di Antonio Saltini
5ª parte
Nei primi anni del dopoguerra la Federconsorzi riordina l'apparato con cui distribuisce alle campagne beni strumentali, ma soprattutto perfeziona gli strumenti per le gestioni annonarie. I capitolati in base ai quali eroga alimentari americani e raccoglie il grano nazionale sono la chiave dell'età di Bonomi e di Mizzi. In quei capitolati è il segreto dell'opulenza, nel loro machiavellismo la ragione remota del declino.
Paolo Bonomi e Leonida Mizzi, il tribuno incline ai toni demagogici, il nemico implacabile dello stalinismo in panni italici, e l'amministratore, insieme mercante e finanziere, in entrambi i ruoli, concordano quanti lo conobbero, capace di sottigliezze machiavelliche. L'artefice della compagine contadina che ha contribuito a consolidare in Italia la democrazia repubblicana e l'accumulatore sagace che da una rete di magazzini devastati dalle bombe ricostruisce un apparato economico che, all'apice dello splendore, negli anni '60, rappresenta, dopo l'Iri e la Fiat, il terzo complesso economico nazionale: due personalità, una vicenda della storia italiana.
Affitti e spese elettorali
Le prime analisi storiche dell'età di De Gaspari e di Scelba, di Togliatti e di Nenni, hanno trascurato Bonomi e la Coldiretti, così come le prime indagini economiche sugli anni del "miracolo italiano" hanno lasciato ai margini del campo la Federconsorzi di Mizzi. Le due omissioni non potranno essere perpetuate: quando, in entrambe le sfere storiografiche, dalle prime esplorazioni si vorrà mirare a ricostruzioni sistematiche, non si potrà trascurare l'organizzazione che ha radicato, insieme alla democrazia, la Democrazia cristiana nelle campagne, né l'apparato che ha rifornito di macchine e fertilizzanti l'agricoltura italiana durante il Ventennio della sua metamorfosi in agricoltura moderna. Se la considerazione dei due organismi condurrà, necessariamente, all'analisi dei rispettivi legami, lo studio dei due condottieri imporrà di verificare la natura dei rapporti che ne hanno unito la sorte.
Delle correlazioni tra Coldiretti e Federconsorzi, dalla conquista democristiana al repentino collasso, è noto quanto testimonia una serie di dati obiettivi, la cui evidenza consentirà agli storici la semplice trascrizione della cronaca. Il primo è l'assoluta padronanza del consiglio di amministrazione della Federconsorzi da parte della Coldiretti, che può permettersi di offrire alla Confagricoltura, nell'età di Bonomi organizzazione vassalla, una rappresentanza paritetica: sarà il successore di Bonomi, incerto della propria sicurezza, a pretendere la maggioranza dei consiglieri. Il secondo è la prestazione, da parte della Federazione e dei consorzi agrari, di una serie vastissima di tributi alla Confederazione e alle federazioni provinciali: l'elenco comprende l'affitto a prezzo simbolico del principesco palazzo che ospita, nella capitale, la sede dell'organizzazione contadina e di innumerabili sedi provinciali, offerte dai consorzi agrari pertinenti; comprende lo stipendio di decine di funzionari, cui provvede la Federconsorzi, consentendo che operino, col titolo di "comandati", per l'organizzazione professionale; comprende la stampa, a centinaia di migliaia di copie, dei fogli periodici della Confederazione, demandata alla tipografia editrice della Federconsorzi, la società Reda, di cui l'organismo maggiore ripiana sistematicamente i bilanci.
Oltre alle prestazioni palesi vi sono quelle occulte, tali, peraltro, da non poter essere ignorate da chi scriverà la storia politica dell'Italia repubblicana. La storia non potrà trascurare, infatti, le erogazioni che avrebbero finanziato le campagne elettorali della Coldiretti, che all'apice dei propri fasti assicura l'ingresso alla Camera di cinquanta deputati, contribuisce all'elezione di venti senatori. Gli indizi che suggeriscono che le mani di Bonomi abbiano convogliato fiumi di denaro sono molteplici, e, pure non mutando la natura di indizi, concordanti: oltre a indurre a reputare che il capitano della Coldiretti ne abbia largamente disposto a fini politici e elettorali, spingono a supporre che ne abbia trattenuta parte per ragioni, seppure attinenti la sfera familiare piuttosto di quella politica.
Della disponibilità elettorale costituisce eloquente neppure elemento di prova l'imponenza dell'apparato confederale, che neppure il commentatore più candido potrebbe reputare finanziato attraverso il tesseramento dei coltivatori. Sul terreno personale si deve citare l'incidente doganale che rivelò nei familiari del tribuno contadino disinvolti esportatori di valuta, e le notizie di stampa sui depositi della famiglia Bonomi presso l'Italcasse, un istituto le cui funzioni non prevedevano la custodia dei risparmi privati, indotto, parve, ad operare un'eccezione dal prestigio del personaggio, e dall'entità della somma. Si aggiunge ed integra gli indizi diversi il cieco attaccamento del vecchio tribuno al ruolo e al seggio in Parlamento anche quando una malattia debilitante gli avrà sottratto ogni facoltà di attività pubblica: al di là della dedizione alla causa dei coltivatori, in tanto attaccamento è difficile non vedere l'ansia di conservare quell'immunità senza la quale gli incidenti finanziari avrebbero potuto condurre, seppure la magistratura non fosse pervasa, allora, dallo zelo verso i parlamentari che l'animerà, fugacemente, in tempi diversi, ad esiti sgradevoli.
Insieme alla pluralità degli altri connotati, anche l'uso del denaro avrebbe distinto il ragionier Mizzi dall'uomo cui aveva legato il destino, e al quale assicurava il mantenimento dell'imponente apparato sindacale e politico: secondo contemporanei autorevoli, si può citare Giuseppe Medici, il patrimonio lasciato, dopo una vita spesa per la propria creatura, da un grande corruttore, provava che mai il corruttore avrebbe usato a beneficio personale le disponibilità illimitate con cui avrebbe comprato la connivenza di autentici astri della vita nazionale. Gli amici che esaminarono, dopo la morte, le carte personali, trovarono una lunga serie di assegni della Banca nazionale dell'agricoltura: i gettoni di presenza attribuitigli come vicepresidente, che, investito del ruolo in quanto direttore della Federconsorzi, non avrebbe mai riscosso nell'incertezza di doverli rimettere alla cassa dell'organismo.
Un patto di voti e frumento
Nel lucido intervento ad un convegno su De Gaspari e l'età del centrismo Pietro Scoppola ha proclamato la necessità di rigettare, finalmente, la lettura degli anni della Ricostruzione come gli anni della generosa battaglia della sinistra per rinnovare il volto di un paese che una classe politica asservita al capitalismo internazionale si sarebbe adoperata a conservare nell'inerte immobilità rurale, quella lettura che gli apologeti di fede comunista hanno saputo imporre alla cultura storica, e radicare nella coscienza collettiva. Contro ogni sofisma storiografico, l'ultimo atto del dramma dei paesi in cui i luogotenenti di Stalin operarono quanto Togliatti e i suoi colonnelli non poterono realizzare in Italia, ha provato che se nel nostro Paese si combatté una dura guerra politica, gli alfieri della democrazia non furono gli alleati di Stalin, furono coloro che al Partito comunista si opposero con la crudezza imposta dal quadro nazionale e dalla cornice internazionale. Se, osservando quel quadro e quella cornice, non turba più coscienze pudibonde la prova che il Pci sarebbe stato sostanziosamente sovvenzionato dal partito confratello dell'Unione Sovietica, non dovrebbe costituire motivo di meraviglia verificare che la maggiore organizzazione sociale democristiana avrebbe attinto mezzi finanziari dall'istituzione economica di cui impugnava le redini.
A fornire quei mezzi, quanto ingenti fossero, la macchina economica guidata dal ragionier Mizzi non avrebbe conosciuto difficoltà. La storia che sarà scritta dovrà verificare, se reperirà le prove, entità e valori: a tracciare uno schizzo approssimativo, eppure non infondato, della Federconsorzi risorta dalle rovine della guerra si può rilevare che essa si impegna con determinazione su tutti i terreni tradizionali: quello dei fertilizzanti, quello delle macchine e quello, connesso, dei carburanti, quello delle sementi, e aggiungere che usa l'antica perizia, e congegna meccanismi nuovi, per la gestione delle scorte annonarie per conto dello Stato. I ricavi dell'attività svolta nei primi settori, negli anni in cui le folle contadine lasciano la terra e il loro lavoro è sostituito dall'uso più intenso dei mezzi della tecnica, sono imponenti: possono, tuttavia, essere misurati con esattezza. Di stima impossibile,i proventi delle attività annonarie suscitano, invece, gli interrogativi più ardui, quegli interrogativi la cui soluzione dovrebbe essere la chiave della storia della Federconsorzi: prima della loro soluzione quella storia non può che costituire mosaico di congetture.
Controparte sagace dell'industria meccanica e chimica nella stesura delle convenzioni che hanno determinato, nell'età del "boom" economico, i rapporti tra l'agricoltura e l'industria, il ragioniere piacentino esprime l'essenza del proprio machiavellismo nella congegnazione delle convenzioni con cui assicura allo Stato l'opera della Federconsorzi nel magazzinaggio, nella conservazione e distribuzione delle derrate essenziali, prima tra tutte il grano. Nel '47, si deve ricordare, il Governo può abolire l'ammasso totale obbligatorio: per scongiurare cadute dei prezzi nefaste agli associati, la Coldiretti si premura che all'ammasso obbligatorio sia sostituito l'ammasso per contingente. Data la maestria dimostrata, l'ente gestore resta immutato.
Stipulando i capitolati di ammasso Mizzi coinvolge la Federazione e i consorzi, di cui assicura al Governo l'attività concentrando i benefici a vantaggio dell'ente coordinatore. Tra quei benefici il primo consiste nella garanzia delle anticipazioni da parte del sistema bancario, al quale il Ministero del Tesoro offre le più solide garanzie. Il meccanismo si risolve in una fitta maglia di conti correnti, che attingono alla Banca d'Italia all'interesse dell'uno per cento per riversare la provvista, al tasso corrente, nelle partite attive della Federazione. Più di un osservatore ha arguito che nella differenza tra i tassi della Banca d'Italia e quelli correnti dovrebbero computarsi le spese, per la Nazione, delle vittorie elettorali democristiane. Un amico antico, l'avvocato Antonio Pepe, uno dei collaboratori più fidati di Mizzi, invitò a colazione chi scrive, al Circolo romano del polo, con il collega che avrebbe stilato gli assegni che il direttore generale portava, personalmente, alla sede della Democrazia cristiana. Invitato dall'amico comune a riferire il costo, per l'organismo, di ogni campagna elettorale, quasi convinto dal clima conviviale il vecchio ragioniere, anch'egli piacentino, parve cercare nella memoria la cifra, indugiò, rigettò fermamente, al dessert, l'ultimo invito.
I rendiconti, dramma surreale
Le convenzioni di ammasso saranno le secche sulle quali la corazzata economica finirà arenata. Formalmente ineccepibile, il machiavellico congegno che assicura un profluvio ininterrotto di denaro impone, infatti, una procedura complicatissima di rendicontazione: decine di banche e di consorzi debbono fornire documenti, che la Federazione deve presentare al Ministero dell'agricoltura, tenuto a controllare, tramite un'apposita commissione, per rimettere i fascicoli alla Corte dei conti, che esegue la verifica della verifica. Dato il meccanismo, qualsiasi ragioniere cavilloso può infirmare il più ineccepibile dei rendiconti: esso presuppone, perciò, controllori amici ai due ministeri coinvolti nei capitolati, l'Agricoltura e il Tesoro, e alla Corte. Perduta la preminenza degli anni del Centrismo, la Democrazia Cristiana non disporrà più, però, dell'antica onnipotenza ministeriale: le eccezioni potranno insorgere.
E insorgeranno.
La necessità, per l'approvazione, della signoria di due ministeri e della Corte detta il primo degli interrogativi sulla complessa vicenda: quanto consapevolmente Paolo Bonomi abbia avallato la dilazione della presentazione, la tattica scelta da Mizzi per accrescere, si deve ritenere, il volume degli interessi sui crediti verso il Tesoro. Ogni riserva ministeriale è destinata, infatti, a portare il confronto in Parlamento, dove un rifiuto a oltranza dovrebbe essere sostenuto da una maggioranza onnipossente. Lo stratega contadino reputa che la sua legione parlamentare sarà per sempre arbitra del bilancio dello Stato? Al primo quesito segue il secondo: quanto scientemente accettino, in quanto controparti formali, le condizioni di Mizzi ministri dell'Agricoltura e delTesoro dalla levatura di veri statisti, da Segni a Fanfani, da Colombo a Pella, da Vanoni a Medici.
Della successione delle convenzioni ministeriali è quella per l'ammasso per contingente a costituire la miccia di una polemica in cui la Federconsorzi si troverà costretta ad arroccarsi in difesa. Ad aprire l'offensiva è un giornalista di professione radicale dalle considerevoli capacità di analista finanziario, Ernesto Rossi, che dal 1953 prende a bersagliare la Federconsorzi e le sue gestioni dalle pagine del Mondo e dell'Astrolabio. Nel 1962 il tema si trasforma in autentico capo di imputazione a carico della Federconsorzi durante i lavori della commissione costituita dal Parlamento per esaminare i "limiti della concorrenza", che per l'organizzazione guidata da Mizzi si trasforma in corte d'assise.
Dinanzi alla corte, riveste la toga del pubblico ministero Manlio Rossi Doria, economista prestigioso di ispirazione socialista, che della denuncia delle oscurità dei rapporti tra Stato e Federconsorzi fa ragione di vita. Certo della maggioranza parlamentare, alle arringhe di accusa Bonomi non si perita di replicare. Mizzi, di cui gli antichi collaboratori ricordano il disprezzo per gli avversari, mantiene un altezzoso riserbo. Lo sprezzo della difesa offre il più utile tema propagandistico al Partito comunista, che secondo più di un osservatore sarà debitore alla Federconsorzi di molti dei voti che gli assicurano, nel 1963, un vistoso successo elettorale.
La Corte dei conti eccepisce
Mentre la polemica investe l'entità dei saldi vantati dalla Federconsorzi in base a conti provvisori, secondo le convenzioni su quei saldi maturano interessi che, non venendo chiusi i conti, assurgono a cifre astronomiche, tali da gettare nel braciere dello scontro il più esplosivo dei combustibili. All'approvazione di ogni bilancio dello Stato chiudere i conti risulta impresa di difficoltà più ardue.
Una serie di documenti della Corte dichiara che dell'imponente mole di fascicoli fino al 1980 non sarebbe stata presentata che una frazione esigua. I collaboratori di Mizzi che ebbero parte alla presentazione sostengono che il meccanismo si sarebbe arrestato quando la Corte avrebbe rifiutato di registrare rendiconti mancanti di documenti irreperibili: una parte delle gestioni di ammasso comprendeva operazioni svolte sotto l'egida della Repubblica sociale, un'altra concerneva derrate consegnate dal Comando americano senza alcuna formalità. Di fronte alla pretesa dell'autenticazione della firma di un generale americano defunto Mizzi avrebbe ordinato di sospendere ogni consegna di documenti. Il confronto era, orami, palesemente confronto politico: la Federconsorzi si appellava al suo nume tutelare. Che era, ormai, impotente.
Spetterà agli storici confermare, o confutare, la spiegazione degli esegeti politici, che asseriscono che la strategia del cavillo sarebbe stata adottata, dalla Corte, per la pressione dei magistrati socialcomunisti, tanto numerosi e determinati da assicurare, a metà degli anni '60, il più funzionale contrappunto a chi, in Parlamento, dirigeva il tiro contro il baluardo del ruralismo democristiano. Contro la strategia del cavillo si sarebbe arenato, nei decenni successivi, l'impegno che alla chiusura delle antiche pendenze avrebbero profuso ministri democristiani di primo rango: Moro, Marcora e Goria. Il naufragio del colosso agrocommerciale accende una luce surreale sulla vicenda dei rendiconti, e acuisce gli interrogativi sulla levatura dei diarchi che governarono la Federconsorzi, il cui ruolo di protagonisti della scena nazionale sarebbe gravemente compromesso ove ne fosse provata la sicumera, dopo la metà degli anni '50, di chiudere il conto grazie alla forza economica e politica conquistata nel 1949. Purtroppo le carte riservate di Bonomi e di Mizzi, il primo strumento cui si sarebbe indotti a fare appello, risultano essere state accuratamente distrutte dai collaboratori: avrebbe provveduto ad ardere quelle di Mizzi il braccio destro Antonio Bettei, avrebbe provveduto a distruggere quelle di Bonomi, nel sontuoso camino di una sala di Palazzo Rospigliosi, il successore, con il consenso unanime della Giunta confederale.
Lungi dal suggerire il disarmo della ricerca, il rilievo vorrebbe invitare a un impegno nuovo e penetrante sulla storia del primo organismo economico dell'agricoltura italiana. Da quell'impegno dovrebbe prendere forma il giudizio su una pagina del passato nazionale e sui suoi protagonisti che, prima di quell'impegno, alcuni elementi inducono a collocare nel Pantheon dei costruttori della nuova Italia, elementi contrari a relegare tra le schiere dei gregari. Paolo Bonomi fu stratega di un disegno sociale a lato di De Gasperi, o fu esecutore, nelle piazze, di un piano che gli fu dettato? Leonida Mizzi ha diritto, con Enrico Mattei, Enrico Cuccia, Vittorio Valletta e Raffaele Mattioli, a un posto tra gli artefice della rinascita economica italiana, il prodigioso "miracolo", o fu semplice giocoliere di voci del bilancio statale, che sarebbe stato incapace persino di chiudere formalmente? Lasciando il primo quesito agli storici della politica, senza pretendere di risolvere il secondo, non pare futile ricordare, a chi lo affronterà, la metafora usata da Giuseppe Medici in una conversazione informale: rievocando gli sforzi esperiti, come ministro del Tesoro, per l'approvazione degli unici rendiconti liquidati prima della polemica, il maestro degli economisti agrari italiani annotava che per il direttore generale della Federconsorzi le convenzioni con banche e ministeri sarebbero state, mutata la scenografia, l'equivalente di formule e sortilegi per l'apprenti sorcier della favola famosa. Senza rappresentare mai la sentenza definitiva sugli eventi storici, il giudizio dei più acuti tra i contemporanei non è mai elemento che quella sentenza possa ignorare.
Già pubblicati:
1ª parte
2ª parte
3ª parte
4ª parte
Docente di Storia dell'agricoltura all'Università di Milano, giornalista, storico delle scienze agrarie. Ha diretto la rivista mensile di agricoltura Genio Rurale ed è stato vicedirettore del settimanale, sempre di argomento agricolo, Terra e vita. E' autore della Storia delle Scienze Agrarie opera in 7 volumi. www.itempidellaterra.com
5ª parte
Paolo Bonomi e Leonida Mizzi, il tribuno incline ai toni demagogici, il nemico implacabile dello stalinismo in panni italici, e l'amministratore, insieme mercante e finanziere, in entrambi i ruoli, concordano quanti lo conobbero, capace di sottigliezze machiavelliche. L'artefice della compagine contadina che ha contribuito a consolidare in Italia la democrazia repubblicana e l'accumulatore sagace che da una rete di magazzini devastati dalle bombe ricostruisce un apparato economico che, all'apice dello splendore, negli anni '60, rappresenta, dopo l'Iri e la Fiat, il terzo complesso economico nazionale: due personalità, una vicenda della storia italiana.
Affitti e spese elettorali
Le prime analisi storiche dell'età di De Gaspari e di Scelba, di Togliatti e di Nenni, hanno trascurato Bonomi e la Coldiretti, così come le prime indagini economiche sugli anni del "miracolo italiano" hanno lasciato ai margini del campo la Federconsorzi di Mizzi. Le due omissioni non potranno essere perpetuate: quando, in entrambe le sfere storiografiche, dalle prime esplorazioni si vorrà mirare a ricostruzioni sistematiche, non si potrà trascurare l'organizzazione che ha radicato, insieme alla democrazia, la Democrazia cristiana nelle campagne, né l'apparato che ha rifornito di macchine e fertilizzanti l'agricoltura italiana durante il Ventennio della sua metamorfosi in agricoltura moderna. Se la considerazione dei due organismi condurrà, necessariamente, all'analisi dei rispettivi legami, lo studio dei due condottieri imporrà di verificare la natura dei rapporti che ne hanno unito la sorte.
Delle correlazioni tra Coldiretti e Federconsorzi, dalla conquista democristiana al repentino collasso, è noto quanto testimonia una serie di dati obiettivi, la cui evidenza consentirà agli storici la semplice trascrizione della cronaca. Il primo è l'assoluta padronanza del consiglio di amministrazione della Federconsorzi da parte della Coldiretti, che può permettersi di offrire alla Confagricoltura, nell'età di Bonomi organizzazione vassalla, una rappresentanza paritetica: sarà il successore di Bonomi, incerto della propria sicurezza, a pretendere la maggioranza dei consiglieri. Il secondo è la prestazione, da parte della Federazione e dei consorzi agrari, di una serie vastissima di tributi alla Confederazione e alle federazioni provinciali: l'elenco comprende l'affitto a prezzo simbolico del principesco palazzo che ospita, nella capitale, la sede dell'organizzazione contadina e di innumerabili sedi provinciali, offerte dai consorzi agrari pertinenti; comprende lo stipendio di decine di funzionari, cui provvede la Federconsorzi, consentendo che operino, col titolo di "comandati", per l'organizzazione professionale; comprende la stampa, a centinaia di migliaia di copie, dei fogli periodici della Confederazione, demandata alla tipografia editrice della Federconsorzi, la società Reda, di cui l'organismo maggiore ripiana sistematicamente i bilanci.
Oltre alle prestazioni palesi vi sono quelle occulte, tali, peraltro, da non poter essere ignorate da chi scriverà la storia politica dell'Italia repubblicana. La storia non potrà trascurare, infatti, le erogazioni che avrebbero finanziato le campagne elettorali della Coldiretti, che all'apice dei propri fasti assicura l'ingresso alla Camera di cinquanta deputati, contribuisce all'elezione di venti senatori. Gli indizi che suggeriscono che le mani di Bonomi abbiano convogliato fiumi di denaro sono molteplici, e, pure non mutando la natura di indizi, concordanti: oltre a indurre a reputare che il capitano della Coldiretti ne abbia largamente disposto a fini politici e elettorali, spingono a supporre che ne abbia trattenuta parte per ragioni, seppure attinenti la sfera familiare piuttosto di quella politica.
Della disponibilità elettorale costituisce eloquente neppure elemento di prova l'imponenza dell'apparato confederale, che neppure il commentatore più candido potrebbe reputare finanziato attraverso il tesseramento dei coltivatori. Sul terreno personale si deve citare l'incidente doganale che rivelò nei familiari del tribuno contadino disinvolti esportatori di valuta, e le notizie di stampa sui depositi della famiglia Bonomi presso l'Italcasse, un istituto le cui funzioni non prevedevano la custodia dei risparmi privati, indotto, parve, ad operare un'eccezione dal prestigio del personaggio, e dall'entità della somma. Si aggiunge ed integra gli indizi diversi il cieco attaccamento del vecchio tribuno al ruolo e al seggio in Parlamento anche quando una malattia debilitante gli avrà sottratto ogni facoltà di attività pubblica: al di là della dedizione alla causa dei coltivatori, in tanto attaccamento è difficile non vedere l'ansia di conservare quell'immunità senza la quale gli incidenti finanziari avrebbero potuto condurre, seppure la magistratura non fosse pervasa, allora, dallo zelo verso i parlamentari che l'animerà, fugacemente, in tempi diversi, ad esiti sgradevoli.
Insieme alla pluralità degli altri connotati, anche l'uso del denaro avrebbe distinto il ragionier Mizzi dall'uomo cui aveva legato il destino, e al quale assicurava il mantenimento dell'imponente apparato sindacale e politico: secondo contemporanei autorevoli, si può citare Giuseppe Medici, il patrimonio lasciato, dopo una vita spesa per la propria creatura, da un grande corruttore, provava che mai il corruttore avrebbe usato a beneficio personale le disponibilità illimitate con cui avrebbe comprato la connivenza di autentici astri della vita nazionale. Gli amici che esaminarono, dopo la morte, le carte personali, trovarono una lunga serie di assegni della Banca nazionale dell'agricoltura: i gettoni di presenza attribuitigli come vicepresidente, che, investito del ruolo in quanto direttore della Federconsorzi, non avrebbe mai riscosso nell'incertezza di doverli rimettere alla cassa dell'organismo.
Un patto di voti e frumento
Nel lucido intervento ad un convegno su De Gaspari e l'età del centrismo Pietro Scoppola ha proclamato la necessità di rigettare, finalmente, la lettura degli anni della Ricostruzione come gli anni della generosa battaglia della sinistra per rinnovare il volto di un paese che una classe politica asservita al capitalismo internazionale si sarebbe adoperata a conservare nell'inerte immobilità rurale, quella lettura che gli apologeti di fede comunista hanno saputo imporre alla cultura storica, e radicare nella coscienza collettiva. Contro ogni sofisma storiografico, l'ultimo atto del dramma dei paesi in cui i luogotenenti di Stalin operarono quanto Togliatti e i suoi colonnelli non poterono realizzare in Italia, ha provato che se nel nostro Paese si combatté una dura guerra politica, gli alfieri della democrazia non furono gli alleati di Stalin, furono coloro che al Partito comunista si opposero con la crudezza imposta dal quadro nazionale e dalla cornice internazionale. Se, osservando quel quadro e quella cornice, non turba più coscienze pudibonde la prova che il Pci sarebbe stato sostanziosamente sovvenzionato dal partito confratello dell'Unione Sovietica, non dovrebbe costituire motivo di meraviglia verificare che la maggiore organizzazione sociale democristiana avrebbe attinto mezzi finanziari dall'istituzione economica di cui impugnava le redini.
A fornire quei mezzi, quanto ingenti fossero, la macchina economica guidata dal ragionier Mizzi non avrebbe conosciuto difficoltà. La storia che sarà scritta dovrà verificare, se reperirà le prove, entità e valori: a tracciare uno schizzo approssimativo, eppure non infondato, della Federconsorzi risorta dalle rovine della guerra si può rilevare che essa si impegna con determinazione su tutti i terreni tradizionali: quello dei fertilizzanti, quello delle macchine e quello, connesso, dei carburanti, quello delle sementi, e aggiungere che usa l'antica perizia, e congegna meccanismi nuovi, per la gestione delle scorte annonarie per conto dello Stato. I ricavi dell'attività svolta nei primi settori, negli anni in cui le folle contadine lasciano la terra e il loro lavoro è sostituito dall'uso più intenso dei mezzi della tecnica, sono imponenti: possono, tuttavia, essere misurati con esattezza. Di stima impossibile,i proventi delle attività annonarie suscitano, invece, gli interrogativi più ardui, quegli interrogativi la cui soluzione dovrebbe essere la chiave della storia della Federconsorzi: prima della loro soluzione quella storia non può che costituire mosaico di congetture.
Controparte sagace dell'industria meccanica e chimica nella stesura delle convenzioni che hanno determinato, nell'età del "boom" economico, i rapporti tra l'agricoltura e l'industria, il ragioniere piacentino esprime l'essenza del proprio machiavellismo nella congegnazione delle convenzioni con cui assicura allo Stato l'opera della Federconsorzi nel magazzinaggio, nella conservazione e distribuzione delle derrate essenziali, prima tra tutte il grano. Nel '47, si deve ricordare, il Governo può abolire l'ammasso totale obbligatorio: per scongiurare cadute dei prezzi nefaste agli associati, la Coldiretti si premura che all'ammasso obbligatorio sia sostituito l'ammasso per contingente. Data la maestria dimostrata, l'ente gestore resta immutato.
Stipulando i capitolati di ammasso Mizzi coinvolge la Federazione e i consorzi, di cui assicura al Governo l'attività concentrando i benefici a vantaggio dell'ente coordinatore. Tra quei benefici il primo consiste nella garanzia delle anticipazioni da parte del sistema bancario, al quale il Ministero del Tesoro offre le più solide garanzie. Il meccanismo si risolve in una fitta maglia di conti correnti, che attingono alla Banca d'Italia all'interesse dell'uno per cento per riversare la provvista, al tasso corrente, nelle partite attive della Federazione. Più di un osservatore ha arguito che nella differenza tra i tassi della Banca d'Italia e quelli correnti dovrebbero computarsi le spese, per la Nazione, delle vittorie elettorali democristiane. Un amico antico, l'avvocato Antonio Pepe, uno dei collaboratori più fidati di Mizzi, invitò a colazione chi scrive, al Circolo romano del polo, con il collega che avrebbe stilato gli assegni che il direttore generale portava, personalmente, alla sede della Democrazia cristiana. Invitato dall'amico comune a riferire il costo, per l'organismo, di ogni campagna elettorale, quasi convinto dal clima conviviale il vecchio ragioniere, anch'egli piacentino, parve cercare nella memoria la cifra, indugiò, rigettò fermamente, al dessert, l'ultimo invito.
I rendiconti, dramma surreale
Le convenzioni di ammasso saranno le secche sulle quali la corazzata economica finirà arenata. Formalmente ineccepibile, il machiavellico congegno che assicura un profluvio ininterrotto di denaro impone, infatti, una procedura complicatissima di rendicontazione: decine di banche e di consorzi debbono fornire documenti, che la Federazione deve presentare al Ministero dell'agricoltura, tenuto a controllare, tramite un'apposita commissione, per rimettere i fascicoli alla Corte dei conti, che esegue la verifica della verifica. Dato il meccanismo, qualsiasi ragioniere cavilloso può infirmare il più ineccepibile dei rendiconti: esso presuppone, perciò, controllori amici ai due ministeri coinvolti nei capitolati, l'Agricoltura e il Tesoro, e alla Corte. Perduta la preminenza degli anni del Centrismo, la Democrazia Cristiana non disporrà più, però, dell'antica onnipotenza ministeriale: le eccezioni potranno insorgere.
E insorgeranno.
La necessità, per l'approvazione, della signoria di due ministeri e della Corte detta il primo degli interrogativi sulla complessa vicenda: quanto consapevolmente Paolo Bonomi abbia avallato la dilazione della presentazione, la tattica scelta da Mizzi per accrescere, si deve ritenere, il volume degli interessi sui crediti verso il Tesoro. Ogni riserva ministeriale è destinata, infatti, a portare il confronto in Parlamento, dove un rifiuto a oltranza dovrebbe essere sostenuto da una maggioranza onnipossente. Lo stratega contadino reputa che la sua legione parlamentare sarà per sempre arbitra del bilancio dello Stato? Al primo quesito segue il secondo: quanto scientemente accettino, in quanto controparti formali, le condizioni di Mizzi ministri dell'Agricoltura e delTesoro dalla levatura di veri statisti, da Segni a Fanfani, da Colombo a Pella, da Vanoni a Medici.
Della successione delle convenzioni ministeriali è quella per l'ammasso per contingente a costituire la miccia di una polemica in cui la Federconsorzi si troverà costretta ad arroccarsi in difesa. Ad aprire l'offensiva è un giornalista di professione radicale dalle considerevoli capacità di analista finanziario, Ernesto Rossi, che dal 1953 prende a bersagliare la Federconsorzi e le sue gestioni dalle pagine del Mondo e dell'Astrolabio. Nel 1962 il tema si trasforma in autentico capo di imputazione a carico della Federconsorzi durante i lavori della commissione costituita dal Parlamento per esaminare i "limiti della concorrenza", che per l'organizzazione guidata da Mizzi si trasforma in corte d'assise.
Dinanzi alla corte, riveste la toga del pubblico ministero Manlio Rossi Doria, economista prestigioso di ispirazione socialista, che della denuncia delle oscurità dei rapporti tra Stato e Federconsorzi fa ragione di vita. Certo della maggioranza parlamentare, alle arringhe di accusa Bonomi non si perita di replicare. Mizzi, di cui gli antichi collaboratori ricordano il disprezzo per gli avversari, mantiene un altezzoso riserbo. Lo sprezzo della difesa offre il più utile tema propagandistico al Partito comunista, che secondo più di un osservatore sarà debitore alla Federconsorzi di molti dei voti che gli assicurano, nel 1963, un vistoso successo elettorale.
La Corte dei conti eccepisce
Mentre la polemica investe l'entità dei saldi vantati dalla Federconsorzi in base a conti provvisori, secondo le convenzioni su quei saldi maturano interessi che, non venendo chiusi i conti, assurgono a cifre astronomiche, tali da gettare nel braciere dello scontro il più esplosivo dei combustibili. All'approvazione di ogni bilancio dello Stato chiudere i conti risulta impresa di difficoltà più ardue.
Una serie di documenti della Corte dichiara che dell'imponente mole di fascicoli fino al 1980 non sarebbe stata presentata che una frazione esigua. I collaboratori di Mizzi che ebbero parte alla presentazione sostengono che il meccanismo si sarebbe arrestato quando la Corte avrebbe rifiutato di registrare rendiconti mancanti di documenti irreperibili: una parte delle gestioni di ammasso comprendeva operazioni svolte sotto l'egida della Repubblica sociale, un'altra concerneva derrate consegnate dal Comando americano senza alcuna formalità. Di fronte alla pretesa dell'autenticazione della firma di un generale americano defunto Mizzi avrebbe ordinato di sospendere ogni consegna di documenti. Il confronto era, orami, palesemente confronto politico: la Federconsorzi si appellava al suo nume tutelare. Che era, ormai, impotente.
Spetterà agli storici confermare, o confutare, la spiegazione degli esegeti politici, che asseriscono che la strategia del cavillo sarebbe stata adottata, dalla Corte, per la pressione dei magistrati socialcomunisti, tanto numerosi e determinati da assicurare, a metà degli anni '60, il più funzionale contrappunto a chi, in Parlamento, dirigeva il tiro contro il baluardo del ruralismo democristiano. Contro la strategia del cavillo si sarebbe arenato, nei decenni successivi, l'impegno che alla chiusura delle antiche pendenze avrebbero profuso ministri democristiani di primo rango: Moro, Marcora e Goria. Il naufragio del colosso agrocommerciale accende una luce surreale sulla vicenda dei rendiconti, e acuisce gli interrogativi sulla levatura dei diarchi che governarono la Federconsorzi, il cui ruolo di protagonisti della scena nazionale sarebbe gravemente compromesso ove ne fosse provata la sicumera, dopo la metà degli anni '50, di chiudere il conto grazie alla forza economica e politica conquistata nel 1949. Purtroppo le carte riservate di Bonomi e di Mizzi, il primo strumento cui si sarebbe indotti a fare appello, risultano essere state accuratamente distrutte dai collaboratori: avrebbe provveduto ad ardere quelle di Mizzi il braccio destro Antonio Bettei, avrebbe provveduto a distruggere quelle di Bonomi, nel sontuoso camino di una sala di Palazzo Rospigliosi, il successore, con il consenso unanime della Giunta confederale.
Lungi dal suggerire il disarmo della ricerca, il rilievo vorrebbe invitare a un impegno nuovo e penetrante sulla storia del primo organismo economico dell'agricoltura italiana. Da quell'impegno dovrebbe prendere forma il giudizio su una pagina del passato nazionale e sui suoi protagonisti che, prima di quell'impegno, alcuni elementi inducono a collocare nel Pantheon dei costruttori della nuova Italia, elementi contrari a relegare tra le schiere dei gregari. Paolo Bonomi fu stratega di un disegno sociale a lato di De Gasperi, o fu esecutore, nelle piazze, di un piano che gli fu dettato? Leonida Mizzi ha diritto, con Enrico Mattei, Enrico Cuccia, Vittorio Valletta e Raffaele Mattioli, a un posto tra gli artefice della rinascita economica italiana, il prodigioso "miracolo", o fu semplice giocoliere di voci del bilancio statale, che sarebbe stato incapace persino di chiudere formalmente? Lasciando il primo quesito agli storici della politica, senza pretendere di risolvere il secondo, non pare futile ricordare, a chi lo affronterà, la metafora usata da Giuseppe Medici in una conversazione informale: rievocando gli sforzi esperiti, come ministro del Tesoro, per l'approvazione degli unici rendiconti liquidati prima della polemica, il maestro degli economisti agrari italiani annotava che per il direttore generale della Federconsorzi le convenzioni con banche e ministeri sarebbero state, mutata la scenografia, l'equivalente di formule e sortilegi per l'apprenti sorcier della favola famosa. Senza rappresentare mai la sentenza definitiva sugli eventi storici, il giudizio dei più acuti tra i contemporanei non è mai elemento che quella sentenza possa ignorare.
Già pubblicati:
1ª parte
2ª parte
3ª parte
4ª parte
Docente di Storia dell'agricoltura all'Università di Milano, giornalista, storico delle scienze agrarie. Ha diretto la rivista mensile di agricoltura Genio Rurale ed è stato vicedirettore del settimanale, sempre di argomento agricolo, Terra e vita. E' autore della Storia delle Scienze Agrarie opera in 7 volumi. www.itempidellaterra.com
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