di Alberto Guidorzi
IL PRIMO IMPULSO ALLA CREAZIONE DELL’INDUSTRIA SACCARIFERA ITALIANA
Prima puntata:
Le piante saccarifere industriali e la loro storia
Seconda puntata:
La produzione dello zucchero nel mondo fino al consolidamento
Seconda puntata:
La produzione dello zucchero nel mondo fino al consolidamento
Foto 1 - Una delle
più antiche
rappresentazioni delle bietola da zucchero
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In agricoltura, sotto l’azione del mercato internazionale, s’instaurò un processo di specializzazione agricola e la modifica della dislocazione territoriale delle coltivazioni.
Nella parte bassa della pianura orientale padano-veneta furono messe a coltura molte nuove terre mediante la bonifica idraulica e nella parte centrale della pianura la coltivazione della canapa cominciò a risentire della concorrenza di fibre nuove e di minor costo come la iuta ed il cotone. In altri termini si resero disponibili delle terre alla bieticoltura e quest’ultima fu grandemente propagandata da molti agronomi, ad es. Adriano Aducco, e dalle avanguardie dei grandi proprietari terrieri.
Questi infatti vedevano nella nuova coltivazione la possibilità di migliorare le rotazioni agrarie e di ricavare sottoprodotti ad uso zootecnico (foglie, colletti e polpe – Foto 1) che avrebbero dal canto loro consentito l’intensificazione degli allevamenti aumentando così la produzione di letame che avrebbe a sua volta contribuito a migliorare la fertilità dei terreni.
La bonifica idraulica inoltre aveva creato una fitta rete di canali, che potevano fornire la molta acqua necessaria all’industria di lavorazione oltre a poter essere sfruttati per il trasporto della materia prima. Per di più, la molta manodopera richiamata da altre zone per costruire le opere di bonifica si rendeva disponibile per i lavori di coltivazione della nuova pianta e per la sua successiva trasformazione. Si ricorda che a quel tempo la bietola si seminava manualmente (foto 2) e la si doveva diradare subito dopo (foto 3), zappare più volte, estrarre dal terreno a mano, privarla delle foglie, caricarla su carri e, una volta giunta in zuccherificio, era da scaricare sempre manualmente.
Questi infatti vedevano nella nuova coltivazione la possibilità di migliorare le rotazioni agrarie e di ricavare sottoprodotti ad uso zootecnico (foglie, colletti e polpe – Foto 1) che avrebbero dal canto loro consentito l’intensificazione degli allevamenti aumentando così la produzione di letame che avrebbe a sua volta contribuito a migliorare la fertilità dei terreni.
La bonifica idraulica inoltre aveva creato una fitta rete di canali, che potevano fornire la molta acqua necessaria all’industria di lavorazione oltre a poter essere sfruttati per il trasporto della materia prima. Per di più, la molta manodopera richiamata da altre zone per costruire le opere di bonifica si rendeva disponibile per i lavori di coltivazione della nuova pianta e per la sua successiva trasformazione. Si ricorda che a quel tempo la bietola si seminava manualmente (foto 2) e la si doveva diradare subito dopo (foto 3), zappare più volte, estrarre dal terreno a mano, privarla delle foglie, caricarla su carri e, una volta giunta in zuccherificio, era da scaricare sempre manualmente.
Foto 2 - Semina
manuale a postar ella.
L’uomo crea dei pozzetti nei quali la donna
deposita una decina di glomeruli plurigermi.
Il che comporterà il successivo diradamento.
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Foto 3 -
Diradamento manuale con
gli operai inginocchiati sul terreno.
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Se a ciò aggiungiamo l’inversione di tendenza a livello governativo nei riguardi della politica liberistica fino ad allora praticata, ben si comprende l’esplosione dell’industria saccarifera italiana a cavallo del passaggio di secolo. Lo sviluppo di quest’industria è indicata dall’aumento degli ettari coltivati, che nel periodo suddetto passarono da 3000 a 30.000 mentre la produzione di zucchero arrivò a coprire i due terzi dei consumi italiani. Occorre qui precisare che la raffinazione era ancora un’attività a sé stante ed infatti, nel 1905 delle 31 fabbriche attive solo 7 avevano associata anche la raffineria, mentre tutte le altre erano bietolerie.
Possiamo infine annotare che l’industria saccarifera sorge in gran parte per opera d’investitori genovesi: armatori, che a causa del declino della navigazione a vela cercano di diversificare, e banche. Non bisogna inoltre sottacere i tentativi fatti con capitali saccariferi esteri che di fronte alle difficoltà di esportare lo zucchero prodotto in patria, cercarono di portare la produzione nei paesi massimi importatori netti come l’Italia. Vi furono anche casi di patrizi e aristocratici latifondisti che si unirono ai tecnici dello zucchero e agli agronomi per sviluppare la coltivazione e impiantare zuccherifici.
Con questa trasformazione la città di Genova, da città sede dei raffinatori si trasformò in sede di società che gestivano e finanziavano opifici che producevano zucchero nazionale in zone fuori della Liguria. L’industria dello zucchero venne così a configurarsi come un caso di sfruttamento “colonialistico” che, nelle aree “colonizzate” ebbe pesanti implicazioni sia in termini di distorsione del mercato del lavoro (mantenimento in permanenza di un bracciantato avventizio da utilizzare solo nei periodi della campagna di trasformazione o al massimo di “pre” o “post”), sia in termini di attrazione del risparmio locale verso l’azionariato di società saccarifere con conseguente penalizzazione d’altre attività produttive. Da non trascurare poi il fatto che, per la struttura peculiare degli stessi, gli impianti saccariferi non favorirono lo sviluppo dell’artigianato preesistente nella zona e non ne promossero di nuovo. Gli artigiani locali trovarono più comodo vivere sugli appalti assegnati loro all’interno dello zuccherificio, che impegnarsi a sviluppare altre nuove attività. Inoltre in nessun reparto si eseguivano lavori tali da far si che le acquisizioni tecnico-pratiche in essi conseguite potessero essere trasferite ad altri settori. In altre parole possiamo dire che lo zuccherificio portò grande benessere nei paesi sede dell’impianto, ma nello stesso tempo e, visto col senno di poi, non creò le condizioni per quello futuro.
Ad inizio novecento si hanno le prime avvisaglie delle problematiche che caratterizzeranno la filiera anche per gli anni prossimi a venire: gli scioperi dei braccianti, il sorgere del problema di nuovi parametri per il pagamento delle bietole (non più in funzione del solo peso delle radici, ma anche tenendo conto del contenuto zuccherino, vista l’intervenuta imposizione di tipi di seme a scarsa produzione di radici, ma ad alto tenore in zucchero), e come far fronte alle superproduzioni cicliche. Quest’ultimo problema, infatti, si era già presentato nel 1903 con 10.000 t di zucchero di sovrapproduzione rispetto ai consumi.
Per prendere i necessari provvedimenti nei riguardi di queste problematiche si scelse di formare un “cartello” tra quasi tutte le società saccarifere al fine di mantenere elevato, fino ai limiti permessi dalla protezione, il prezzo al consumo dello zucchero. D’altronde lo zucchero generava entrate fiscali affatto trascurabili per lo Stato e pertanto il potere politico non si opponeva alla creazione di un vero e proprio monopsonio. Fu con questo stato di fatto che l’Italia si presentò alla Convenzione di Bruxelles del 1902. Il consesso aveva lo scopo di regolamentare il settore in modo più liberale, mettendo attorno ad un tavolo i produttori e i consumatori. Vi erano tuttavia volontà contrastanti tra l’Italia e tutti gli altri paesi seduti a Bruxelles. Il Maraini, nominato nel frattempo deputato, fu tanto abile da ottenere deroghe per l’Italia in cambio della promessa di non far divenire l’Italia esportatrice.
Le condizioni favorevoli che si stavano creando per l’industria saccarifera, portarono ad una notevole ricapitalizzazione del settore e nel contempo maturò da parte dei bieticoltori l’acquisizione dell’importanza di riunirsi in associazione per porsi come controparte degli industriali. E’ anche il momento della nascita della contrapposizione, protrattasi fino ai nostri giorni, tra la filiera bieticolo-saccarifera e gli economisti liberisti i quali affermavano che occorreva diminuire la protezione accordata al settore per rendere la derrata molto più accessibile ai consumatori ed aumentare così i consumi (ancora attestati su 3 kg pro-capite). La tesi liberista era suffragata dal prezzo troppo elevato e che, a loro dire, limitava i consumi. Lo zucchero, infatti, costava rispettivamente: un terzo e la metà in Inghilterra ed in Francia, e qui era consumato in quantità doppie e triple. Vedremo però che questa tesi non ha mai trovato conferma in Italia, dove anche attualmente i consumi sono tra i più bassi d’Europa; le ragioni stanno nel fatto che la dieta mediterranea, a differenza delle diete nordiche, da sempre si è basata su fonti zuccherine molto più diversificate (vino, pane, pasta e frutta).
La sostanziale alleanza tra Stato e industrie saccarifere comportò solo un lieve calo di prezzo e ciò non fece aumentare i consumi. La protezione accordata, però, procurò l’effetto secondario, ma non per importanza, di frenare la ricerca d’innovazione nei processi di lavorazione. In altri termini la mancanza di concorrenza esercitava pochi stimoli alla ricerca ed al miglioramento tendente ad ottenere una maggiore economicità nella trasformazione industriale. Basti qui dire che tutte le fabbriche costruite erano consegnate “chiavi in mano” da costruttori esclusivamente esteri.
Anche in campo agricolo si constateranno pochi progressi ed è perciò che si istituirà nel 1912 la Stazione sperimentale di bieticoltura di Rovigo sotto la direzione di Ottavio Munerati, scienziato invidiatoci all’estero, ma dimenticato in Italia (Foto 4). Dai 47.000 ha del 1908 si passò agli 87.000 del 1913 per poi tornare ai 37.000 nel 1914. Infatti, l’anno 1913 determinò un’eccezionale superproduzione, ma sempre senza influenzare il livello dei prezzi.
Foto 4- Ottavio Munerati |
Alla vigilia della prima guerra mondiale in Italia vi sono tre raffinerie e 39 zuccherifici, dei quali otto hanno annessa la raffineria. L’80% di questi sono localizzati in Emilia Romagna e Veneto ed in queste regioni sono le due province di Ferrara e Rovigo che fanno la parte del leone; le società saccarifere sono 26 e ben 13 hanno sede a Genova. A livello storico più generale si noti che i dirigenti di quest’ultime furono favorevoli all’intervento in guerra e l’interventismo si spiega con la loro estrazione siderurgico-armatoriale che ne faceva dei tradizionali fornitori dell’esercito. Essi finanzieranno il movimento interventista sia direttamente che tramite l’acquisizione di testate giornalistiche, come ad esempio il “Resto del Carlino” ed il “Popolo d’Italia”.
L’entrata in guerra dell’Italia ed il successivo periodo di guerra, comportarono per il settore delle conseguenze di non poco conto:
- un terzo della superficie coltivata a bietole era nella zona interessata dal fronte
- vengono a mancare totalmente le sementi che importavamo massivamente dai paesi germanici, mentre le sementi ricavate dal materiale genetico italiano e quelle importate dalla Russia erano di scarsa qualità
- non si era più in grado di sostituire i macchinari che erano stati forniti quasi esclusivamente dai paesi divenuti nostri nemici. In campo agricolo forse avremmo dovuto registrare una riduzione più massiccia degli investimenti, se non si fosse formata nel 1917 la Federazione Nazionale Bieticultori-(Fnb) che s’impegnò a mantenere la produzione ai livelli delle necessità belliche.
Si fa notare tra l’altro un aspetto particolare che ha connotato allora la schiera degli agricoltori coltivatori di bietole e che si manterrà anche in seguito, vale a dire quello di “cultori della bietola” più che di “coltivatori”. La particolarità penetrò così in profondità nei comprensori bieticoli che fu accettata l’elezione dei bieticoltori a classe d’“elite” tra gli agricoltori. La nuova “casta” fu grandemente valorizzata durante il “ventennio” e non per niente il giornale della FNB (poi ANB) continuerà a chiamarsi fino ai nostri giorni “il Giornale del Bieticultore”. Intanto assistiamo ad un proliferare delle partecipazioni azionare tra le varie società saccarifere. Le società Ligure Lombarda ed Eridania, oltre ai propri stabilimenti, controllavano, tramite partecipazioni azionarie, altre 16 società. Ad esse va affiancata anche la Società italiana per l’industria dello zucchero indigeno. Erasmo Piaggio, il Maraini ed Emilio Bruzzone hanno interessi in tutte e tre. Solo il 26% (10 stabilimenti) della produzione è in certo qual modo indipendente. Emilio Bruzzone e Serafino Cevasco saranno i manager che gestiranno queste società per lungo tempo.
Tuttavia, durante gli anni della prima guerra mondiale l’economia saccarifera si contrasse e gli agricoltori preferirono seminare colture meno avide di manodopera per cui, onde far fronte ai bisogni, le importazioni di zucchero di canna aumentarono. La domanda si fece sostenuta (causa l’approvvigionamento degli eserciti) ed i prezzi salirono fino agli anni venti, per poi flettere. Nacque, infatti, in questo periodo la nuova strategia della società Eridania per opera di Serafino Cevasco, vale a dire quella di dotarsi di superfici agricole per cercare di creare un’integrazione verticale ed emanciparsi dai comportamenti alterni degli agricoltori. L’interesse fondiario dell’Eridania rimarrà tale per oltre 70 anni, cioè fino alla caduta del gruppo Ferruzzi nell’ultimo decennio dello scorso secolo. L’Eridania fu anche la prima a dotarsi di un centro di selezione e produzione di seme bietole nel 1919.
All’inizio della prima guerra mondiale erano in funzione i seguenti zuccherifici: Spinetta Marengo, Casalmagggiore, Ostiglia (Lombardia-Piemonte) ; S.Bonifacio, Cologna Veneta, Legnago, Stanghella, Pontelongo, Cavanella Po, Bottrighe, Rovigo, Lendinara, Ficarolo (Veneto) ; Sarmato, Piacenza, Parma, Bondeno, Pontelascuro 1, Pontelagoscuro 2, Ferrara 1, Ferrara 2, Codigoro, Anita, Bologna, Massalombarda, Mezzano, Classe, Forlì, Cesena (Emilia) ; Granaiolo, Cecina (Toscana) ; Foligno (Umbria) ; Avezzano (Abruzzo) ; Rieti (Lazio). Il grosso di queste fabbriche era stato costruito fra fine ‘800 ed inizio ‘900. Infine la produzione bieticola media di questo periodo era di 280 q/ha con polarizzazione di 13,80.
Alberto Guidorzi
Agronomo. Diplomato all' Istituto Tecnico Agrario di Remedello (BS) e laureto in Scienze Agrarie presso UCSC Piacenza. Ha lavorato per tre anni presso la nota azienda sementiera francese Florimond Desprez come aiuto miglioratore genetico di specie agrarie interessanti l'Italia. Successivamente ne è diventato il rappresentante esclusivo per Italia; incarico che ha svolto per 40 anni accumulando così conoscenze sia dell'agricoltura francese che italiana.
Alberto Guidorzi
Agronomo. Diplomato all' Istituto Tecnico Agrario di Remedello (BS) e laureto in Scienze Agrarie presso UCSC Piacenza. Ha lavorato per tre anni presso la nota azienda sementiera francese Florimond Desprez come aiuto miglioratore genetico di specie agrarie interessanti l'Italia. Successivamente ne è diventato il rappresentante esclusivo per Italia; incarico che ha svolto per 40 anni accumulando così conoscenze sia dell'agricoltura francese che italiana.
Ad integrazione di quanto scritto da Alberto circa la scarsità di seme di barbabietola durante la Grande guerra è da ricordare il ruolo svolto, in questo ambito, dal solito Nazareno Strampelli, che a Rieti, su incarico della Società Italiana per la Produzione dello Zucchero Indigeno, si occupò di produrre il seme di barbabietola fornendo così un importante contributo al problema della penuria di semente e della sua importazione dall’estero. Agli studi sulla barbabietola Strampelli dedicò anche una delle sue prime pubblicazioni («Alcune esperienze intorno alla coltura della barbabietola da zucchero», Bullettino Ufficiale del Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, 1907, pp. 628-633).
RispondiEliminaSergio Salvi