di Luigi Mariani
Spighe di mais |
Due amici mi hanno sottoposto per un giudizio l’articolo a firma di Veronica Ulivieri dal titolo “Cereali: in 45 anni produttività crollata del 10% per caldo e siccità” e dal sottotitolo “I
più colpiti sono i Paesi più avanzati che hanno fatto registrare una
diminuzione del 20% tra il 1964 e il 2007. A causa dell’uniformità di
colture e metodi produttivi.”.
L’articolo si richiama ai dati pubblicati nella letter di Corey Lesk,
Pedram Rowhani e Navin Ramankutty recentemente uscita su Nature (vol.
529, 7 gennaio 2016, 84-99) dal titolo “Influence of extreme weather
disasters on global crop production” e che è riferita ai tre grandi
cereali che nutrono il pianeta (frumento, mais e riso).
L'articolo è uscito in origine su Climatemonitor
L'articolo è uscito in origine su Climatemonitor
Occorre anzitutto dire che l’articolo del Corriere inizia fin dal
titolo con una palese bugia, in quanto parla di “produttività crollata”
mentre le statistiche produttive globali mostrano al contrario un enorme
incremento della produttività ettariale dei cereali che nutrono il
mondo. Più in particolare secondo dati FAO nel
periodo che và dal 1961 al 2013 la produttività del frumento è
triplicata, passando da 1.24 t/ha a 3.26 t/ha (+200% e cioè +3.8%
l’anno), la produttività del mais è quasi triplicata, passando da 1.9 a
5.5 t/ha (+183% e cioè +3.5% l’anno) e quella del riso è più che
raddoppiata, passando da 1.9 a 4.5 t/ha (+140% e cioè +2.6% l’anno).
Come si fa dunque a parlare di “crollo delle rese” di fronte a
incrementi di produttività tanto rilevanti da avere garantito un
sostanziale calo nella percentuale di sottonutriti, passati dal 37%
della popolazione mondiale del 1971 all’11% del 2013?
Vi immaginate se una bugia come quella presentata nel titolo del
Corriere fosse stata diffusa con riferimento a un settore dell’industria
o del terziario, di quelli che danno l’impronta ai listini azionari? Il
vespaio che ne sarebbe derivato sarebbe stato di dimensioni cosmiche.
Qui invece possiamo prevedere che non accadrà nulla, il che dà ragione
alla scelta del Corriere, quantomeno sul piano dello scoop anche se non
certo sul piano etico. In altri termini, il popolo bue anela alla
catastrofe? E diamogliela! Ad iniziare dalla foto che ci mostra un campo
di mais distrutto dalla siccità. E poi giù a parlare di morti per fame,
di cali produttivi del 10% equivalenti a tre anni di produzione e
compagnia cantante.
Giova qui rammentare che l’agricoltura è un’attività a cielo aperto
per cui a fronte degli incrementi produttivi enormi che ho dianzi citato
si vive una consistente variabilità interannuale. Tale variabilità è
rilevante se la si osserva a livello sub-nazionale o nazionale ma viene
grazie a Dio di molto ridimensionata a livello globale per il fatto che
le fluttuazioni positive e negative si compensano, soprattutto perché si
opera su ambiti molto diversi dal punto vista meteo-climatico e
addirittura sui due emisferi, per cui è praticamente impossibile che
tutto possa andar male dappertutto.
A questo punto possiamo passare a domandarci come mai a fronte dei
fattori negativi (siccità e ondate di caldo) descritti nell’articolo di
Nature e mutuati dal Corriere le rese crescano tutt’oggi tanto
sensibilmente. L’aumento di resa dev’essere letto come la risultante di
una serie di fattori che agiscono in senso positivo e/o negativo. Fra
questi, oltre alla siccità e alle ondate di caldo, occorre considerare
quantomeno i seguenti:
- Il clima più mite degli ultimi 30 anni, con conseguenti minori danni da freddo
- la CO2 che come cibo delle piante spinge verso l’alto le produzioni, con un incremento di resa stimabile grossomodo nel 20% rispetto al periodo pre-industriale
- i rilevanti progressi tecnologici nella genetica (varietà migliorate, inclusi gli OGM che oggi coprono il 12% degli arativi)
- i rilevanti progressi tecnologici nelle agrotecniche (meccanica agraria, concimazione, ecc.). In particolare è da segnalare il sensibile ampliamento delle aree irrigue che oggi coprono il 20% degli arativi garantendo ben il 40% delle produzione agricola globale
- le perdite produttive dovute agli attacchi da malerbe, patogeni e parassiti animali e che Oerke (2006) ha quantificato a livello globale nel 28.2% per il frumento e nel 31.2% per il mais per il periodo 2001-2003.
E veniamo infine a commentare l’articolo di Nature da cui ha tratto
spunto il “pezzo” del Corriere della Sera. E qui dobbiamo ahimè
constatare che “il pesce puzza dalla testa”. Infatti la letter di Lesk
et al. (2016) analizza il periodo che va dal 1964 al 2007 ma si guarda
bene dall’evidenziare i rilevantissimi incrementi produttivi che sta
vivendo l’agricoltura mondiale, limitandosi a parlare delle decurtazioni
dovute agli eventi estremi e segnalando in particolare che le perdite
per siccità sarebbero passate dal 6.7% del periodo 1964-1984 al 13.7%
del periodo 1985-2007 (incremento che risulta significativo al 92%).
Curiosamente su questi dati gli autori esprimono un certa dose di
“scetticismo”, quando scrivono che l’aumento dei danni da siccità “may
be due to any combination of rising drought severity (although whether
drought severity has increased globally is presently debated),
increasing vulnerability and exposure to drought, and/or changing
reporting dynamics”. Gli autori stessi dichiarano inoltre di non
essere in grado di ripetere un’analisi analoga con riferimento alle
ondate di calore a causa dell’insufficiente dimensione del campione.
Segnalo infine che Lesk et al (2016) evidenziano anche che le
agricolture sviluppate sono più sensibili alla siccità, con cali di resa
medi annui dovuti a siccità pari al 19.9% per Nord America, Europa e
Australasia contro il 12.1% in Asia, il 9.2% in Africa e i cali
irrilevanti in America latina e Caraibi. Tale diversa sensibilità viene
attribuita dagli autori al fatto che nei paesi in via di sviluppo si
coltivano molte specie e varietà su piccolissimi appezzamenti, il che
garantirebbe una maggior resilienza rispetto alla siccità.
Tale ragionamento mi pare debole, anzitutto perché l’America latina presenta non solo paesi in vai di sviluppo ma anche vari paesi ad agricoltura evoluta quali Argentina, Brasile, Uruguay e Cile. A ciò si aggiunga che se l’obiettivo produttivo per il frumento è di 1.5 t/ha, come spesso accade nei paesi in via di sviluppo, esso può essere realizzato anche in presenza di fattori di stress quali la siccità mentre se l’obiettivo è di 8 t/ha, come spesso accade nei paesi ad agricoltura evoluta, tutti i fattori produttivi devono operare al meglio e dunque non sono tollerabili carenze nutrizionali, attacchi da parassiti, patogeni, malerbe e men che meno siccità. Peraltro non vorrei che in base ai dati prodotti da Lesk et al (2016) qualcuno accarezzasse l’idea di porre i sistemi produttivi agricoli propri dei paesi in via di sviluppo come un obiettivo da perseguire per le agricolture dei paesi evoluti. Ciò si rivelerebbe infatti un suicidio, non solo per le agricolture evolute ma anche per i paesi che da tali agricolture dipendono per i loro approvvigionamenti. Ciò anche perché occorre ricordare che “l’uniformità di colture e metodi produttivi”, che il corriere stigmatizza nel sottotolo, è un fattore essenziale per le filiere agricolo-alimentari evolute, in quanto consente di formare quelle partite di grandi dimensioni e qualitativamente omogenee che sono essenziali per il commercio e per l‘industria agro-alimentare.
Tale ragionamento mi pare debole, anzitutto perché l’America latina presenta non solo paesi in vai di sviluppo ma anche vari paesi ad agricoltura evoluta quali Argentina, Brasile, Uruguay e Cile. A ciò si aggiunga che se l’obiettivo produttivo per il frumento è di 1.5 t/ha, come spesso accade nei paesi in via di sviluppo, esso può essere realizzato anche in presenza di fattori di stress quali la siccità mentre se l’obiettivo è di 8 t/ha, come spesso accade nei paesi ad agricoltura evoluta, tutti i fattori produttivi devono operare al meglio e dunque non sono tollerabili carenze nutrizionali, attacchi da parassiti, patogeni, malerbe e men che meno siccità. Peraltro non vorrei che in base ai dati prodotti da Lesk et al (2016) qualcuno accarezzasse l’idea di porre i sistemi produttivi agricoli propri dei paesi in via di sviluppo come un obiettivo da perseguire per le agricolture dei paesi evoluti. Ciò si rivelerebbe infatti un suicidio, non solo per le agricolture evolute ma anche per i paesi che da tali agricolture dipendono per i loro approvvigionamenti. Ciò anche perché occorre ricordare che “l’uniformità di colture e metodi produttivi”, che il corriere stigmatizza nel sottotolo, è un fattore essenziale per le filiere agricolo-alimentari evolute, in quanto consente di formare quelle partite di grandi dimensioni e qualitativamente omogenee che sono essenziali per il commercio e per l‘industria agro-alimentare.
Bibliografia
- Lesk C., Rowhani P., Ramankutty N., 2016. Influence of extreme weather disasters on global crop production, Nature, vol. 529, 7 gennaio 2016, 84-99.
- Oerke E.C., 2006. Crop losses to pests, The Journal of Agricultural Science, Vol. 144, Issue 01, 31-43 (qui)
Luigi Mariani
Docente di Storia dell' Agricoltura Università degli Studi di Milano-Disaa, condirettore del Museo Lombardo di Storia dell'Agricoltura di Sant'Angelo Lodigiano. E' stato anche Docente
di
Agrometeorologia e Agronomia nello stesso Ateneo e
Presidente dell’Associazione
Italiana di Agrometeorologia.
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