnazione della Federconsorzi non poteva apparire, negli anni del silenzio, che rinviata al momento più opportuno: maggiore sarebbe stato il tempo trascorso, più grave era verosimile prevedere che gli assalitori avrebbero trovato la disorganizzazione delle difese dell’organismo.
E’ solo ricordano il clima di tregua d’armi in cui i partiti della Sinistra mostravano di attendere il momento favorevole per lanciare l’ultimo attacco contro l’”esecrato” organismo federconsortile che è possibile comprendere le ragioni profonde dell’asprezza dello scontro che la fotocopia di una bozza di accordo tra l’Emilia Romagna e la Federconsorzi ha suscitato tra le forze dell’agricoltura. I rappresentanti comunisti che hanno trattato per raggiungere quell’accordo hanno, di fatto, realizzato il caratteristico capovolgimento di fronte in cui la strategia militare e quella politica di tutti i tempi hanno additato lo strumento più efficace per sconvolgere le linee di difesa degli avversari. Non possono che apparire inevitabili, alla luce di questi rilievi, il disorientamento e le reazioni delle forze che nella manovra hanno visto profilarsi l’eventualità dell’isolamento.
Si dissolvono le sicurezze antiche
In primo luogo lo sconcerto dei socialisti, da sempre attestati su una posizione di inflessibile contrapposizione alla Federconsorzi, in secondo luogo la reazione della cooperazione cattolica, che in Emilia Romagna si è impegnata a sfruttare, negli anni recenti, le difficoltà della Federconsorzi per conquistare terreno nuovo sottraendolo alla sfera tradizionale dei Consorzi agrari. Può essere significativo ricordare, a proposito, che proprio in un’intervista a Terra e vita nel settembre scorso Emilio Severi, per un’intera legislatura assessore dell’Agricoltura in Emilia Romagna, elencava, tra gli obiettivi perseguiti nel corso del lungo mandato, l’impulso dato alla cooperazione “bianca” a compressione dello spazio delle forze più tradizionaliste del mondo cattolico.
Ricostruita la cronaca degli avvenimenti, una cronaca peraltro già sufficientemente nota, e inquadrata la vicenda nel contesto dei problemi politici di cui la Federconsorzi è da trent’anni al centro, per rispondere al complesso di interrogativi che il “compromesso emiliano” propone all’osservatore delle vicende della nostra agricoltura, lo scrupolo storico impone l’analisi del documento da cui la vicenda ha avuto origine, un documento la comprensione del cui contenuto propone problemi non agevoli, mirando a verificarne le implicazioni, cercando di definirne il valore formale, scrutando la verità nascosta dietro le asserzioni delle parti in causa, che lo hanno definito, confutandosi reciprocamente, protocollo pronto alla ratifica, bozza di accordo, semplice promemoria vergato in preparazione di incontri ulteriori. E’ l’esame che cercheremo di sviluppare per essere in grado di considerare, successivamente, il significato da attribuire alla vicenda emiliana nel quadro degli equilibri politici ed economici dell’agricoltura italiana.

Punto per punto l’esame di un documento esplosivo

Il documento che ha innescato le reazioni a catena tra le quali è divampata la disputa sul “compromesso emiliano” è costituito da poco più di una paginetta di enunciazioni pesino generiche per chi avesse dimenticato l’insanabile antagonismo che ha contrapposto per trent’anni Partito comunista e Federconsorzi, che appaiono estremamente significative appena si rievochino le tappe fondamentali dei rapporti tra le due parti
Abbiamo ricordato che è stata una paginetta dattiloscritta a scatenare quella serie drammatica di vicende che ha segnato la cronaca del “compromesso agricolo” tra Emila Romagna e Federconsorzi. Ma quale è il contenuto della paginetta che infiamma, da un mese, le più acrimoniose dispute interpretative?
Il testo controverso
 Dopo avere richiamato i “ripetuti incontri” realizzati tra esponenti della Giunta e rappresentanti della Federconsorzi “per “esaminare i problemi di comuni interesse relativi alla presenza e alla piena utilizzazione di importanti strutture di conservazione, lavorazione e trasformazione dei prodotti agricoli nel territorio regionale” il documento che ha innescato l’affaire emiliano dichiara la “comune convinzione”delle due parti sulla “necessità di avviare un processo concreto di razionalizzazione delle strutture ricordate” al fine di “favorire una piena utilizzazione degli impianti” quindi “un uso rigoroso e programmato del denaro pubblico”, entro il quadro, sottolinea lo stesso testo, “del programma agro-alimentare del ministro Marcora”.
Alle premesse segue l’enunciazione degli impegni reciproci che assumono le parti:
“La Federconsorzi… si impegna a condizionare le proprie strutture e le eventuali nuove iniziative nel territorio regionale alla programmazione regionale”.
La Regione assume, per parte propria, “l’impegno …di assicurare un reale processo di programmazione e di piena utilizzazione degli impianti favorendo un nuovo rapporto tra le organizzazioni dei produttori agricoli, le organizzazioni cooperative, per la utilizzazione, tramite opportune convenzioni, delle strutture della Federconsorzi e dei Consorzi Agrari provinciali sulla base del reciproco vantaggio”.
Nel paragrafo successivo le parti enunciano l’obiettivo della più “ampia partecipazione” di tutte le forze operanti in agricoltura, dichiarano di convenire sull’utilità dell’apertura dei Consorzi agrari all’ingresso di nuovi soci, così da giungere ad un “allargamento della loro base sociale e a una adeguata presenza di tutte le componenti agricole nei consigli di amministrazione”.
Questo il contenuto del documento: sono enunciazioni succinte e anodine, sufficienti comunque perché si debba riconoscere al testo, nella sua sinteticità, la capacità di toccare i nodi principali di quella “questione” Federconsorzi, per tanti anni l’epicentro degli attriti più insanabili tra le forze protagoniste della politica agraria nazionale: per alcuni di quei nodi il riferimento è esplicito, per altri esso è, invece, implicito, ma deducibile con il semplice impegno di un’elementare logica interpretativa.
Agli elementi espressamente enunciati, e a quelli direttamente deducibili dal testo, se ne devono aggiungere altri, la cui connessione al documento può essere ricostruita sulla base delle circostanze che hanno accompagnato le trattative sviluppate tra le parti.

Gli impegni palesi

Direttamente leggibili dal testo risultano gli impegni che nello stesso documento le parti dichiarano di assumere. Per parte sua la Federconsorzi si impegna:-ad accettare la programmazione regionale come quadro di riferimento delle proprie attività e della promozione di nuove iniziative;-ad aprire i libri sociali dei Consorzi agrari ad agricoltori di matrice estranea alle forze che tradizionalmente detengono l’esclusiva della partecipazione sociale e della rappresentanza nei consigli di amministrazione.
Sono, entrambe, concessioni tali da modificare radicalmente la strategia che l’organismo federconsortile ha perseguito per trent’anni senza concessione né cedimenti. Il rifiuto più intransigente di qualsiasi interferenza o controllo, politico o amministrativo, sui propri programmi operativi o di investimento, e la drastica chiusura dei libri sociali a qualunque richiedente che non possedesse la tessera della Coldiretti o della Confagricoltura sono le linee di condotta in cui si possono identificare le ragioni degli attacchi più violenti che le forze della Sinistra hanno diretto, per trent’anni, all’organizzazione federconsortile.
La Regione si impegna, per parte sua:-ad assicurare, nel quadro dei propri programmi settoriali, la piena utilizzazione degli impianti della Federconsorzi e dei Consorzi agrari;-a garantire che l’utilizzazione degli stessi impianti da parte delle altre organizzazioni si realizzi sulla base del “reciproco vantaggio”.
Non sono, neppure queste, concessioni prive di significato. Anche se, apparentemente, di rilievo minore rispetto agli impegni assunti dalla Federconsorzi, esse non rappresentano aperture prive di significato. La prima si traduce, di fatto, nell’impegno della Regione ad impedire che iniziative nuove di organizzazioni diverse, quindi, in particolare, della cooperazione cattolica e di quella marxista, vengano realizzate nelle aree in cui già sussistano impianti dell’organizzazione federconsortile, entrando con esse in competizione ed erodendone lo spazio operativo. La seconda costituisce, nel suo apparente ermetismo, il riconoscimento di quella logica del profitto aziendale che rappresenta tradizionalmente il criterio operativo e la chiave della forza della Federconsorzi: in essa può leggersi altresì l’impegno della Regione a non interferire nei criteri di gestione degli organismi che fanno capo all’organizzazione federconsortile.
Le deduzioni logiche
Se pure, tuttavia, sul piano formale, le concessioni a carico della Federconsorzi potrebbero apparire più impegnative di quelle assunte dalla Regione, il bilancio del dare e dell’avere tra le due parti risulta spostarsi a favore della Federconsorzi quando dall’esame delle clausole espressamente enunciate nel testo si passi a quello degli impegni che ne sono deducibili secondo il più stretto rigore di logica. Essi sono fondamentalmente due, ed entrambi a carico della Regione. Il primo è costituito dal riconoscimento, da parte della Regione, del diritto della Federconsorzi a realizzare, alla sola condizione della coerenza ai piani settoriali regionali, nuovi impianti e investimenti nel territorio emiliano: discende logicamente da questo riconoscimento l’ammissione che nessuna prevenzione sussiste, da parte della Regione, alla fruizione, da parte dell’organizzazione federconsortile, dei benefici previsti dai regolamenti sull’attività del Feoga per la realizzazione di impianti di conservazione e trasformazione dei prodotti agricoli, una fruizione posta attualmente sotto il controllo dell’amministrazione regionale, cui compete l’esame preliminare di ogni pratica da inoltrare a Bruxelles.
Il secondo è costituito dall’accettazione, da parte della stessa Regione, dei vincoli tra Federconsorzi e Consorzi agrari, che il documento cita ripetutamente usando l’esplicito binomio “la Federconsorzi e i Consorzi agrari”, riconoscendo in modo estremamente trasparente l’appartenenza della prima e dei secondi ad un unico conteso istituzionale.
Il riconoscimento, che pure ho ritenuto di collocare tra quelli non immediatamente leggibili , ma tra quelli deducibili dal documento, è tra gli elementi più densi di conseguenze del testo pubblicato dalla Confcooperative: esso segnerebbe la rinuncia, di fatto, al disegno di spezzare i legami tra Federconsorzi e Consorzi agrari cui risultano essere ispirati alcuni degli articoli del progetto di legge sulla riforma dell’Aima voluta dal Partito comunista e da quello socialista.
I contenuti impliciti
Analizzati gli impegni palesi e quelli logicamente conseguenti dobbiamo affrontare l’esame degli elementi dell’accordo non desumibili, né direttamente né indirettamente, dal testo sfuggito al controllo delle parti interessate: prima di ampliare l’orizzonte della nostra indagine al di là dei termini letterali del testo è giocoforza, tuttavia, confrontarsi con gli interrogativi sul significato formale del documento. Pubblicandolo, l’Unione emiliana della Confcooperative lo definiva una “proposta di intesa”. L’assessore Ceredi, pure riconoscendo, in una conferenza stampa appositamente convocata il 12 dicembre, di avere inoltrato alla Federconsorzi “la richiesta di una preliminare disponibilità politica”, e di avere inoltre dato “informazione di questa nostra posizione al Ministro dell’Agricoltura e ad alcuni colleghi assessori regionali (Piemonte, Lombardia, Veneto)”, definiva la presa di posizione dell’Unione Cooperative fondata “su più o meno fantasiosi castelli di carta scritta”.
Quale la verità tra le tesi contrapposte? Dopo avere potuto accertare, mediante il confronto tra una pluralità di fonti, la corrispondenza del testo diffuso dall’Unione delle Cooperative a quello inviato dall’Assessorato emiliano alle parti citate da Ceredi come destinatarie della propria comunicazione, e verificato che il documento al centro della disputa non portava la sottoscrizione delle parti, ma era comunque accompagnato da una lettera ufficiale di Ceredi, la strada per identificare la natura del testo non può consistere che nell’esame obiettivo dei suoi caratteri formali.
Ma l’esame del carattere e della forma del documento rendono oltremodo difficile definirlo altrimenti che come “bozza di accordo” quale lo ha definito l’Unione regionale della Confcooperative. La sinteticità, la concisa chiarezza, l’evidente, accurata scelta di ogni parola, rivelano nel testo il frutto di una lunga paziente trattativa, l’elaborato nato da un’intensa negoziazione, pronto alla sottoscrizione delle parti che in esso hanno ricercato l’accordo compensando gli interessi reciproci a chiusura di un antico, molteplice contenzioso.
La disputa sul valore formale del documento, quella disputa che nello scontro sul “compromesso emiliano” ha oscurato, per la violenza della polemica, la stessa sostanza dei problemi, si riduce, a questa constatazione, a mera contesa verbale, diretta, comprensibilmente, a celare dietro una cortina di fumo i temi reali sui quali la trattativa era stata condotta, riconoscere la cui natura costituiva, nella chiassosa contesa, obiettiva ragione di disagio.
Inviando la bozza alla Federconsorzi la Regione si dichiarava, palesemente, disponibile a sottoscriverla appena la controparte avesse espresso la medesima disponibilità. Non di accordo si trattava, quindi, e confutando la Confcooperative Ceredi sapeva di giocare sulle parole sfidandola a produrre “firme e bolli” del documento, ma di testo pronto per l’accordo, per perfezionare il quale non mancava, ormai, che la ratifica della Federconsorzi, essendo implicita l’adesione di chi del testo aveva steso l’ultima versione.
Per una conclusione
Conclusa, nei termini che paiono più coerenti e meglio fondati sugli elementi a disposizione, l’analisi del documento al centro della disputa, resta da affrontare la terza parte dell’indagine che ci eravamo proposti, quella sugli elementi dell’accordo che non risultano né direttamente leggibili né indirettamente deducibili dal testo di Ceredi, ma che lo svolgimento della vicenda ed il suo esame all’interno del quadro della politica agricola regionale e nazionale consentono di connettere alla drammatica serie di eventi che hanno segnato la disputa sul “compromesso emiliano”.
E’ solo considerando tali elementi ulteriori che è possibile, infatti, ricostruire, nella complessità delle sue implicazioni, il quadro politico dell’accordo che stava maturando, e che gli eventi seguiti alla denuncia della Confcooperative paiono avere interrotto rendendone più ardua, se mai posibile, anche la conclusione futura.
Un esame, anche quello che ci resta da compiere, complesso e molteplice, tale da richiedere un capitolo specifico della ricostruzione che della vicenda emiliana siamo venuti fino ad ora realizzando.


La prospettiva storica di un’intesa regionale

Tutta la vicenda che si è venuta svolgendo tra Bologna e Roma apre un interrogativo ineludibile: tra gli impegni che i responsabili comunisti erano disposti ad assumere per un accordo con l’organizzazione consortile c’era o non c’era la promessa di un atteggiamento acquiescente in occasione del futuro dibattito parlamentare sulla legge di riforma dell’Aima? Gli elementi disponibili non consentono né di confermare né di smentire con certezza assoluta: tutte le articolazioni della vicenda vietano, tuttavia, di trascurarlo. Il complicato gioco di confronto-scontro diviene infatti incomprensibile se quell’interrogativo non viene assunto come nodo essenziale per spiegare la strategia seguita dalle due parti che alla vicenda hanno dato vita.
Abbiamo preso in esame, alla ricerca del significato dell’intesa che stava maturano tra Regione Emilia e Federconsorzi, gli elementi direttamente leggibili nella “bozza Ceredi” e quelli desumibili dal testo misurandone le enunciazioni alla luce delle peculiarità istituzionali ed operative della Federconsorzi. Al termine della disamina abbiamo riconosciuto la necessità , per la comprensione complessiva della vicenda, di ampliare il campo dell’indagine ad alcuni problemi di cui non sussiste nel testo alcuna menzione, ma che, sulla scorta degli eventi recenti, o di considerazioni di politica agraria nazionale, non possono non connettersi alla tematica del “compromesso emiliano”.
Il “credito di esercizio” privilegio dei Consorzi Quei problemi risultano essere fondamentalmente due. Il primo è rappresentato dal tema del credito di esercizio. E’ dal 1974 che l’erogazione del credito di esercizio nella Regione è al centro di tensioni e di trattative tra il Governo regionale e le forze agricole. Il lungo dibattito ha conosciuto una fase iniziale in cui la Regione si propose di ricercare le strade per consentire alle organizzazioni cooperative di esercitare il credito dietro somministrazione di merci nelle forme in cui lo esercitano i Consorzi agrari, ai quali l’erogazione è consentita dall’autorizzazione di legge che abilita la Fedrconsorzi all’esercizio dell’attività creditizia alla pari di un istituto bancario. Non sussistendo, per le organizzazioni cooperative, la medesima autorizzazione, nessun espediente appariva in grado di infrangere il monopolio della Federconsorzi sul credito cambiario in natura.
Risultando sbarrata la prima strada, un approfondimento della tematica metteva in luce quanto l’erogazione del credito di conduzione a copertura dell’acquisto di mezzi tecnici si rivelasse , nella nuova realtà economica delle campagne, strumento obsoleto, e come se ne potesse ipotizzare l’abolizione puntando alla creazione di forme di erogazione tali da assicurare ai beneficiari una maggiore libertà nell’uso dei mezzi finanziari messi a loro disposizione. L’ipotesi non poteva non suscitare, palesemente, la reazione della Federconsorzi, che si sarebbe veduta sottrarre quella quota del credito agrario che oggi passa unicamente attraverso gli sportelli dei Consorzi agrari: 10 miliardi sul monte di 100 di cui consiste l’insieme dei mezzi finanziari erogati nella Regione nelle forme del credito agevolato.
Lo stesso Assessorato all’agricoltura, tuttavia, sulla linea, da tempo perseguita, di restringere il più possibile i margini del credito a disposizione degli imprenditori singoli a favore del credito alle cooperative, non nascondeva il timore che la concessione di credito in denaro agli imprenditori individuali potesse essere utilizzato dai medesimi depositando il denaro in banca a tassi maggiori di quelli del credito agevolato, lucrando la differenza tra i tassi.
Volendo precludere l’eventualità il credito in natura costituisce, palesemente, lo strumento più semplice per il controllo dell’impiego del denaro concesso a credito. La trattativa in corso con la Federconsorzi consentiva, presumibilmente, di valutare in termini meno ostili anche il potere esclusivo dell’ente sull’erogazione del credito tramite merci: oltre al controllo dell’uso del denaro da parte delle imprese agricole, il mantenimento del sistema del credito cambiario in natura consentiva, infatti, di offrire alla Federconsorzi una concessione tale da poter pretendere, come contropartita, l’apertura dei libri sociali a tutti coloro che presso i Consorzi accendessero cambiali agrarie per l’acquisto di mezzi produttivi.
Sulla scorta di questi elementi è possibile comprendere l’articolazione della trattativa che si svolgeva in occasione dell’”udienza conoscitiva” del 12 dicembre, quando sulla tematica del credito di esercizio si profilava una soluzione fondata su tre punti: -il mantenimento in vigore del sistema del credito in natura esercitato dalla Federconsorzi e dai Consorzi agrari; -la fissazione di una riserva di disponibilità a favore degli imprenditori individuali, in particolare, quindi, dei coltivatori diretti, che veniva fissata nel 30 per cento dei fondi disponibili; -la creazione di una commissione regionale per il controllo dell’erogazione dei mezzi creditizi a tasso agevolato. Nel corso di una conferenza stampa tenuta lo stesso giorno dell’”udienza conoscitiva”, affrontando, dopo avere toccato i temi più caldi della polemica con la Confcooperative, il tema del credito, l’assessore Ceredi collegava esplicitamente il mantenimento del sistema dell’erogazione in natura all’apertura dei libri sociali dei Consorzi agrari.
L’Aima, gladio appeso a un crine
Il secondo degli elementi dell’intesa Regione Federconsorzi non direttamente riferibili al testo di Ceredi, la cui considerazione si impone come necessaria a chiunque voglia penetrare il contesto complessivo entro il quale il “compromesso emiliano” era venuto maturando, deve identificarsi nell’atteggiamento delle parti di fronte al progetto di legge sulla riforma dell’Aima.
E’ noto che il progetto è fermo in Parlamento da oltre un anno per l’opposizione della Federconsorzi, il cui controllo sui Consorzi agrari verrebbe definitivamente reciso da alcuni degli articoli del testo depositato.
Seppure non sussistano, data la natura della materia, elementi sicuri, più di un indizio induce a ritenere che il progetto di legge sia entrato tra i temi del negoziato tra gli esponenti della Regione e i responsabili della Federconsorzi. Non si comprenderebbe, altrimenti, come Leonida Mizzi, nel lucido realismo che ne ha sempre guidato l’azione, avesse potuto giungere alla soglia di un accordo di tanta ampiezza con i nemici storici dell’organismo di cui era autocrate onnipotente, lasciando scoperto il fianco a un attacco che avrebbe vanificato tutte le sicurezze ottenute a Bologna, un attacco per sferrare il quale gli avversari non avrebbero dovuto esperire che una maggiore insistenza nel pretendere la discussione di un disegno di legge da troppo tempo “inspiegabilmente” insabbiato.
La durezza della reazione dei socialisti, da sempre sostenitori dell’Aima come contrappeso alla Federconsorzi, non pare del resto che confermare, a contario, l’ipotesi che della legge di riforma dell’Aima tra le parti si fosse positivamente discusso.
Esponenti autorevoli della Confederazione dei Coltivatori, la nuova organizzazione contadina della Sinistra, che ho potuto interpellare, escludono categoricamente che il Partito comunista abbia potuto accedere ad un patto che costituirebbe la rinuncia esplicita ad un obiettivo per trent’anni additato come irrinunciabile. Ma come gli indizi non risultano sufficienti a dare certezza all’ipotesi, che pure rivelano più che attendibile, le smentite non valgono a dissolvere la consistenza dei medesimi.
L’essenza del “compromesso” 

Considerando nella sua complessità, dopo l’analisi che abbiamo svolto, il contesto degli elementi coinvolti nella trattativa, quella trattativa che pare non essersi conclusa in un’intesa dopo che la materia sfuggiva al controllo delle parti per la diffusione della bozza di accordo, emergono i termini di un accordo maturato nello spirito di un innegabile realismo, all’insegna di quella “ragione di stato” che, se il termine può essere impiegato nella valutazione della condotta di un’amministrazione regionale e di un organismo agrocommerciale, deve senza dubbio essere identificata come criterio ispiratore tanto degli amministratori del Partito comunista quanto di quel freddo giocoliere economico che tutti gli osservatori riconoscevano nel ragionier Mizzi.
Nella sostanza il “compromesso” consisteva nel riconoscimento, da parte della Federconsorzi, ad un’autorità politica, seppure espressa da un partito tradizionalmente nemico, della potestà di determinare il quadro di programmazione entro il quale l’attività economica del proprio apparato avrebbe dovuto esprimersi, e nel consenso all’ingresso di operatori agricoli legati al medesimo partito nel tessuto dell’organizzazione, a parità di dignità con i titolari di tessere di colore diverso.
Da parte dei responsabili regionali si riconosceva, invece, la legittimità della presenza, nel mondo agricolo, di un organismo da sempre combattuto, rinunciando ad impiegare la maggiore forza conquistata negli anni più recenti per ottenere la rivincita delle sconfitte degli anni Quaranta e Sessanta.
Così configurata, all’ipotesi del “compromesso emiliano” non può non riconoscersi un indiscutibile carattere di realismo, e a quel realismo deve attribuirsi una valenza positiva: una nuova battaglia combattuta attorno alla Federconsorzi, dalla quale la Federconsorzi uscisse mutilata e sottoposta a spartizioni, non assicurerebbe all’agricoltura e all’economia italiana che danni irreparabili.
Nella conferenza stampa che abbiamo citato Giorgio Ceredi definiva la ricerca di un’intesa con la Federconsorzi un tentativo per ovviare al mancato raggiungimento, durante le trattative per il programma del Governo,della “non sfiducia”, di un accordo sul difficile tema. Non è confutabile che il “compromesso emiliano”avrebbe potuto aprire la strada per evitare la mischia e la possibile distruzione del patrimonio di mezzi economici e di efficienza operativa dell’organizzazione federconsortile. E non si può in ciò non riconoscere la fondatezza delle affermazioni di Giorgio Ceredi.
Le stesse considerazioni che consentono di penetrare la logica che ha guidato le parti nella trattativa rendono, tuttavia, assolutamente inspiegabile l’atteggiamento dell’organizzazione che da sempre dispone del controllo esclusivo dell’organismo federconsortile, quella Confederazione bonomiana che da trent’anni proclama nella funzione di “diga contro il comunismo” la propria stessa ragione di essere. E’ la tradizione anticomunista della Coldiretti la ragione di quel grido di allarme che la stampa moderata non ha potuto non levare quando ha verificato che gli esponenti bonomiani dell’Emilia Romagna si erano rinchiusi, di fronte all’ipotesi del “compromesso”, nel più impenetrabile riserbo. Obiettivamente non è facile comprendere come un’organizzazione che si proclama, dalle origini, “diga contro il comunismo” possa non intervenire a difesa di un ente di cui da sempre detiene tutte le leve contro l’eventualità della penetrazione comunista.
Dietro la denuncia della Confcooperative
Tanto più trasparenti appaiono, alla luce dell’analisi che abbiamo svolto, le ragioni della reazione della Confcooperative: la sua durezza trova la più spiegazione più convincente nella percezione, nel “compromesso” che stava maturando, di un accordo di portata tanto ampia da comprimere drasticamente, in una prospettiva di lungo periodo, lo spazio che la cooperazione di matrice cattolica stava conquistando a spese della Federconsorzi indebolita dallo scollamento della base sociale sempre più disaffezionata, uno scollamento cui l’accordo con il Partito comunista avrebbe in certa misura consentito di ovviare.
La reazione all’accordo, che Giuliano Vecchi ha manifestato anche dalle pagine di questo giornale, risulta, in questa luce, pienamente comprensibile, in quanto difesa di un’organizzazione in vigorosa crescita, che l’ipotesi di accordo maturata in Emilia Romagna minacciava di stritolare tra la già combattiva cooperazione di matrice marxista e una Federconsorzi in cui le stesse forze marxiste fossero venute ad assumere un ruolo di controllo e corresponsabilità.
Ma oltre alle ragioni di carattere generale e politico, v’erano anche ragioni specifiche, attinenti all’utilizzazione di impianti e attrezzature dislocate in Emilia Romagna, a determinare la reazione della Confcooperative all’ipotesi di intesa tra Regione e Federconsorzi: quelle ragioni costituiscono un capitolo collaterale della vicenda emiliana, un capitolo il cui rilievo ci impone di dedicare ad esse un esame autonomo nella ricostruzione del “compromesso”, quanto “storico” non può giudicare il cronista, fino ad ora condotta.

La battaglia dei mangimifici

La vicenda di un mangimificio per il quale l’organizzazione cooperativa cattolica aveva richiesto il contributo Feoga e il rifiuto degli organi comunitari, propone uno dei nodi più difficili della vicenda emiliana. Il suo esame impone interrogativi inquietanti sul ruolo del Ministro dell’agricoltura e sullo spazio di manovra tuttora a disposizione delle due parti per proseguire una trattativa già tanto avanzata quando l’esplosione del “caso” ne impediva, drammaticamente, la conclusione.
Ho ricordato che nella vicenda già complessa dell’intesa tra Emilia Romagna e Federconsorzi se ne innesta una collaterale, la cui disamina costituisce condizione essenziale per la comprensione dell’articolata contesa. E’ una storia di mangimifici. Per illustrarla occorre ricordare, preliminarmente, che in Emilia Romagna si producono, annualmente, 18, 1 milioni di quintali di mangimi, 11,1 da parte dei mangimisti privati, 1,8 da parte dei Consorzi agrari, 5,2 da parte degli stabilimenti della Lega socialcomunista.
Lo stabilimento negato La Confcooperative, l’organizzazione cooperativistica cattolica, cui aderiscono caseifici e stalle sociali che consumano volumi considerevoli di mangimi, non dispone, attualmente, di impianti adeguati alle necessità degli associati, che soddisfano le necessità ricorrendo a fabbricanti terzi. Considerando i vantaggi che deriverebbero all’organizzazione dalla possibilità di coprire con impianti propri la domanda degli associati, l’Unione regionale delle cooperative avanzava, alcuni anni fa, la domanda al Feoga di un contributo per il finanziamento di un impianto proporzionato alla domanda potenziale degli organismi aderenti, che stimava in 600.000 quintali annui. A Bruxelles la domanda veniva rigettata con una motivazione precisa: l’esistenza, nella Regione, di un numero di mangimifici, costruiti con contributi della Comunità, tale da soddisfare per intero la domanda degli allevatori emiliani e romagnoli. Il nuovo impianto avrebbe costituito un’inutile duplicazione, e determinato uno spreco di fondi. I mangimifici impiantati nella Regione con il contributo comunitario sono rappresentati, in prevalenza, da impianti dei Consorzi agrari, ai quali sono stati concessi contributi comunitari in cinque province. Nella Regione l’apparato federconsortile dispone, attualmente, di una capacità di produzione stimabile in 1.400 quintali/ora, una capacità che, anche considerando il funzionamento per sole otto ore, risulta superiore alla domanda della clientela dei Consorzi agrari.
Il negoziato per l’uso degli impianti Veduta respinta la propria domanda l’Unioone regionale delle Cooperative si rivolgeva alla Federconsorzi chiedendo la cogestione degli impianti utilizzati a regime meno intenso, in primo luogo quello di Ravenna, dotato di preziose appendici portuali. Alla richiesta la Federconsorzi, pure non rigettando l’ipotesi di produrre mangime per le cooperative dell’Unione, rifiutava ogni eventualità di cogestione: quanto era disposta ad accettare era l’impegno ad una produzione per conto terzi. Proprietà e responsabilità degli impianti avrebbero dovuto restare, inequivocabilmente, di pertinenza dei Consorzi agrari: la condizione che abbiamo reperito, enunciata chiaramente, nella “bozza” di Ceredi. Offesa dal rifiuto, oltre a contestare il “compromesso” con la Regione, la Confederazione delle cooperative dirigeva alla Federconsorzi un attacco sul della contesa mangimistica, minacciando di denunciare a Bruxelles la sproporzione tra le dimensioni degli impianti mangimistici realizzati dai Consorzi con i contributi comunitari e l’entità del prodotto che gli allevatori della Regione acquistano dagli stessi Consorzi. Se quei mangimifici non vendono, le stime della clientela proposte dalle domande di contributo erano, palesemente, stime false. Per chi abbia percepito anche le eco remote delle difficoltà tra le quali l’Italia, poco preoccupata delle regole del gioco comunitario, abbia usufruito, tra ritardi e irregolarità, dei finanziamenti delle prime tranches del Feoga la minaccia non può non rivelarsi insidiosa: i beneficiari dei primi finanziamenti debbono sperare che delle modalità con cui le loro domande sono state soddisfatte nessuno richieda mai più la verifica. Le gesta gladiatorie di un ministro valente nei ludi comunitari ha riscattato lunghi anni di latenza e di inadeguatezza: l’interesse dell’agricoltura si unisce all’amore di patria a pretendere che sulle imprese dei predecessori sia disteso il velo della pietà
L’assenza del Ministro Ma chi si interroghi su quali potrebbero essere le conseguenze della denuncia, a Bruxelles, di un’organizzazione cooperativistica nazionale, della falsità delle stime sulla cui base sono stati erogati i contributi per gli impianti mangimistici realizzati in Emilia Romagna è condotto a proporsi una domanda correlata. Di fronte ad una minaccia di ritorsione che danneggerebbe la credibilità del Paese a Bruxelles è verosimile immaginare un intervento di mediazione del Ministro: quale è stato l’atteggiamento, è la domanda, del Ministro nella disputa? Quale ruolo ha svolto Giovanni Marcora nella difficile vicenda del “compromesso emiliano”? E’ domanda cui può darsi una risposta sola: dalla vicenda Giovanni Marcora ha conservato il più assoluto distacco. Al di là del dubbio, che cento indizi rendono consistente, che sia stata la copia della “bozza” di Ceredi indirizzata a via Venti Settembre a generare la fotocopia che ha raggiunto la Confcooperative, Giovanni Marcora alla disputa si è mantenuto assolutamente estraneo. Contro la Federconsorzi si può ricordare che il Ministro si era profuso, all’inizio del mandato, in attacchi a colpi di spadone, ai quali è subentrato un atteggiamento sempre più cauto, probabilmente dettato dalla difficile posizione politica dell’organismo, che costituisce ancora fonte preminente di vita del partito cattolico. Si può ricordare, peraltro, che anche il Ministro ha presentato alla Camera un proprio disegno di legge sull’Aima, un disegno che, come quello comunista, risulta insabbiato: ma se è comprensibile che il Partito comunista presenti un disegno di legge come semplice strumento deterrente, evitando di farlo procedere verso la discussione, per imporre la medesima sorte a un disegno ministeriale i deputati comunisti debbono contare sulla connivenza di deputati del Centro: si sussurra che abbiano operosamente contribuito all’insabbiamento i luogotenti parlamentari di Bonomi.

Ma l’autocrate non ha eredi Ma se interrogarsi sull’inerzia di Giovanni Marcora nella vicenda conduce a verificare l’assenza del Governo nello scontro sull’organismo cui è affidata, in misura cospicua, l’economia agraria nazionale, i cui destini sarebbero stati rimessi ad un assessore di romagnola intraprendenza e a un direttore generale aduso a lucrare sugli oneri dell’ammasso del grano, è doveroso chiedersi di quali capacità di manovra disponga ancora il grande apparato economicodopo l’esplosione di tensioni contenute, per anni, nell’assenza di ogni volontà di affrontare e risolvere i problemi che le alimentavano. Ho suggerito che la vitalità della Frederconsorzi non può non risultare compromessa dalla perdurante assenza di un vertice in grado di giostrare nell’agone politico alla Coldiretti, per trent’anni baluardo politico dell’organizzazione federconsortile. Al rilievo si può aggiungere essere probabile che sia stata proprio l’assenza di quel vertice a indurre Leonida Mizzi a negoziare, senza richiedere il placet del proprio signore politico, il “compromesso” che, per parte propria, il Partito comunista era altrettanto interessato a suggellare. Ma Mizzi è scomparso: è difficile credere che la dirigenza federconsortile, rimasta orfana dell’autocrate che l’ha governata, per tre decenni, tutto disponendo e nessun potere delegando ad altri, priva del baluardo della Coldiretti, possa proseguire la perigliosa navigazione che aveva affrontato l’antico ammiraglio, la navigazione che si è rivelata fatale quando in rotta di collisione contro la corazzata condotta con tanta improntitudine si è diretta, determinata allo schianto, la torpediniera della Confcooperative. Allarmata la Coldiretti, allarmata la Democrazia cristiana, costretti alla difensiva i comunisti contestati dagli alleati socialisti, pare difficile che tra le parti del “compromesso” non suggellato possa riaprirsi la trattativa per giungere alla conclusione che le reazioni hanno impedito. Scomparso Mizzi il ruolo è stato ricoperto da Enrico Bassi, uno dei collaboratori più fidati dell’autocrate, per giudizio unanime un amministratore capace: ma Mizzi non era solo un amministratore, era la Presidenza ed il Consiglio, sistematicamente impegnati a prevederne la volontà, per non imporgli l’incomodo di impartire ordini. Alla presidenza siede, dopo la diuturna presenza ombra di Aldo Ramadoro, il vulcanologo partenopeo Mario Vetrone, uno degli uomini più vicini a Bonomi, che all’indomani dell’elezione mostrava propositi di segno radicalmente diverso da quelli del predecessore, ma che, richiamato, risulta, dallo stesso Bonomi, alla realtà dei propri compiti, avrebbe accettato di riconoscere che il mandato che gli era affidato, sontuosamente onorato, non differiva, nella sostanza, da quello di chi aveva prima di lui usato la stessa scrivania per firmare quanto reputava irriguardoso fare oggetto di lettura. E tra i venti membri del Consiglio di amministrazione, undici di fede bonomiana, sette paludati delle insegne della Confagricoltura, due rappresentanti del personale, non è dato scorgere l’impeto per infrangere la tradizione di una lucrosa sinecura.
Due uomini, le ultime carte Scomparso Mizzi, Vetrone avrebbe promosso, alle prime riunioni del Consiglio, due misure a favore dei Consorzi provinciali, la riduzione del tasso di interesse e il ristorno, a favore degli enti federati, degli utili della gestione centrale, due misure in stridente contrasto con la prassi pluridecennale con cui Mizzi pretendeva di ricavare, dai rapporti con i Consorzi, ogni utile possibile: il segnale di una strategia nuova, o la furbesca ricerca del consenso più facile? Di cui il presidente, che dopo le solenni esequie avrebbe impugnato, per la prima volta lo scettro, si avvarrebbe, si sussurra a Roma, per la gestione più familiare delle cariche nelle società collegate, miniera inesauribile di presidenze, vicepresidenze, rapporti di consulenza. Ma ristornare utili facili ai Consorzi ed elargire cariche onorevoli nelle società collegate non sono prove che consentano di attribuire al nuovo presidente un progetto vitale e l’autorità per realizzarlo. La domanda cui si vorrebbe poter rispondere, dopo che, scomparso Mizzi, Mario Vetrone può esercitare i propri poteri, è la domanda sul peso del parlamentare campano nella corte bizantina che circonda Paolo Bonomi incapace, ormai, di qualunque espressione pubblica. La Federconsorzi è nelle sue mani? Non ha dubbi a proporre una risposta negativa chi ricorda che tra i boiardi che circondano il monarca sofferente la chiave dei rapporti con la Democrazia cristiana è, probabilmente, nelle mani di Fernando Truzzi, in Senato membro della commissione ristretta demandata di amalgamare i disegni di legge sull’Aima, l’uomo in grado, verosimilmente, di proseguire il negoziato con il Partito comunista o di dirigerlo al definitivo naufragio. I destini della Federconsorzi, nave ammiraglia di una flotta poderosa priva di comandante e di piani di navigazione, potrebbero essere affidati a un nostromo cresciuto sui “laghi” di Mantova, stagni elevati a rango di laghi a onore di Virgilio e dei marchesi di Gonzaga. Ma dalla corte bizantina che attornia il monarca debilitato sul “compromesso” che stava per essere suggellato tra il vassallo per trent’anni indefettibilmente fedele e il nemico storico non è stata proposta una nota di commento, non è trapelato un segno di assenso o di opposizione. Ha taciuto il monarca, tacciono i cortigiani: chi pronunciasse una parola avrebbe pronunciato, probabilmente, l’ultima parola di dirigente della Confederazione nazionale dei coltivatori diretti. Non parlano i rivali, non si può attendere che parli Truzzi. Se i destini della maggiore organizzazione dell’agricoltura italiana sono nelle sue mani, se dipendono dalla sua volontà di negoziare, o dalla sua scelta di rifiutare, come Mizzi ha rifiutato per trent’anni, ogni trattativa, non ci è dato sapere come userà le carte che impugna. Un giorno, forse, la storia dovrà attribuirgli il merito di avere preservato il grande apparato alle necessità dell’agricoltura italiana, forse dovrà imputargli di avere destinato, per sicumera o per pavidità, quell’apparato alla dissoluzione.


Già  pubblicati:

1ª parte
2ª parte
3ª parte
4ª parte
5ª parte
6ª parte


Antonio Saltini 
Già Docente di Storia dell'agricoltura all'Università di Milano, giornalista, storico delle scienze agrarie. Ha diretto la rivista mensile di agricoltura Genio Rurale ed è stato vicedirettore del settimanale, sempre di argomento agricolo, Terra e vita. E' autore della Storia delle Scienze Agrarie opera in 7 volumi. www.itempidellaterra.com



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