di Antonio Saltini
7ª parte
7ª parte
Un affaire che ha assunto rilevanza nazionale, la cui portata si può
spiegare solo inquadrando la vicenda nella tregua d’armi in cui i partiti della
sinistra attendevano il maturare delle condizioni favorevoli per lanciare
contro la Federconsorzi
l’ultimo attacco. Non si spiegherebbe altrimenti l’asprezza delle reazioni che
la fotocopia di un accordo tra la Regione Emilia Romagna e la Federazione dei
consorzi agrari ha acceso tra le forze dell’agricoltura. I rappresentanti
comunisti che hanno trattato per raggiungere l’accordo hanno realizzato uno dei
capovolgimenti di fronte in cui i manuali di strategia, tanto militare quanto
politica, additano lo strumento più efficace per sconvolgere le difese nemiche.
Il 1977 è stato per l’agricoltura italiana anno denso di avvenimenti: la
definizione dei rapporti tra Stato e Regioni, il dibattito sul Piano
agricolo-alimentare, la
Costituente contadina non sono state che le scadenze più
vistose di un calendario intenso e diversificato. Proprio allo scadere
dell’anno, tuttavia, quello che poteva apparire un banale evento di cronaca ha
acceso tra le forze agrarie una contesa di violenza tale quale da anni non si
registrava sulla scena politica della nostra agricoltura. Quella contesa non è
improbabile sia destinata a lasciare in eredità all’anno nuovo conseguenze più
significative di quelle prodotte da leggi attese da anni e da eventi che hanno
avuto risonanza europea.
Arde la miccia, si onora uno scomparso illustre L’evento di cronaca è stato,
il 7 dicembre, la diffusione, da parte dell’Unione regionale delle cooperative
di Bologna, di una nota in cui si denunciava l’esistenza di una bozza di
accordo tra la Regione
e la Federconsorzi,
di cui la nota accludeva il testo: una paginetta dattiloscritta contenete la
“dichiarazione di principi” in base ai quali i due organismi avrebbero
orientato i propri rapporti in futuro.
Il breve commento che accompagnava il testo denunciava nell’accordo la
manifestazione di una volontà prevaricatrice dell’autonomia delle
organizzazioni cooperative operanti nella Regione, che la nota sosteneva essere
i soli organismi legittimati a concordare i rapporti reciproci e
l’utilizzazione delle strutture di pertinenza di ciascuna. Poteva apparire un
episodio di litigiosità regionale: la successione degli eventi che sarebbero
seguiti alla pubblicazione della nota avrebbero convertito l’episodio locale in
evento nazionale, trasponendolo dai confini della cronaca al piano degli
equilibri complessivi tra le forze agrarie.
Due giorni dopo la pubblicazione della nota bolognese moriva, a Roma,
stroncato da un infarto, il direttore generale della Federconsorzi, Leonida
Mizzi, da trent’anni guida incontrastata del grande complesso finanziario,
industriale, commerciale. Fonti molto vicine alla persona collegavano l’evento
allo scontro durissimo che lo stesso giorno il direttore della Federconsorzi
aveva sostenuto con i dirigenti della Confcooperative, decisi a sbarrare la
strada al “compromesso storico” in versione petroniana. Secondo i meglio
informati l’infarto sarebbe intervenuto, il telefono ancora in mano, a
conclusione di un diverbio con Enzo Badioli, il presidente dello schieramento
avversario.
Il “compromesso” provoca il secondo lutto
Il 12 dicembre si teneva a Bologna, presso l’Assessorato all’agricoltura,
un’”udienza conoscitiva” tra l’assessore, Giorgio Ceredi, e i rappresentanti
delle organizzazioni agricole sul tema del credito. Il problema, da anni al
centro di intense negoziazioni tra i responsabili regionali e le parti
agricole, suscitava, nell’occasione, toni di asprezza insolita appena la
discussione toccava il tema dell’erogazione del credito in natura praticato dai
Consorzi agrari. In strettissima successione temporale, l’Assessorato
all’artigianato e all’industria proponeva alla Giunta regionale la concessione,
con procedura d’urgenza, di 400 milioni alle cooperative per la promozione
delle rispettive attività. Qualche osservatore additava nel provvedimento un
espediente per attenuare la carica polemica dell’organizzazione
cooperativistica cattolica: la miccia innescata dalla Confcooperative non
avrebbe potuto, tuttavia, essere soffocata: continuando a bruciare la fiamma si
avvicinava al barile della polvere. Il documento diffuso aveva costretto la
stampa a interessarsi del “compromesso” emiliano, il gruppo democristiano in
Consiglio regionale si apprestava a dare battaglia dichiarando inaccettabile la
segretezza nella quale l’accordo era venuto maturando. I democristiani
costringevano anche i socialisti a prendere posizione: nemici tradizionali
della Federconsorzi, i socialisti, che del “compromesso” ritenevano di non
essere stati sufficientemente informati dagli alleati comunisti, con i quali
dividono il governo della Regione, si facevano promotori di un’interpellanza
alla Giunta che veniva firmata dal capogruppo Bartolini.
Sul contenuto dell’interpellanza si apriva la discussione nella seduta del
22 dicembre. Fino dall’esordio il confronto assumeva i toni della concitazione
e della veemenza: i consiglieri socialisti si univano a quelli dell’opposizione
in un attacco concentrico contro i responsabili comunisti. Il presidente della
Regione, Sergio Cavina, e l’assessore Ceredi difendevano l’operato della Giunta
cercando con ogni forza di rompere l’accerchiamento in cui erano costretti. Al
termine del confronto Cavina, visibilmente provato dalla durezza dello scontro,
veniva colto da collasso cardiaco e decedeva prima che fosse possibile qualunque
soccorso.
Tra zuffe e silenzi
Il silenzio più assoluto continuava ad essere mantenuto, intanto, dalla
dirigenza della Federconsorzi, dove il ruolo di direttore generale era stato
rapidamente ricoperto con la nomina di Enrico Bassi, collaboratore diretto di
Mizzi nella gestione del bilancio. Altrettanto impenetrabile il silenzio della
Confederazione dei coltivatori diretti, detentori tanto della presidenza della
Federconsorzi quanto della quota maggioranza dei seggi dei consigli di
amministrazione di tutti i Consorzi agrari provinciali.
Quel silenzio, che i responsabili della Coldiretti mantenevano anche in
occasione del dibattito al Consiglio regionale del 22 dicembre, risultava tanto
difficile da spiegare da indurre alcuni organi di stampa a leggervi la prova
della sostanziale condiscendenza dell’organizzazione di Bonomi al “compromesso”
tra la Regione
e la Federconsorzi.
I responsabili della Regione denunciavano, intanto, come mendace l’attacco
della Confcooperative: il testo diffuso come protocollo di un accordo formale
non sarebbe stato, sosteneva l’assessore Ceredi, che un promemoria scambiato
tra le due parti dopo l’ultimo incontro di una lunga serie iniziata, alcuni
anni prima, dal predecessore, Emilio Severi, di cui Ceredi proclamava che tutte
le forze regionali erano state informate.
Il 13 gennaio Terra e Vita pubblicava un’intervista al segretario generale
della Confcooperative, Giuliano Vecchi, il quale ribadiva le ragioni
dell’opposizione della propria organizzazione all’accordo, che dichiarava costituire
prova emblematica di verticismo, un atteggiamento in radicale contrasto ad ogni
spirito di partecipazione. Nella stessa circostanza Vecchi enunciava la serie
dei principi che avrebbero dovuto ispirare una riforma della Federconsorzi che
restituisse l’organismo alla sua originaria natura cooperativistica, e
denunciava la responsabilità della Coldiretti per l’immobilismo che essa ha
favorito in trent’anni di potere incondizionato sulla Federconsorzi.
Le dichiarazioni di Vecchi al nostro giornale acuivano la tensione tra
l’organizzazione cooperativistica cattolica e la Confederazione
bonomiana. Quella tensione esplodeva in occasione di un’assemblea preliminare
per il congresso nazionale della Confcooperative, a Lugo di Romagna il 14
gennaio, quando tra Vecchi e gli esponenti della Coldiretti si accendeva il più
violento diverbio. Lo scontro assumeva i toni più aspri con il direttore della
Federazione di Forlì, Falcioni. Drammaticamente la durezza del confronto
provocava, ancora, un grave malore a Giuliano Vecchi, che doveva essere
ricoverata con urgenza all’Ospedale di Lugo per trauma cardiaco.
Attorno al colosso la mischia
Questa, brevemente, la cronaca degli eventi, la cui stessa drammaticità
dimostra come la loro portata si spinga ben oltre la disputa sull’autenticità
di un documento carpito e diffuso per alimentare schermaglie di parte, provando
inequivocabilmente come la vicenda coinvolga nessi fondamentali del quadro
agrario nazionale. A esaminarla in tutte le implicazioni è legittimo affermare,
anzi, che la disputa non costituisce che il riproporsi al mondo politico, alle
forze economiche e quelle agricole, di quello che ha costituito, nell’arco
intero del Dopoguerra, l’epicentro di ogni tensione della politica agraria, il
nodo costituito dalla natura, dalle funzioni, dal potere economico della
Federconsorzi, un organismo sul piano tecnico e su quello finanziario di
monolitica solidità, il maggiore complesso nello scenario agricolo nazionale,
un apparato di cui una storia densa di fratture ha fatto un colosso economico
e, insieme, un’entità dalle contraddizioni insanabili tra la natura statutaria
e la prassi operativa.
E’ attorno alla Federconsorzi che si sono combattute le battaglie più aspre
della storia agraria del Dopoguerra. Era al termine della più dura di quelle
battaglie, quella combattuta tra il 1960 e il 1961 sulle gestioni degli
ammassi, segnando la vittoria della Democrazia cristiana sul Partito comunista
e sul Partito socialista, che non riuscivano a imporre il controllo che
pretendevano sull’operato dell’ente, che aveva inizio la lunga stagione del
silenzio sull’organizzazione e sulle sue attività che ha infranto la
divulgazione del testo del “compromesso”.
In quel lungo silenzio la
Federconsorzi ha potuto consolidare la propria forza finanziaria
e le proprie strutture industriali e commerciali, mentre gli antichi avversari
si limitavano a sporadiche schermaglie di stampa, dirette a rafforzare
nell’opinione pubblica l’immagine di un organismo dedito a pratiche
monopolistiche e parassitarie, senza impegnarsi in un attacco frontale, che
nessun osservatore meno che superficiale poteva comunque reputare per sempre
esorcizzato.
E’ dagli anni in cui la
Federconsorzi uscì indenne dallo scontro sugli ammassi che si
registra, infatti, l’erosione progressiva della forza della Confederazione
bonomiana, beneficiaria diretta del potere economico del complesso
agrocommerciale, quindi baluardo della sua difesa politica, un’erosione che
procede inarrestabile per la crisi al vertice di cui soffre la Confederazione, e
che è venuta predisponendo un terreno sempre più favorevole per l’assalto
finale alla cittadella federconsortile.
Nella fedeltà ai trattati di scienza militare
Giace da tempo in Parlamento una proposta di legge per la riforma dell’Aima,
un organismo voluto, nel contesto del Centrosinistra, dai socialisti per
ridurre il campo d’azione della Federconsorzi, ma che gli uomini della
Democrazia cristiana sono riusciti a dirigere al limbo degli organismi privi di
funzioni. Non è difficile intravvedere nell’Aima, tuttavia, dopo una riforma
che ne ampliasse i poteri e i mezzi di azione, la testa di ariete del futuro
ultimo assalto contro la
Federconsorzi e i Consorzi collegati. La lotta della Sinistra
per l’espugnazione della Federconsorzi non poteva apparire, negli anni del
silenzio, che rinviata al momento più opportuno: maggiore sarebbe stato il
tempo trascorso, più grave era verosimile prevedere che gli assalitori
avrebbero trovato la disorganizzazione delle difese dell’organismo.
E’ solo ricordano il clima di tregua d’armi in cui i partiti della Sinistra
mostravano di attendere il momento favorevole per lanciare l’ultimo attacco
contro l’”esecrato” organismo federconsortile che è possibile comprendere le
ragioni profonde dell’asprezza dello scontro che la fotocopia di una bozza di
accordo tra l’Emilia Romagna e la Federconsorzi ha suscitato tra le forze
dell’agricoltura. I rappresentanti comunisti che hanno trattato per raggiungere
quell’accordo hanno, di fatto, realizzato il caratteristico capovolgimento di
fronte in cui la strategia militare e quella politica di tutti i tempi hanno
additato lo strumento più efficace per sconvolgere le linee di difesa degli
avversari. Non possono che apparire inevitabili, alla luce di questi rilievi,
il disorientamento e le reazioni delle forze che nella manovra hanno visto
profilarsi l’eventualità dell’isolamento.
Si dissolvono le sicurezze antiche
In primo luogo lo sconcerto dei socialisti, da sempre attestati su una
posizione di inflessibile contrapposizione alla Federconsorzi, in secondo luogo
la reazione della cooperazione cattolica, che in Emilia Romagna si è impegnata
a sfruttare, negli anni recenti, le difficoltà della Federconsorzi per
conquistare terreno nuovo sottraendolo alla sfera tradizionale dei Consorzi agrari.
Può essere significativo ricordare, a proposito, che proprio in un’intervista a
Terra e vita nel settembre scorso Emilio Severi, per un’intera legislatura
assessore dell’Agricoltura in Emilia Romagna, elencava, tra gli obiettivi
perseguiti nel corso del lungo mandato, l’impulso dato alla cooperazione
“bianca” a compressione dello spazio delle forze più tradizionaliste del mondo
cattolico.
Ricostruita la cronaca degli avvenimenti, una cronaca peraltro già
sufficientemente nota, e inquadrata la vicenda nel contesto dei problemi
politici di cui la
Federconsorzi è da trent’anni al centro, per rispondere al
complesso di interrogativi che il “compromesso emiliano” propone
all’osservatore delle vicende della nostra agricoltura, lo scrupolo storico
impone l’analisi del documento da cui la vicenda ha avuto origine, un documento
la comprensione del cui contenuto propone problemi non agevoli, mirando a
verificarne le implicazioni, cercando di definirne il valore formale, scrutando
la verità nascosta dietro le asserzioni delle parti in causa, che lo hanno
definito, confutandosi reciprocamente, protocollo pronto alla ratifica, bozza
di accordo, semplice promemoria vergato in preparazione di incontri ulteriori.
E’ l’esame che cercheremo di sviluppare per essere in grado di considerare,
successivamente, il significato da attribuire alla vicenda emiliana nel quadro
degli equilibri politici ed economici dell’agricoltura italiana.
Punto per punto l’esame di un documento esplosivo
Il documento che ha innescato le reazioni a catena tra le quali è
divampata la disputa sul “compromesso emiliano” è costituito da poco più di una
paginetta di enunciazioni pesino generiche per chi avesse dimenticato
l’insanabile antagonismo che ha contrapposto per trent’anni Partito comunista e
Federconsorzi, che appaiono estremamente significative appena si rievochino le
tappe fondamentali dei rapporti tra le due parti
Abbiamo ricordato che è stata una paginetta dattiloscritta a scatenare
quella serie drammatica di vicende che ha segnato la cronaca del “compromesso
agricolo” tra Emila Romagna e Federconsorzi. Ma quale è il contenuto della
paginetta che infiamma, da un mese, le più acrimoniose dispute interpretative?
Il testo controverso
Dopo avere richiamato i “ripetuti incontri” realizzati tra esponenti della
Giunta e rappresentanti della Federconsorzi “per “esaminare i problemi di
comuni interesse relativi alla presenza e alla piena utilizzazione di
importanti strutture di conservazione, lavorazione e trasformazione dei
prodotti agricoli nel territorio regionale” il documento che ha innescato
l’affaire emiliano dichiara la “comune convinzione”delle due parti sulla
“necessità di avviare un processo concreto di razionalizzazione delle strutture
ricordate” al fine di “favorire una piena utilizzazione degli impianti” quindi
“un uso rigoroso e programmato del denaro pubblico”, entro il quadro,
sottolinea lo stesso testo, “del programma agro-alimentare del ministro
Marcora”.
Alle premesse segue l’enunciazione degli impegni reciproci che assumono le
parti:
“La Federconsorzi…
si impegna a condizionare le proprie strutture e le eventuali nuove iniziative
nel territorio regionale alla programmazione regionale”.
La Regione
assume, per parte propria, “l’impegno …di assicurare un reale processo di
programmazione e di piena utilizzazione degli impianti favorendo un nuovo
rapporto tra le organizzazioni dei produttori agricoli, le organizzazioni
cooperative, per la utilizzazione, tramite opportune convenzioni, delle
strutture della Federconsorzi e dei Consorzi Agrari provinciali sulla base del
reciproco vantaggio”.
Nel paragrafo successivo le parti enunciano l’obiettivo della più “ampia
partecipazione” di tutte le forze operanti in agricoltura, dichiarano di
convenire sull’utilità dell’apertura dei Consorzi agrari all’ingresso di nuovi
soci, così da giungere ad un “allargamento della loro base sociale e a una
adeguata presenza di tutte le componenti agricole nei consigli di
amministrazione”.
Questo il contenuto del documento: sono enunciazioni succinte e anodine,
sufficienti comunque perché si debba riconoscere al testo, nella sua
sinteticità, la capacità di toccare i nodi principali di quella “questione”
Federconsorzi, per tanti anni l’epicentro degli attriti più insanabili tra le
forze protagoniste della politica agraria nazionale: per alcuni di quei nodi il
riferimento è esplicito, per altri esso è, invece, implicito, ma deducibile con
il semplice impegno di un’elementare logica interpretativa.
Agli elementi espressamente enunciati, e a quelli direttamente deducibili
dal testo, se ne devono aggiungere altri, la cui connessione al documento può
essere ricostruita sulla base delle circostanze che hanno accompagnato le
trattative sviluppate tra le parti.
Gli impegni palesi
Direttamente leggibili dal testo risultano gli impegni che nello stesso documento le parti dichiarano di assumere. Per parte sua la Federconsorzi si impegna:-ad accettare la programmazione regionale come quadro di riferimento delle proprie attività e della promozione di nuove iniziative;-ad aprire i libri sociali dei Consorzi agrari ad agricoltori di matrice estranea alle forze che tradizionalmente detengono l’esclusiva della partecipazione sociale e della rappresentanza nei consigli di amministrazione.
Sono, entrambe, concessioni tali da modificare radicalmente la strategia che
l’organismo federconsortile ha perseguito per trent’anni senza concessione né
cedimenti. Il rifiuto più intransigente di qualsiasi interferenza o controllo,
politico o amministrativo, sui propri programmi operativi o di investimento, e
la drastica chiusura dei libri sociali a qualunque richiedente che non
possedesse la tessera della Coldiretti o della Confagricoltura sono le linee di
condotta in cui si possono identificare le ragioni degli attacchi più violenti
che le forze della Sinistra hanno diretto, per trent’anni, all’organizzazione
federconsortile.
La Regione
si impegna, per parte sua:-ad assicurare, nel quadro dei
propri programmi settoriali, la piena utilizzazione degli impianti della
Federconsorzi e dei Consorzi agrari;-a garantire che l’utilizzazione
degli stessi impianti da parte delle altre organizzazioni si realizzi sulla
base del “reciproco vantaggio”.
Non sono, neppure queste, concessioni prive di significato. Anche se,
apparentemente, di rilievo minore rispetto agli impegni assunti dalla
Federconsorzi, esse non rappresentano aperture prive di significato. La prima
si traduce, di fatto, nell’impegno della Regione ad impedire che iniziative
nuove di organizzazioni diverse, quindi, in particolare, della cooperazione cattolica
e di quella marxista, vengano realizzate nelle aree in cui già sussistano
impianti dell’organizzazione federconsortile, entrando con esse in competizione
ed erodendone lo spazio operativo. La seconda costituisce, nel suo apparente
ermetismo, il riconoscimento di quella logica del profitto aziendale che
rappresenta tradizionalmente il criterio operativo e la chiave della forza
della Federconsorzi: in essa può leggersi altresì l’impegno della Regione a non
interferire nei criteri di gestione degli organismi che fanno capo
all’organizzazione federconsortile.
Le deduzioni logiche
Se pure, tuttavia, sul piano formale, le concessioni a carico della
Federconsorzi potrebbero apparire più impegnative di quelle assunte dalla
Regione, il bilancio del dare e dell’avere tra le due parti risulta spostarsi a
favore della Federconsorzi quando dall’esame delle clausole espressamente
enunciate nel testo si passi a quello degli impegni che ne sono deducibili
secondo il più stretto rigore di logica. Essi sono fondamentalmente due, ed
entrambi a carico della Regione. Il primo è costituito dal riconoscimento, da
parte della Regione, del diritto della Federconsorzi a realizzare, alla sola
condizione della coerenza ai piani settoriali regionali, nuovi impianti e
investimenti nel territorio emiliano: discende logicamente da questo
riconoscimento l’ammissione che nessuna prevenzione sussiste, da parte della
Regione, alla fruizione, da parte dell’organizzazione federconsortile, dei
benefici previsti dai regolamenti sull’attività del Feoga per la realizzazione
di impianti di conservazione e trasformazione dei prodotti agricoli, una
fruizione posta attualmente sotto il controllo dell’amministrazione regionale,
cui compete l’esame preliminare di ogni pratica da inoltrare a Bruxelles.
Il secondo è costituito dall’accettazione, da parte della stessa Regione,
dei vincoli tra Federconsorzi e Consorzi agrari, che il documento cita
ripetutamente usando l’esplicito binomio “la Federconsorzi e i
Consorzi agrari”, riconoscendo in modo estremamente trasparente l’appartenenza
della prima e dei secondi ad un unico conteso istituzionale.
Il riconoscimento, che pure ho ritenuto di collocare tra quelli non
immediatamente leggibili , ma tra quelli deducibili dal documento, è tra gli
elementi più densi di conseguenze del testo pubblicato dalla Confcooperative:
esso segnerebbe la rinuncia, di fatto, al disegno di spezzare i legami tra
Federconsorzi e Consorzi agrari cui risultano essere ispirati alcuni degli
articoli del progetto di legge sulla riforma dell’Aima voluta dal Partito
comunista e da quello socialista.
I contenuti impliciti
Analizzati gli impegni palesi e quelli logicamente conseguenti dobbiamo
affrontare l’esame degli elementi dell’accordo non desumibili, né direttamente
né indirettamente, dal testo sfuggito al controllo delle parti interessate:
prima di ampliare l’orizzonte della nostra indagine al di là dei termini
letterali del testo è giocoforza, tuttavia, confrontarsi con gli interrogativi
sul significato formale del documento. Pubblicandolo, l’Unione emiliana della
Confcooperative lo definiva una “proposta di intesa”. L’assessore Ceredi, pure
riconoscendo, in una conferenza stampa appositamente convocata il 12 dicembre,
di avere inoltrato alla Federconsorzi “la richiesta di una preliminare
disponibilità politica”, e di avere inoltre dato “informazione di questa nostra
posizione al Ministro dell’Agricoltura e ad alcuni colleghi assessori regionali
(Piemonte, Lombardia, Veneto)”, definiva la presa di posizione dell’Unione
Cooperative fondata “su più o meno fantasiosi castelli di carta scritta”.
Quale la verità tra le tesi contrapposte? Dopo avere potuto accertare,
mediante il confronto tra una pluralità di fonti, la corrispondenza del testo
diffuso dall’Unione delle Cooperative a quello inviato dall’Assessorato
emiliano alle parti citate da Ceredi come destinatarie della propria
comunicazione, e verificato che il documento al centro della disputa non
portava la sottoscrizione delle parti, ma era comunque accompagnato da una
lettera ufficiale di Ceredi, la strada per identificare la natura del testo non
può consistere che nell’esame obiettivo dei suoi caratteri formali.
Ma l’esame del carattere e della forma del documento rendono oltremodo
difficile definirlo altrimenti che come “bozza di accordo” quale lo ha definito
l’Unione regionale della Confcooperative. La sinteticità, la concisa chiarezza,
l’evidente, accurata scelta di ogni parola, rivelano nel testo il frutto di una
lunga paziente trattativa, l’elaborato nato da un’intensa negoziazione, pronto
alla sottoscrizione delle parti che in esso hanno ricercato l’accordo
compensando gli interessi reciproci a chiusura di un antico, molteplice
contenzioso.
La disputa sul valore formale del documento, quella disputa che nello
scontro sul “compromesso emiliano” ha oscurato, per la violenza della polemica,
la stessa sostanza dei problemi, si riduce, a questa constatazione, a mera
contesa verbale, diretta, comprensibilmente, a celare dietro una cortina di
fumo i temi reali sui quali la trattativa era stata condotta, riconoscere la
cui natura costituiva, nella chiassosa contesa, obiettiva ragione di disagio.
Inviando la bozza alla Federconsorzi la Regione si dichiarava, palesemente, disponibile a
sottoscriverla appena la controparte avesse espresso la medesima disponibilità.
Non di accordo si trattava, quindi, e confutando la Confcooperative Ceredi
sapeva di giocare sulle parole sfidandola a produrre “firme e bolli” del
documento, ma di testo pronto per l’accordo, per perfezionare il quale non
mancava, ormai, che la ratifica della Federconsorzi, essendo implicita
l’adesione di chi del testo aveva steso l’ultima versione.
Per una conclusione
Conclusa, nei termini che paiono più coerenti e meglio fondati sugli
elementi a disposizione, l’analisi del documento al centro della disputa, resta
da affrontare la terza parte dell’indagine che ci eravamo proposti, quella
sugli elementi dell’accordo che non risultano né direttamente leggibili né
indirettamente deducibili dal testo di Ceredi, ma che lo svolgimento della vicenda
ed il suo esame all’interno del quadro della politica agricola regionale e
nazionale consentono di connettere alla drammatica serie di eventi che hanno
segnato la disputa sul “compromesso emiliano”.
E’ solo considerando tali elementi ulteriori che è possibile, infatti,
ricostruire, nella complessità delle sue implicazioni, il quadro politico
dell’accordo che stava maturando, e che gli eventi seguiti alla denuncia della
Confcooperative paiono avere interrotto rendendone più ardua, se mai posibile, anche
la conclusione futura.
Un esame, anche quello che ci resta da compiere, complesso e molteplice,
tale da richiedere un capitolo specifico della ricostruzione che della vicenda
emiliana siamo venuti fino ad ora realizzando.
La prospettiva storica di un’intesa regionale
Tutta la vicenda che si è venuta svolgendo tra Bologna e Roma apre un
interrogativo ineludibile: tra gli impegni che i responsabili comunisti erano
disposti ad assumere per un accordo con l’organizzazione consortile c’era o non
c’era la promessa di un atteggiamento acquiescente in occasione del futuro
dibattito parlamentare sulla legge di riforma dell’Aima? Gli elementi
disponibili non consentono né di confermare né di smentire con certezza
assoluta: tutte le articolazioni della vicenda vietano, tuttavia, di
trascurarlo. Il complicato gioco di confronto-scontro diviene infatti
incomprensibile se quell’interrogativo non viene assunto come nodo essenziale
per spiegare la strategia seguita dalle due parti che alla vicenda hanno dato
vita.
Abbiamo preso in esame, alla ricerca del significato dell’intesa che stava
maturano tra Regione Emilia e Federconsorzi, gli elementi direttamente
leggibili nella “bozza Ceredi” e quelli desumibili dal testo misurandone le enunciazioni
alla luce delle peculiarità istituzionali ed operative della Federconsorzi. Al
termine della disamina abbiamo riconosciuto la necessità , per la comprensione
complessiva della vicenda, di ampliare il campo dell’indagine ad alcuni
problemi di cui non sussiste nel testo alcuna menzione, ma che, sulla scorta
degli eventi recenti, o di considerazioni di politica agraria nazionale, non
possono non connettersi alla tematica del “compromesso emiliano”.
Il “credito di esercizio” privilegio dei Consorzi Quei problemi risultano
essere fondamentalmente due. Il primo è rappresentato dal tema del credito di
esercizio. E’ dal 1974 che l’erogazione del credito di esercizio nella Regione
è al centro di tensioni e di trattative tra il Governo regionale e le forze agricole.
Il lungo dibattito ha conosciuto una fase iniziale in cui la Regione si propose di
ricercare le strade per consentire alle organizzazioni cooperative di
esercitare il credito dietro somministrazione di merci nelle forme in cui lo
esercitano i Consorzi agrari, ai quali l’erogazione è consentita
dall’autorizzazione di legge che abilita la Fedrconsorzi
all’esercizio dell’attività creditizia alla pari di un istituto bancario. Non
sussistendo, per le organizzazioni cooperative, la medesima autorizzazione,
nessun espediente appariva in grado di infrangere il monopolio della
Federconsorzi sul credito cambiario in natura.
Risultando sbarrata la prima strada, un approfondimento della tematica
metteva in luce quanto l’erogazione del credito di conduzione a copertura
dell’acquisto di mezzi tecnici si rivelasse , nella nuova realtà economica
delle campagne, strumento obsoleto, e come se ne potesse ipotizzare
l’abolizione puntando alla creazione di forme di erogazione tali da assicurare
ai beneficiari una maggiore libertà nell’uso dei mezzi finanziari messi a loro
disposizione. L’ipotesi non poteva non suscitare, palesemente, la reazione
della Federconsorzi, che si sarebbe veduta sottrarre quella quota del credito
agrario che oggi passa unicamente attraverso gli sportelli dei Consorzi agrari:
10 miliardi sul monte di 100 di cui consiste l’insieme dei mezzi finanziari
erogati nella Regione nelle forme del credito agevolato.
Lo stesso Assessorato all’agricoltura, tuttavia, sulla linea, da tempo
perseguita, di restringere il più possibile i margini del credito a
disposizione degli imprenditori singoli a favore del credito alle cooperative,
non nascondeva il timore che la concessione di credito in denaro agli
imprenditori individuali potesse essere utilizzato dai medesimi depositando il
denaro in banca a tassi maggiori di quelli del credito agevolato, lucrando la
differenza tra i tassi.
Volendo precludere l’eventualità il credito in natura costituisce,
palesemente, lo strumento più semplice per il controllo dell’impiego del denaro
concesso a credito. La trattativa in corso con la Federconsorzi
consentiva, presumibilmente, di valutare in termini meno ostili anche il potere
esclusivo dell’ente sull’erogazione del credito tramite merci: oltre al
controllo dell’uso del denaro da parte delle imprese agricole, il mantenimento
del sistema del credito cambiario in natura consentiva, infatti, di offrire
alla Federconsorzi una concessione tale da poter pretendere, come
contropartita, l’apertura dei libri sociali a tutti coloro che presso i
Consorzi accendessero cambiali agrarie per l’acquisto di mezzi produttivi.
Sulla scorta di questi elementi è possibile comprendere l’articolazione
della trattativa che si svolgeva in occasione dell’”udienza conoscitiva” del 12
dicembre, quando sulla tematica del credito di esercizio si profilava una
soluzione fondata su tre punti: -il mantenimento in vigore del sistema del
credito in natura esercitato dalla Federconsorzi e dai Consorzi agrari; -la
fissazione di una riserva di disponibilità a favore degli imprenditori
individuali, in particolare, quindi, dei coltivatori diretti, che veniva
fissata nel 30 per cento dei fondi disponibili; -la creazione di una
commissione regionale per il controllo dell’erogazione dei mezzi creditizi a
tasso agevolato. Nel corso di una conferenza stampa tenuta lo stesso giorno
dell’”udienza conoscitiva”, affrontando, dopo avere toccato i temi più caldi
della polemica con la
Confcooperative, il tema del credito, l’assessore Ceredi
collegava esplicitamente il mantenimento del sistema dell’erogazione in natura
all’apertura dei libri sociali dei Consorzi agrari.
L’Aima, gladio appeso a un crine
Il secondo degli elementi dell’intesa Regione Federconsorzi non direttamente
riferibili al testo di Ceredi, la cui considerazione si impone come necessaria
a chiunque voglia penetrare il contesto complessivo entro il quale il
“compromesso emiliano” era venuto maturando, deve identificarsi
nell’atteggiamento delle parti di fronte al progetto di legge sulla riforma
dell’Aima.
E’ noto che il progetto è fermo in Parlamento da oltre un anno per
l’opposizione della Federconsorzi, il cui controllo sui Consorzi agrari
verrebbe definitivamente reciso da alcuni degli articoli del testo depositato.
Seppure non sussistano, data la natura della materia, elementi sicuri, più
di un indizio induce a ritenere che il progetto di legge sia entrato tra i temi
del negoziato tra gli esponenti della Regione e i responsabili della
Federconsorzi. Non si comprenderebbe, altrimenti, come Leonida Mizzi, nel
lucido realismo che ne ha sempre guidato l’azione, avesse potuto giungere alla
soglia di un accordo di tanta ampiezza con i nemici storici dell’organismo di
cui era autocrate onnipotente, lasciando scoperto il fianco a un attacco che
avrebbe vanificato tutte le sicurezze ottenute a Bologna, un attacco per
sferrare il quale gli avversari non avrebbero dovuto esperire che una maggiore
insistenza nel pretendere la discussione di un disegno di legge da troppo tempo
“inspiegabilmente” insabbiato.
La durezza della reazione dei socialisti, da sempre sostenitori dell’Aima
come contrappeso alla Federconsorzi, non pare del resto che confermare, a
contario, l’ipotesi che della legge di riforma dell’Aima tra le parti si fosse
positivamente discusso.
Esponenti autorevoli della Confederazione dei Coltivatori, la nuova
organizzazione contadina della Sinistra, che ho potuto interpellare, escludono
categoricamente che il Partito comunista abbia potuto accedere ad un patto che
costituirebbe la rinuncia esplicita ad un obiettivo per trent’anni additato
come irrinunciabile. Ma come gli indizi non risultano sufficienti a dare
certezza all’ipotesi, che pure rivelano più che attendibile, le smentite non
valgono a dissolvere la consistenza dei medesimi.
L’essenza del “compromesso”
Considerando nella sua complessità, dopo l’analisi che abbiamo svolto, il contesto degli elementi coinvolti nella trattativa, quella trattativa che pare non essersi conclusa in un’intesa dopo che la materia sfuggiva al controllo delle parti per la diffusione della bozza di accordo, emergono i termini di un accordo maturato nello spirito di un innegabile realismo, all’insegna di quella “ragione di stato” che, se il termine può essere impiegato nella valutazione della condotta di un’amministrazione regionale e di un organismo agrocommerciale, deve senza dubbio essere identificata come criterio ispiratore tanto degli amministratori del Partito comunista quanto di quel freddo giocoliere economico che tutti gli osservatori riconoscevano nel ragionier Mizzi.
Considerando nella sua complessità, dopo l’analisi che abbiamo svolto, il contesto degli elementi coinvolti nella trattativa, quella trattativa che pare non essersi conclusa in un’intesa dopo che la materia sfuggiva al controllo delle parti per la diffusione della bozza di accordo, emergono i termini di un accordo maturato nello spirito di un innegabile realismo, all’insegna di quella “ragione di stato” che, se il termine può essere impiegato nella valutazione della condotta di un’amministrazione regionale e di un organismo agrocommerciale, deve senza dubbio essere identificata come criterio ispiratore tanto degli amministratori del Partito comunista quanto di quel freddo giocoliere economico che tutti gli osservatori riconoscevano nel ragionier Mizzi.
Nella sostanza il “compromesso” consisteva nel riconoscimento, da parte
della Federconsorzi, ad un’autorità politica, seppure espressa da un partito
tradizionalmente nemico, della potestà di determinare il quadro di
programmazione entro il quale l’attività economica del proprio apparato avrebbe
dovuto esprimersi, e nel consenso all’ingresso di operatori agricoli legati al
medesimo partito nel tessuto dell’organizzazione, a parità di dignità con i
titolari di tessere di colore diverso.
Da parte dei responsabili regionali si riconosceva, invece, la legittimità
della presenza, nel mondo agricolo, di un organismo da sempre combattuto,
rinunciando ad impiegare la maggiore forza conquistata negli anni più recenti
per ottenere la rivincita delle sconfitte degli anni Quaranta e Sessanta.
Così configurata, all’ipotesi del “compromesso emiliano” non può non
riconoscersi un indiscutibile carattere di realismo, e a quel realismo deve
attribuirsi una valenza positiva: una nuova battaglia combattuta attorno alla
Federconsorzi, dalla quale la
Federconsorzi uscisse mutilata e sottoposta a spartizioni,
non assicurerebbe all’agricoltura e all’economia italiana che danni
irreparabili.
Nella conferenza stampa che abbiamo citato Giorgio Ceredi definiva la
ricerca di un’intesa con la
Federconsorzi un tentativo per ovviare al mancato
raggiungimento, durante le trattative per il programma del Governo,della “non
sfiducia”, di un accordo sul difficile tema. Non è confutabile che il
“compromesso emiliano”avrebbe potuto aprire la strada per evitare la mischia e
la possibile distruzione del patrimonio di mezzi economici e di efficienza
operativa dell’organizzazione federconsortile. E non si può in ciò non
riconoscere la fondatezza delle affermazioni di Giorgio Ceredi.
Le stesse considerazioni che consentono di penetrare la logica che ha
guidato le parti nella trattativa rendono, tuttavia, assolutamente inspiegabile
l’atteggiamento dell’organizzazione che da sempre dispone del controllo
esclusivo dell’organismo federconsortile, quella Confederazione bonomiana che
da trent’anni proclama nella funzione di “diga contro il comunismo” la propria
stessa ragione di essere. E’ la tradizione anticomunista della Coldiretti la
ragione di quel grido di allarme che la stampa moderata non ha potuto non
levare quando ha verificato che gli esponenti bonomiani dell’Emilia Romagna si
erano rinchiusi, di fronte all’ipotesi del “compromesso”, nel più impenetrabile
riserbo. Obiettivamente non è facile comprendere come un’organizzazione che si
proclama, dalle origini, “diga contro il comunismo” possa non intervenire a
difesa di un ente di cui da sempre detiene tutte le leve contro l’eventualità
della penetrazione comunista.
Dietro la denuncia della Confcooperative
Tanto più trasparenti appaiono, alla luce dell’analisi che abbiamo svolto,
le ragioni della reazione della Confcooperative: la sua durezza trova la più
spiegazione più convincente nella percezione, nel “compromesso” che stava
maturando, di un accordo di portata tanto ampia da comprimere drasticamente, in
una prospettiva di lungo periodo, lo spazio che la cooperazione di matrice
cattolica stava conquistando a spese della Federconsorzi indebolita dallo
scollamento della base sociale sempre più disaffezionata, uno scollamento cui
l’accordo con il Partito comunista avrebbe in certa misura consentito di
ovviare.
La reazione all’accordo, che Giuliano Vecchi ha manifestato anche dalle
pagine di questo giornale, risulta, in questa luce, pienamente comprensibile,
in quanto difesa di un’organizzazione in vigorosa crescita, che l’ipotesi di
accordo maturata in Emilia Romagna minacciava di stritolare tra la già
combattiva cooperazione di matrice marxista e una Federconsorzi in cui le
stesse forze marxiste fossero venute ad assumere un ruolo di controllo e
corresponsabilità.
Ma oltre alle ragioni di carattere generale e politico, v’erano anche
ragioni specifiche, attinenti all’utilizzazione di impianti e attrezzature
dislocate in Emilia Romagna, a determinare la reazione della Confcooperative
all’ipotesi di intesa tra Regione e Federconsorzi: quelle ragioni costituiscono
un capitolo collaterale della vicenda emiliana, un capitolo il cui rilievo ci
impone di dedicare ad esse un esame autonomo nella ricostruzione del
“compromesso”, quanto “storico” non può giudicare il cronista, fino ad ora
condotta.
La battaglia dei mangimifici
La vicenda di un mangimificio per il quale l’organizzazione cooperativa
cattolica aveva richiesto il contributo Feoga e il rifiuto degli organi
comunitari, propone uno dei nodi più difficili della vicenda emiliana. Il suo
esame impone interrogativi inquietanti sul ruolo del Ministro dell’agricoltura
e sullo spazio di manovra tuttora a disposizione delle due parti per proseguire
una trattativa già tanto avanzata quando l’esplosione del “caso” ne impediva,
drammaticamente, la conclusione.
Ho ricordato che nella vicenda già complessa dell’intesa tra Emilia Romagna
e Federconsorzi se ne innesta una collaterale, la cui disamina costituisce
condizione essenziale per la comprensione dell’articolata contesa. E’ una
storia di mangimifici. Per illustrarla occorre ricordare, preliminarmente, che
in Emilia Romagna si producono, annualmente, 18, 1 milioni di quintali di
mangimi, 11,1 da parte dei mangimisti privati, 1,8 da parte dei Consorzi
agrari, 5,2 da parte degli stabilimenti della Lega socialcomunista.
Lo stabilimento negato La
Confcooperative, l’organizzazione cooperativistica cattolica,
cui aderiscono caseifici e stalle sociali che consumano volumi considerevoli di
mangimi, non dispone, attualmente, di impianti adeguati alle necessità degli
associati, che soddisfano le necessità ricorrendo a fabbricanti terzi.
Considerando i vantaggi che deriverebbero all’organizzazione dalla possibilità
di coprire con impianti propri la domanda degli associati, l’Unione regionale
delle cooperative avanzava, alcuni anni fa, la domanda al Feoga di un
contributo per il finanziamento di un impianto proporzionato alla domanda
potenziale degli organismi aderenti, che stimava in 600.000 quintali annui. A
Bruxelles la domanda veniva rigettata con una motivazione precisa: l’esistenza,
nella Regione, di un numero di mangimifici, costruiti con contributi della
Comunità, tale da soddisfare per intero la domanda degli allevatori emiliani e
romagnoli. Il nuovo impianto avrebbe costituito un’inutile duplicazione, e
determinato uno spreco di fondi. I mangimifici impiantati nella Regione con il
contributo comunitario sono rappresentati, in prevalenza, da impianti dei
Consorzi agrari, ai quali sono stati concessi contributi comunitari in cinque
province. Nella Regione l’apparato federconsortile dispone, attualmente, di una
capacità di produzione stimabile in 1.400 quintali/ora, una capacità che, anche
considerando il funzionamento per sole otto ore, risulta superiore alla domanda
della clientela dei Consorzi agrari.
Il negoziato per l’uso degli impianti Veduta respinta la propria domanda
l’Unioone regionale delle Cooperative si rivolgeva alla Federconsorzi chiedendo
la cogestione degli impianti utilizzati a regime meno intenso, in primo luogo
quello di Ravenna, dotato di preziose appendici portuali. Alla richiesta la Federconsorzi, pure
non rigettando l’ipotesi di produrre mangime per le cooperative dell’Unione,
rifiutava ogni eventualità di cogestione: quanto era disposta ad accettare era
l’impegno ad una produzione per conto terzi. Proprietà e responsabilità degli
impianti avrebbero dovuto restare, inequivocabilmente, di pertinenza dei
Consorzi agrari: la condizione che abbiamo reperito, enunciata chiaramente,
nella “bozza” di Ceredi. Offesa dal rifiuto, oltre a contestare il
“compromesso” con la Regione,
la Confederazione
delle cooperative dirigeva alla Federconsorzi un attacco sul della contesa
mangimistica, minacciando di denunciare a Bruxelles la sproporzione tra le
dimensioni degli impianti mangimistici realizzati dai Consorzi con i contributi
comunitari e l’entità del prodotto che gli allevatori della Regione acquistano
dagli stessi Consorzi. Se quei mangimifici non vendono, le stime della
clientela proposte dalle domande di contributo erano, palesemente, stime false.
Per chi abbia percepito anche le eco remote delle difficoltà tra le quali
l’Italia, poco preoccupata delle regole del gioco comunitario, abbia usufruito,
tra ritardi e irregolarità, dei finanziamenti delle prime tranches del Feoga la
minaccia non può non rivelarsi insidiosa: i beneficiari dei primi finanziamenti
debbono sperare che delle modalità con cui le loro domande sono state
soddisfatte nessuno richieda mai più la verifica. Le gesta gladiatorie di un
ministro valente nei ludi comunitari ha riscattato lunghi anni di latenza e di
inadeguatezza: l’interesse dell’agricoltura si unisce all’amore di patria a
pretendere che sulle imprese dei predecessori sia disteso il velo della pietà
L’assenza del Ministro Ma chi si interroghi su quali potrebbero essere le
conseguenze della denuncia, a Bruxelles, di un’organizzazione cooperativistica
nazionale, della falsità delle stime sulla cui base sono stati erogati i
contributi per gli impianti mangimistici realizzati in Emilia Romagna è
condotto a proporsi una domanda correlata. Di fronte ad una minaccia di
ritorsione che danneggerebbe la credibilità del Paese a Bruxelles è verosimile
immaginare un intervento di mediazione del Ministro: quale è stato
l’atteggiamento, è la domanda, del Ministro nella disputa? Quale ruolo ha
svolto Giovanni Marcora nella difficile vicenda del “compromesso emiliano”? E’
domanda cui può darsi una risposta sola: dalla vicenda Giovanni Marcora ha
conservato il più assoluto distacco. Al di là del dubbio, che cento indizi
rendono consistente, che sia stata la copia della “bozza” di Ceredi indirizzata
a via Venti Settembre a generare la fotocopia che ha raggiunto la Confcooperative,
Giovanni Marcora alla disputa si è mantenuto assolutamente estraneo. Contro la Federconsorzi si può
ricordare che il Ministro si era profuso, all’inizio del mandato, in attacchi a
colpi di spadone, ai quali è subentrato un atteggiamento sempre più cauto,
probabilmente dettato dalla difficile posizione politica dell’organismo, che
costituisce ancora fonte preminente di vita del partito cattolico. Si può
ricordare, peraltro, che anche il Ministro ha presentato alla Camera un proprio
disegno di legge sull’Aima, un disegno che, come quello comunista, risulta
insabbiato: ma se è comprensibile che il Partito comunista presenti un disegno
di legge come semplice strumento deterrente, evitando di farlo procedere verso
la discussione, per imporre la medesima sorte a un disegno ministeriale i
deputati comunisti debbono contare sulla connivenza di deputati del Centro: si
sussurra che abbiano operosamente contribuito all’insabbiamento i luogotenti
parlamentari di Bonomi.
Ma l’autocrate non ha eredi Ma se interrogarsi sull’inerzia di Giovanni Marcora
nella vicenda conduce a verificare l’assenza del Governo nello scontro sull’organismo
cui è affidata, in misura cospicua, l’economia agraria nazionale, i cui destini
sarebbero stati rimessi ad un assessore di romagnola intraprendenza e a un
direttore generale aduso a lucrare sugli oneri dell’ammasso del grano, è
doveroso chiedersi di quali capacità di manovra disponga ancora il grande
apparato economicodopo l’esplosione di tensioni contenute, per anni,
nell’assenza di ogni volontà di affrontare e risolvere i problemi che le
alimentavano. Ho suggerito che la vitalità della Frederconsorzi non può non
risultare compromessa dalla perdurante assenza di un vertice in grado di
giostrare nell’agone politico alla Coldiretti, per trent’anni baluardo politico
dell’organizzazione federconsortile. Al rilievo si può aggiungere essere
probabile che sia stata proprio l’assenza di quel vertice a indurre Leonida
Mizzi a negoziare, senza richiedere il placet del proprio signore politico, il
“compromesso” che, per parte propria, il Partito comunista era altrettanto
interessato a suggellare. Ma Mizzi è scomparso: è difficile credere che la
dirigenza federconsortile, rimasta orfana dell’autocrate che l’ha governata,
per tre decenni, tutto disponendo e nessun potere delegando ad altri, priva del
baluardo della Coldiretti, possa proseguire la perigliosa navigazione che aveva
affrontato l’antico ammiraglio, la navigazione che si è rivelata fatale quando
in rotta di collisione contro la corazzata condotta con tanta improntitudine si
è diretta, determinata allo schianto, la torpediniera della Confcooperative. Allarmata
la Coldiretti,
allarmata la Democrazia
cristiana, costretti alla difensiva i comunisti contestati dagli alleati
socialisti, pare difficile che tra le parti del “compromesso” non suggellato
possa riaprirsi la trattativa per giungere alla conclusione che le reazioni
hanno impedito. Scomparso Mizzi il ruolo è stato ricoperto da Enrico Bassi, uno
dei collaboratori più fidati dell’autocrate, per giudizio unanime un
amministratore capace: ma Mizzi non era solo un amministratore, era la Presidenza ed il Consiglio,
sistematicamente impegnati a prevederne la volontà, per non imporgli l’incomodo
di impartire ordini. Alla presidenza siede, dopo la diuturna presenza ombra di
Aldo Ramadoro, il vulcanologo partenopeo Mario Vetrone, uno degli uomini più
vicini a Bonomi, che all’indomani dell’elezione mostrava propositi di segno
radicalmente diverso da quelli del predecessore, ma che, richiamato, risulta,
dallo stesso Bonomi, alla realtà dei propri compiti, avrebbe accettato di
riconoscere che il mandato che gli era affidato, sontuosamente onorato, non
differiva, nella sostanza, da quello di chi aveva prima di lui usato la stessa
scrivania per firmare quanto reputava irriguardoso fare oggetto di lettura. E
tra i venti membri del Consiglio di amministrazione, undici di fede bonomiana,
sette paludati delle insegne della Confagricoltura, due rappresentanti del
personale, non è dato scorgere l’impeto per infrangere la tradizione di una
lucrosa sinecura.
Due uomini, le ultime carte Scomparso Mizzi, Vetrone avrebbe promosso, alle
prime riunioni del Consiglio, due misure a favore dei Consorzi provinciali, la
riduzione del tasso di interesse e il ristorno, a favore degli enti federati,
degli utili della gestione centrale, due misure in stridente contrasto con la
prassi pluridecennale con cui Mizzi pretendeva di ricavare, dai rapporti con i
Consorzi, ogni utile possibile: il segnale di una strategia nuova, o la
furbesca ricerca del consenso più facile? Di cui il presidente, che dopo le
solenni esequie avrebbe impugnato, per la prima volta lo scettro, si
avvarrebbe, si sussurra a Roma, per la gestione più familiare delle cariche
nelle società collegate, miniera inesauribile di presidenze, vicepresidenze,
rapporti di consulenza. Ma ristornare utili facili ai Consorzi ed elargire cariche
onorevoli nelle società collegate non sono prove che consentano di attribuire
al nuovo presidente un progetto vitale e l’autorità per realizzarlo. La domanda
cui si vorrebbe poter rispondere, dopo che, scomparso Mizzi, Mario Vetrone può
esercitare i propri poteri, è la domanda sul peso del parlamentare campano
nella corte bizantina che circonda Paolo Bonomi incapace, ormai, di qualunque
espressione pubblica. La
Federconsorzi è nelle sue mani? Non ha dubbi a proporre una
risposta negativa chi ricorda che tra i boiardi che circondano il monarca
sofferente la chiave dei rapporti con la Democrazia cristiana è, probabilmente, nelle mani
di Fernando Truzzi, in Senato membro della commissione ristretta demandata di
amalgamare i disegni di legge sull’Aima, l’uomo in grado, verosimilmente, di
proseguire il negoziato con il Partito comunista o di dirigerlo al definitivo
naufragio. I destini della Federconsorzi, nave ammiraglia di una flotta
poderosa priva di comandante e di piani di navigazione, potrebbero essere affidati
a un nostromo cresciuto sui “laghi” di Mantova, stagni elevati a rango di laghi
a onore di Virgilio e dei marchesi di Gonzaga.
Ma dalla corte bizantina che attornia il monarca debilitato sul “compromesso”
che stava per essere suggellato tra il vassallo per trent’anni
indefettibilmente fedele e il nemico storico non è stata proposta una nota di
commento, non è trapelato un segno di assenso o di opposizione. Ha taciuto il
monarca, tacciono i cortigiani: chi pronunciasse una parola avrebbe
pronunciato, probabilmente, l’ultima parola di dirigente della Confederazione
nazionale dei coltivatori diretti. Non parlano i rivali, non si può attendere che
parli Truzzi. Se i destini della maggiore organizzazione dell’agricoltura
italiana sono nelle sue mani, se dipendono dalla sua volontà di negoziare, o
dalla sua scelta di rifiutare, come Mizzi ha rifiutato per trent’anni, ogni
trattativa, non ci è dato sapere come userà le carte che impugna. Un giorno,
forse, la storia dovrà attribuirgli il merito di avere preservato il grande
apparato alle necessità dell’agricoltura italiana, forse dovrà imputargli di
avere destinato, per sicumera o per pavidità, quell’apparato alla dissoluzione.
Già pubblicati:
1ª parte
2ª parte
3ª parte
4ª parte
5ª parte
6ª parte
Già Docente di Storia dell'agricoltura all'Università di Milano, giornalista, storico delle scienze agrarie. Ha diretto la rivista mensile di agricoltura Genio Rurale ed è stato vicedirettore del settimanale, sempre di argomento agricolo, Terra e vita. E' autore della Storia delle Scienze Agrarie opera in 7 volumi. www.itempidellaterra.com
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