di Alberto Guidorzi
Le piante che coltiviamo oggi
sono innaturali
“Italian Barley Mutant Collection” del CRA-GPG . Foto F. Marino |
Infatti il miglioramento delle piante coltivate che chiameremo “convenzionale” è iniziato con la domesticazione (-10.000 anni fa’) ed esso in partenza non ha fatto altro che “operare una selezione tra le specie botaniche” presenti in un dato ambiente per poi man mano passare alla “selezione tra le popolazioni che componevano quelle specie vegetali”. Il metodo usato è passato per l’individuazione di popolazioni costituite da tipi interessanti per poi applicarvi l’incrocio sessuato con conseguente ciclo selettivo; questo operare aveva lo scopo di accumulare e fissare in pochi individui le caratteristiche favorevoli dei due genitori. Il succedersi di una serie quasi infinita del binomio “incrocio-selezione finalizzata” è durato 10.000 anni ed ancora non ha perso validità e non è prefigurabile che la perda, visto che ancora i programmi di selezione ricorrente fanno parte del bagaglio del miglioramento vegetale. Abbiamo compiuto qualcosa di innaturale? Certamente no! L’uomo ha semplicemente sfruttato e copiato ciò che avviene normalmente in natura tra i suoi consimili vegetali o animali, avendone solo finalizzato gli obiettivi a suo vantaggio. Certo, l’uomo ha tanto spinto in avanti il suo lavoro da creare piante ormai dipendenti da lui per la loro sopravvivenza, ma ciò è frutto dell’esigenza di specializzazione produttiva e non da una particolare ricerca di “innaturalezza”. In altre parole la selezione à semplicemente un prolungamento della domesticazione. Da ciò consegue che guardassimo al passato con occhi non “ideologizzati”, vedremmo che il metodo è rimasto identico, mentre sono solo evoluti gli strumenti onde ridurre i tempi di raggiungimento degli obiettivi. Abbiamo semplicemente ristretto il soggetto iniziale di selezione: siamo partiti dalla “popolazione”, intesa come insieme di individui più o meno apparentati e siamo arrivati fino al “gene”. Il percorso ha comportato tappe intermedie che man mano sono transitate dall’individuo, alla cellula, al genoma nucleare e anche a quello citoplasmatico.
Potremmo pertanto dire che a partire dalla domesticazione e fino a noi tutto rientra nel concetto di una “ingegneria genetica” intesa in senso largo.
Foto 1.1 Abbassamento della taglia del frumento.
A sinistra
un frumento selezionato nel
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Possiamo chiederci il perché lo abbiamo fatto? Certo! Lo abbiamo fatto perché purtroppo l’effetto imprevedibile dell’ambiente di coltivazione spesso vanificava il lavoro che si era realizzato, anzi, vi sono stati periodi storici in cui eventi ambientali estremi, accomunati all’aumento demografico, procuravano penuria di cibo o addirittura carestie sfocianti in epidemie; la storia ce lo insegna. Avendo, quindi, compreso che probabilmente i criteri di scelta erano troppo grossolani e poco mirati, inizialmente ci siamo ingegnati a cercare di affinarli a livello di metodo. Inoltre i progressi, soprattutto nella biologia cellulare e poi molecolare, ci hanno aperto la strada della genomica (intesa come identificazione dei geni e utilizzazione dei marcatori molecolari degli stessi) facendo divenire il nostro operare molto meglio indirizzato e meno aleatorio. In altri termini dopo una lunghissima fase caratterizzata da un agire empirico, alla cieca e supportato dalla sola statistica, siamo finalmente approdati alla costruzione studiata di veri e propri genotipi che la natura avrebbe potuto anch’essa certamente assemblare, ma con tempi non consoni ai bisogni dell’umanità.
E’ falso far credere che oggi abbiamo artificializzato e reso innaturali le piante coltivate, mentre solo un secolo fa esse erano ancora “naturali”. Di “artificializzazione”, se proprio la vogliamo chiamare così, ne avevamo già fatta tantissima già un secolo fa. Certo, gli schemi stabiliti dalla selezione genealogica individuale che ancora pratichiamo ci hanno dato le “varietà antiche”, solo che molti non sanno che i geni che le hanno rese famose sono stati tutti ripresi e immessi nelle “varietà moderne”. Per farlo abbiamo solo affinato la tecnica operativa, ma non abbiamo instaurato nessuna rivoluzione. Nell’ambito dei cereali a paglia autofecondi (autogami) abbiamo selezionato delle linee omozigoti per usarne i semi, mentre nelle piante allogame abbiamo prima costruito altrettante linee consanguinee (linee pure) e poi abbiamo messo a disposizione degli agricoltori gli ibridi tra queste linee per sfruttare un fenomeno naturalissimo che è il “vigore” o eterosi dell’ibrido. La scienza ci ha fornito solo degli strumenti operativi migliori, ma ancora oggi ci serviamo della riproduzione sessuata (che si è voluto definire naturale), aggiungendovi però tecniche che la biologia molecolare ci ha suggerito e che derivano dalla conoscenza più intima della natura del vivente e che, fra non so quanto tempo, rientreranno anch’esse nei processi naturali, come pure le varietà moderne diverranno a loro volta “antiche”. In sostanza se il fine dei metodi è rimasto immutato, i metodi stessi si sono affinati e gli strumenti si sono complementarizzati sempre più, anche se non vi è nulla di nuovo sotto il sole. Di vecchio vi è anche l’immutata aspirazione dell’uomo a voler trovare piante con combinazioni geniche tali da raggiungere dei progressi maggiori nell’unità di tempo, anche perché non bisogna dimenticare che le richieste degli utilizzatori cambiano di continuo ed in tempi sempre più brevi.
Oggi vi è una giustissima domanda di un’agricoltura sostenibile (nel senso di più ecocompatibile), ma solo degli sprovveduti possono indicare come soluzione il ritorno a metodi di coltivazione desueti e ancestrali che ben sappiamo aver dato poco da mangiare alla gente e di conseguenza provocato tanti lutti e guerre. Da questo punto di vista il “ritorno al passato” si propone come una pretesa egoistica e immorale. In conclusione il miglioramento vegetale è un fenomeno complesso ma lungi dal divenire riduzionistico ha potenziato sempre più nel tempo la propria dimensione sistemica riferita al vegetale visto nel suo complesso e nei suoi rapporti con l’ambiente.
Foto 1.2 Spighe di una popolazione di mais, sono evidenti le
disformità.
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Veniamo alle tecniche di ingegneria genetica ascrivibili al “senso stretto” del termine”, ma che tanto scandalo e tanto disgustato rifiuto hanno suscitato. Diciamo subito che ciò è avvenuto soprattutto per la difficile comprensione intuitiva degli strumenti nuovi messi in campo. E’ proprio su tale ignoranza che hanno fatto leva i dispensatori di paura che, in quanto tali, hanno avuto su di sè l’attenzione dei media. Infatti, questi profeti di sventura e rivelatori, a loro dire, di segreti innominabili e nascosti, sono stati ascritti tra i paladini della “verità” mentre chi voleva spiegare ed informare è stato spesso dipinto come portatore di interessi occulti e miranti ad asservire l’umanità intera.
Queste ultime biotecnologie sono ascrivibili alle tecniche del DNA ricombinante (tecniche di laboratorio atte a isolare, tagliare piccole porzioni di DNA e trasferirle in modo guidato e preciso) e di mutagenesi, divenuta anch’essa guidata e precisa come la prima. Transgenesi, cisgenesi, e mutagensi sono purtroppo solo conosciute come creatrici di Organismi Geneticamente Modificati più o meno palesi, il cui acronimo OGM tante paure suscita.
Ebbene, è lecito chiedere cosa vi è di innaturale dall’aver copiato l’agire naturale di un batterio del suolo come l’Agrobacterium thumefaciens, che da sempre trasferisce il suo DNA in una pianta ospite coltivata per un suo scopo utilitaristico? (qui )
Cosa vi è di tanto scandaloso se ora noi lo usiamo e sfruttiamo tale peculiarità del tutto naturale utilizzando il batterio come vettore di un gene per noi favorevole e per di più ben individuato e sperimentato? Cosa vi è di tanto catastrofico se operiamo per realizzare un’agricoltura più sostenibile e addirittura più produttiva? Non solo, ma in precedenza quello che faceva e ancora fa il batterio in natura non l’abbiamo mai controllato mentre ora quando lo facciamo agire per i nostri scopi siamo talmente scrupolosi dal mettere in atto controlli mai eseguiti per piante che pure vedevamo modificate e senza sapere dove. Ora poi non ci serviamo neppure più dei batteri perché loro lo facevano in modo per nulla mirato, mentre ora siamo in grado di farlo in modo preciso ed in un punto del DNA stabilito a priori. Vogliamo parlare di virus? Cosa fanno tali organismi nelle nostre cellule ed in quelle di tutti i viventi se non trasferire il loro DNA? Certo vorremmo che non lo facessero in quanto provocano malattie, ma certamente non diremo mai che lo fanno in modo “innaturale”.
Cosa vi è di innaturale nell’aver copiato l’effetto mutageno di un raggio cosmico o di un naturalissimo accidente incontrollato nella trasmissione del DNA nella fase riproduttiva e che avviene con frequenze troppo esigue (nell’ordine di 10-5 o 10-6 per generazione). Anzi, abbiamo perfino annullato la casualità dell’evento, riuscendo a far avvenire la mutazione in punti precisi e stabiliti con cognizione di causa. Dove sta l’innaturalità di oggi se tutto ciò avviene da miliardi di anni in modo incontrollato?
Cosa vi è di innaturale quando silenziamo un gene che produce un effetto deleterio e cioè gli impediamo di esprimersi? Ma vogliamo riflettere una buona volta che, in natura, durante l’inglobamento spontaneo di interi genomi esogeni da parte del frumento ancestrale, si è silenziato spontaneamente metà del DNA del frumento che ora coltiviamo per il nostro cibo quotidiano? Non solo, ma nel silenzio più assoluto, si è accettato di bombardare il frumento immettendolo in “bombe al cobalto” per sfruttare l’azione mutagena dei raggi gamma emessi. Volevamo solo ottenere che si modificasse il vivente nella speranza di poter sfruttare una nuova variabilità genetica prima inesistente. Attualmente esistono circa 3200 piante coltivate provenienti da mutagenesi indotta e senza che nessuno si sia allarmato (IAEA – Ag. Int.dell’Energia Atomica, 2012). Nessuna preoccupazione è stata espressa per il potenziale pericolo di desilenziare geni pericolosi capaci anche di conferire nocività al nostro cibo principale. Era chiamata “bomba” anche in medicina quando si praticava la “cobaltoterapia” e quindi non era qualcosa di sconosciuto all’opinione pubblica. Riflettete dunque! Dov’erano i “dispensatori di paure” quando tutto ciò avveniva? Li avete visti invadere i mass media per lanciare allarmi o devastare l’istituto della Casaccia a Roma dove si eseguivano gli esperimenti e da dove è uscito il frumento duro Creso seminato sul 35% della superficie coltivata? Eppure come hanno sfruttato l’effetto mediatico dell’Agente Orange per delegittimare chi usava gli strumenti dell’ingegneria genetica in “senso stretto”, molto meglio potevano sfruttare il fatto che si usasse una “bomba”. Dov’erano quelli che oggi sbandierano il principio di precauzione e insinuano che “non si sa cosa capiterà” quando veramente occorreva invocare il principio suddetto e veramente non sapevamo dove saremmo andati a parare? Oggi checché se ne dica sappiamo dove andiamo a parare, mentre ieri non lo sapevamo e per giunta lo abbiamo propinato come cibo ai consumatori senza informarli.
Bibliografia consultata:
A.Gallais - Hétérosis et variétés hybrides e amélioration des plantes - Editions Quae
A.Gallais - Méthodes de création des variétés en amélioration des plantes - Editions Quae
A.Gallais - De la domestication à la transgènese. Evolution des outils pour l’amelioration des plantes – Editions Quae
A.Gallais ; A. Ricroch – Plantes trangéniques : faits et enjeux – Editions Quae
Atti Journée ASF – Cinquante ans d’Amelioration des plantes au service de l’agriculture : bilan défis, et enjeux pour demain.
Alberto Guidorzi
Agronomo. Diplomato all' Istituto Tecnico Agrario di Remedello (BS) e laureto in Scienze Agrarie presso UCSC Piacenza. Ha lavorato per tre anni presso la nota azienda sementiera francese Florimond Desprez come aiuto miglioratore genetico di specie agrarie interessanti l'Italia. Successivamente ne è diventato il rappresentante esclusivo per Italia; incarico che ha svolto per 40 anni accumulando così conoscenze sia dell'agricoltura francese che italiana.
Agronomo. Diplomato all' Istituto Tecnico Agrario di Remedello (BS) e laureto in Scienze Agrarie presso UCSC Piacenza. Ha lavorato per tre anni presso la nota azienda sementiera francese Florimond Desprez come aiuto miglioratore genetico di specie agrarie interessanti l'Italia. Successivamente ne è diventato il rappresentante esclusivo per Italia; incarico che ha svolto per 40 anni accumulando così conoscenze sia dell'agricoltura francese che italiana.
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