mercoledì 14 ottobre 2015

Le leggende metropolitane sul miglioramento delle piante coltivate - Seconda puntata

di Alberto Guidorzi



Le piante che coltiviamo oggi sono più sensibili alle malattie e quindi siamo obbligati a usare più fungicidi.



Val di Chiana, Toscana

Ecco questa è un’altra notizia non vera e che discende dalla precedente, ma che nella sua apparente logica intuitiva tanto ha fatto presa nell’opinione pubblica da essere assunta da tutta la stampa senza nessuna verifica e spacciata per dato assodato. 
Le perdite di produzione a livello planetario dovute ai parassiti sono calcolate nell’ordine del 15%, ma con variazioni importanti a secondo dei Paesi ed in funzione dell’uso di principi attivi di protezione e delle pratiche colturali (rotazioni).
Prima di confutare l’affermazione, però, dobbiamo capire i meccanismi di resistenza verso i parassiti fungini che le piante possono esercitare. Rispetto ad una malattia crittogamica le piante dimostrano resistenze che possiamo definire di carattere generale o di carattere specifico. Le prime sono efficaci in modo quantitativo qualsiasi sia la natura del patogeno; siamo cioè di fronte ad un continuo che va dalla sensibilità alla resistenza. Le resistenze specifiche invece sono quelle che si verificano solo verso un determinato tipo di patogeno. Van der Plank nel 1963 le ha definite anche resistenze orizzontali e verticali. Le resistenze di tipo generale sono normalmente poligeniche, mentre le specifiche derivano invece da un solo gene o da pochi geni, in genere dominanti. Inoltre nelle resistenze specifiche vi è una resistenza “gene a gene” nel senso che si ha resistenza se all’allele che la conferisce alla pianta ospite non corrisponde nel patogeno un allele di virulenza; se manca una delle due condizioni la pianta risulta sensibile. Ora per le resistenze specifiche l’esperienza dimostra che esse sono più facilmente aggirate dal patogeno. Certe varietà vegetali sono create resistenti, ma man mano evolvono verso la non resistenza, solo che non sono esse a modificarsi (come molti pensano), ma è il patogeno che evolve, acquisendo man mano l’allele di virulenza ed aggirando così le barriere frapposte inizialmente. 
Quindi il gene di resistenza permane, ma l’allele di virulenza del patogeno che prima mancava o era a bassa frequenza compare o aumenta la sua frequenza. Ciò è provocato dalla pressione selettiva che una coltivazione di individui tutti della stessa varietà esercita sul patogeno. Infatti, un fungo produce un gran numero di spore e tra queste ve ne sarà qualcuna che muta acquisendo il gene di virulenza o che riceve il gene di virulenza da un fungo precedentemente mutato. E’ evidente che saranno questi funghi che hanno più probabilità di sopravvivere e trasmettere i loro caratteri alla progenie, in quanto appunto trovano nutrimento attaccando la pianta. Il ragionamento predetto non è inficiato dal fatto che le mutazioni non sono molto frequenti (intorno a 10 alla meno 5 per generazione). Se ne deduce anche che è inutile ricercare resistenze specifiche per le piante arboree in quanto la sostituzione delle piante divenute non resistenti è antieconomico. E’ evidente che questo è un ragionamento generale, ma vi sono anche delle eccezioni a noi favorevoli e di queste ne godiamo i benefici. Il miglioramento genetico quindi ricerca di preferenza le resistenze generali oppure, ancora meglio, resistenze generali in associazione con resistenze specifiche. Un discorso molto simile è proponibile anche per la resistenza agli insetti. 
Al fine di procrastinare il più possibile l’aggiramento di una resistenza da parte del parassita si sono messi in atto o meglio suggeriti vari accorgimenti fra cui: 
  • limitare l’uso nel tempo di una resistenza, il che tuttavia implica un continuo rifornimento del mercato di varietà di più recente costituzione e dotate di nuove resistenze ; 
  • gestire più oculatamente lo sviluppo di varietà resistenti utilizzando più varietà con resistenze diverse; 
  • riunire nella stessa varietà più geni di resistenza, cosa, però, che implica la creazione ripetuta si piante uguali ma differenti nelle resistenze e pertanto molto costosa; 
  • usare miscugli di varietà diverse e dotate di resistenze variate per investire un campo coltivato, il che comporta però la necessità che esse siano molto simili in fatto di esigenze nutritive, precocità, e pure qualità tecnologica, tutte cose facili a dirsi ma non altrettanto a farsi. 
Figura 2.1 Malattie del grano 1- Fusariosi della spiga, 
2 - Oidio, 3 - Septoria 4 - Ruggine gialla  
5 - Ruggine bruna  6 – Elmintosporiosi

Ecco ora possiamo accingerci a sfatare la leggenda metropolitana secondo cui nel complesso le varietà nuove sono meno rustiche e per farlo prendiamo il caso del frumento, riferendoci tuttavia ad esperienze francesi, non esistendone di uguali in Italia. Il frumento si presta bene al nostro discorso perché rispetto a qualche decennio fa la pratica di trattare il frumento contro le malattie della spiga e della foglia si è abbastanza generalizzata. A questo proposito molte esperienze dimostrano che il progresso genetico è stato più importante quando si coltiva escludendo l’uso dei fitofarmaci di quando li si usa. Ciò è conseguenza del lungo lavoro di conferimento di resistenze alla specie che abbiamo fatto. Infatti le principali resistenze alla malattie del grano come le varie ruggini, il mal del piede e la peronospora derivano tutte da graminacee interfeconde selvatiche. Quindi è automatico che queste resistenze manchino nelle “varietà antiche” perché sono acquisizioni di tempi più recenti. Per di più ora abbiamo strumenti come i marcatori molecolari che ci permettono un accesso facilitato e quindi un inserimento nel germoplasma del frumento delle resistenze quantitative poligeniche che sono più stabili di quelle monogeniche. Pertanto il raggiungimento di un minor uso di fungicidi è ormai constatato per i cereali, tant’è vero che un ettaro di frumento nel 1986 richiedeva 2.9 kg di fungicidi mentre nel 2003 non si va oltre gli 0,55 kg (Rameil e Bernard 2005), una diminuzione in peso che per la verità è frutto anche dell’avvento di molecole fungicide nuove che richiedono minori dosaggi. 
Il diagramma in figura 2.2 che sintetizza i risultati delle sperimentazioni dell’INRA francese (Oury et al. 2012) e che viene riportato da Gallais (2015) evidenzia bene la cosa.
Figura 2.2 - Diagramma ricavato per le nuove varietà francesi di frumento iscritte al registro varietale fra il 1980 e il 2007. Seguendo le tre linee più spesse dal basso verso l'alto vediamo la produzione di una varietà non migliorata (linea verde spessa), la produzione delle varietà migliorate senza difesa fungicida (linea rossa spessa) e quella delle varietà migliorate con difesa (linea nera spessa). Infine la linea rossa sottile suddivide l'incremento di produzione delle varietà migliorate senza difesa nella quota derivante dal miglioramento genetico della produttività e nella quota derivante dal miglioramento della resistenza alle malattie. 

Le varietà di frumento considerate sono state ottenute in anni diversi (in ascissa sono riportati gli anni d’iscrizione delle varietà provate e in ordinata la resa in q/ha), ma sono state tutte messe in prova nelle stesso momento, in condizioni pressoché identiche e con la protezione o meno come unica variabile. Le stesse varietà sono state quindi valutate in due tipi di prove: in una si sono applicate le normali pratiche di protezione fungicida (linea nera più alta) e nell’altra non si sono praticati trattamenti di protezione (linea rossa spessa). 
Altro aspetto importante è che si è potuto anche valutare quanto le varietà hanno beneficiato del progresso generato dal miglioramento della produttività e quanto, invece, l’aumento di resa è stato prodotto dal progresso apportato dai geni di resistenza alle malattie introdotti (le percentuali assegnabili ad ogni beneficio apportato le si trova sulla destra delle parentesi). In questo caso si è ipotizzato che le due fonti di progresso produttivo siano additive, infatti il 100% di progresso dal 1980 al 2007 è stato suddiviso in funzione della retta di resa prevista, parallela alla retta della varietà provate in condizioni di protezione. 
In sintesi il diagramma ci dice che dal 1980 al 2007 le varietà non trattate hanno manifestato un aumento di resa di 1,29 q/ha per anno, di cui il 71% dovuto al miglioramento nella produttività ed il 29% alla miglior resistenza alle malattie. Ancorarsi alle “varietà antiche” (linea verde più in basso) significherebbe rinunciare a tali incrementi di resa, rimanendo a 68 q/ha e rinunciando a portarsi ai 102 q/ha raggiunti nel 2007 dalle nuove varietà. 

In conclusione, quando si parla di “varietà antiche” più rustiche e che quindi andrebbero privilegiate in vista di una presunta agricoltura più ecocompatibile divulghiamo solo un’ipotesi destituita di ogni fondamento scientifico e soprattutto falsa. 
Ultima questione da affrontare è l’apporto che può dare la transgensi nel creare piante resistenti ai parassiti. 
E’ evidente che allo stato attuale delle conoscenze si può pensare solo di conferire resistenze a parassiti specifici di tipo monogenetico mentre è impensabile farlo per le resistenze quantitative multigenetiche. Il problema, già evidenziato pocanzi, è che le resistenze monogeniche sono facilmente aggirabili per cui vanno inquadrate in un complesso di comportamenti agronomici di antica concezione, ma che non per questo hanno perso di validità. Purtroppo per l’opinione pubblica è passato il concetto che il conferire ad una pianta la resistenza genetica ad un parassita abbia come diretta conseguenza l’insorgere di individui che aggirano la resistenza. Pensarla in questo modo è fuorviante e dobbiamo sforzarci di farlo capire perché altrimenti il dialogo diventa tra sordi. L’insorgere dell’aggiramento ad una resistenza è frutto di una pressione selettiva troppo forte e univoca, ma che, però, non dipende dalla pianta, ma dall’uso che ne fa l’uomo di quella pianta e del modo con il quale la coltiva. Facendo cioè un uso scriteriato con monocolture in successione ed intensificazioni insensate si finisce per selezionare questi aggiramenti, mentre se si operano rotazioni di piante diverse sullo stesso terreno o si eseguono trattamenti diversificati mediante principi attivi di differente natura, si ha la possibilità di rimandare a tempi più lunghi l’aggiramento. Noi abbiamo solo la possibilità di rimandare l’evento e non di impedirlo e per fortuna che è così. Nel frattempo, però, la genetica e il miglioramento vegetale con i metodi convenzionali avrà fatto altri passi avanti e si sarà avvicinata di più alle resistenze generali. 
Tralasciamo di occuparci diffusamente dei geni di Bt trasferiti in varie piante coltivate (il brevetto è del 1996) e che non sono più solo una curiosità, bensì una realtà economica importante, Ci limitiamo a dire che la coltivazione del cotone Bt in India non è stato promossa dalla Monsanto (la Monsanto non voleva inimicarsi il governo indiano inizialmente contrario) ma da questo signore: D.B. Sebai, conosciuto sotto le pseudonimo di «Robin Hood degli OGM » e che i contadini hanno alimentato un fiorente mercato nero anche con il pericolo di essere imbrogliati e che ad un certo punto si sono rivoltati contro il governo . Altro che suicidati! Diciamo solo che la difesa legata alla tossina che tali geni fanno produrre alle piante e che si rivela attiva verso determinati insetti si è dimostrata aggirabile nel caso del verme della capsula nel cotone e della crisomela del mais mentre così non è stato nel caso della piralide del mais. In tal senso si segnala una prova condotta in Francia (Chaufaux et al. 2001) ed in cui 30 generazioni di larve di piralide sono state nutrite con alimenti contenenti la tossina ed in percentuali tali da realizzare una sopravvivenza del 10% di individui. Ebbene, nessun aggiramento alla veneficità della tossina è stato registrato nei soggetti sopravvissuti. 
Le potenzialità sono dunque enormi: si pensi ad esempio che l’immissione in specie coltivate tramite l’incrocio interspecifico di geni di resistenza presenti in specie selvatiche comporta sempre l’inselvatichimento della pianta coltivata dovuto al fatto che Il 50% dei geni del prodotto d’incrocio sono della pianta selvatica (di per sé agronomicamente non valida). Pertanto occorre eliminare tali geni con il reincrocio eseguito per più anni usando la pianta coltivata come genitore ricorrente. Con l’uso della transgenesi (che in questo caso più propriamente dovrebbe chiamarsi cisgenesi) si evita invece la fase di reincrocio pluriennale. Non solo, ma la maggior facilità e velocità di trasferimento di resistenze ai parassiti può permettere di creare piante con resistenze multiple e di diversa provenienza. 
Certe malattie virali non trovano resistenze naturali nelle piante per cui occorre crearle e le tecniche di trasgenesi ora lo permettono. Ad esempio possiamo far produrre a una pianta un RNA perturbatore del ciclo del virus dannoso (un esempio è quello di far produrre la proteina della capside del virus che, come noto, quando è incapsidato non può essere virulento). Questa tecnica ha permesso di salvare la papaya nelle Havai. La resistenza alla “Sharka”, la malattia virale delle piante a nocciolo (genere Prunus), si è potuta ottenere rendendo inoperanti certi geni tramite piccole molecole di RNA (21-24 nucleotidi solo) che legandosi a delle proteine poi si fissano su RNA virale rendendolo inoperante. 
In definitiva esistono delle resistenze in seno alla specie coltivate ancora non sfruttate e quindi occorre continuare a farlo con il miglioramento convenzionale. Tuttavia se la trasgenesi può permettere di risolvere problemi particolari o addirittura irresolubili non si può pensare di non usarla solo per il fatto che si creano “piante modificate”. Ciò perché, a rifletterci bene, è solo una questione di lana caprina il dire che l’immissione di una resistenza con l’incrocio non genera “piante modificate”. Si pensi solo che il 15% degli incroci realizzati dal Cymmit (che non è certo una multinazionale sementiera!) nel frumento per il trasferimento di resistenze, usa un frumento “risintetizzato”, vale a dire ricreato rimettendo insieme i tre genomi diversi che nei millenni hanno concorso a creare il grano tenero attuale. Pertanto non viene rivoluzionato nulla e tanto meno si coarta la natura; si tratta solo di usare strumenti nuovi nell’ambito degli schemi collaudati dei metodi di miglioramento vegetale. Tali schemi mantengono intatta tutta la loro validità ed efficacia ma la scienza fornisce oggi degli strumenti nuovi per guadagnare tempo o risolvere problemi di resistenza altrimenti irrisolvibili. Tutto ciò va a vantaggio di un’agricoltura più rispettosa dell’ambiente perché conducibile con un minor numero di interventi di difesa con mezzi chimici o addirittura senza il ricorso alla difesa chimica.



Bibliografia consultata: 


A.Gallais
- Hétérosis et variétés hybrides e amélioration des plantes - Editions Quae
A.Gallais - Méthodes de création des variétés en amélioration des plantes - Editions Quae
A.Gallais - De la domestication à la transgènese. Evolution des outils pour l’amelioration des
des plantes – Editions Quae
A.Gallais ; A. Ricroch – Plantes trangéniques : faits et enjeux – Editions Quae
Atti Journée ASF – Cinquante ans d’Amelioration des plantes au service de l’agriculture : bilan défis, et enjeux pour demain.




Alberto Guidorzi
Agronomo. Diplomato all' Istituto Tecnico Agrario di Remedello (BS) e laureto in Scienze Agrarie presso UCSC Piacenza. Ha lavorato per tre anni presso la nota azienda sementiera francese Florimond Desprez come aiuto miglioratore genetico di specie agrarie interessanti l'Italia. Successivamente ne è diventato il rappresentante esclusivo per Italia; incarico che ha svolto per 40 anni accumulando così conoscenze sia dell'agricoltura francese che italiana.

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