di Antonio Saltini
4ª parte
4ª parte
Evitata la soppressione come ente corporativo, la Federconsorzi
permane, durante i governi di coalizione antifascista, nell'orbita comunista.
Dopo la vittoria del 18 aprile il democristiano Segni decreta un riforma che
lascia inalterato l'accentramento fascista. La riforma democratica potrebbe
essere compiuta dopo la conquista da parte di Bonomi, che per affrontarla
convoca un grande convegno, ma che all'apertura dei lavori ha deciso che nulla
debba essere riformato.
Manifestazione contro la Coldiretti |
Nelle convulsioni di un paese dilaniato dalla guerra civile il contesto dei
consorzi agrari si spezza in due tronconi. A nord, nelle regioni sottoposte al
governo filonazista di Salò, provvede alle fondamentali funzioni di gestione
delle scorte granarie un apparato agli ordini di Egidio Pardini, l'ultimo dei
commissari della Federazione in età fascista.
A sud l'anarchia seguita agli sbarchi alleati viene subitamente tamponata
dall'assunzione delle responsabilità di "direttore gerente" da parte
del responsabile dell'Ufficio interregionale di Napoli, Leonida Mizzi, un
ragioniere piacentino che ha assunto l'incarico indifferente ai bombardamenti,
di cui il Comando americano ha sancito l'autorità.
Il commissario comunista
La Federconsorzi
continua la propria attività sotto la bandiera dei vincitori senza alcuna
certezza di sopravvivenza nel quadro politico futuro. Quale l'hanno rimodellata
gli interventi dei ministri fascisti l'intera organizzazione, consorzi provinciali
e Federazione, è entità assai più similare agli istituti corporativi che il
crollo del Regime trasforma in larve di storia amministrativa che alle
cooperative iscritte nei programmi democristiani e comunisti: l'incolmabile
distanza con i due ideali non sarà causa ultima delle anomalie che, rifuggendo
l'omologazione ad entrambi, l'organizzazione consortile conserverà,
singolarmente, mantenendosi genus istituzionale affatto peculiare. Ricordi
personali di antichi dirigenti testimoniano dell'attesa della soppressione, che
alla formazione del primo governo di coalizione antifascista è reputata certa:
chi della Federconsorzi scriverà la storia dovrà verificare sulle carte
governative quanto essa sia stata vicina ad essere cancellata dal quadro
agrario con cinquant'anni di anticipo sugli eventi.
Il dilemma viene superato dal decreto del ministro dell'agricoltura del
governo di Ivanoe Bonomi, il comunista Gullo, che accantonando le riserve
istituzionali nomina un commissario alla guida dell'organismo che sta svolgendo
le proprie funzioni essenziali, la distribuzione dei generi alimentari, nel
paese che, tra le rovine, rischia la fame. L'uomo designato, il 25 giugno '44,
all'oneroso mandato è Francesco Spezzano, compagno di partito di Gullo, che
conferma, a sua volta, l'incarico di "reggente la direzione" a
Leonida Mizzi.
Il decreto che insedia il responsabile di fronte al primo governo
democratico è varato con l'implicito presupposto che atti normativi futuri
saranno approvati per rifare del contesto l'insieme di cooperative private,
autonome e volontarie, della fondazione. La rottura dell'equilibrio tra
cattolici e comunisti, che hanno costretto alla solidarietà le more della
liberazione del suolo nazionale, imprimerà al futuro del contesto consortile un
corso diverso da quello che entrambe le parti avrebbero supposto nei mesi di
tregua: il divampare, anzi, della contesa per la supremazia nel nuovo stato
repubblicano trasformerà quel contesto in bastione dello scontro. Chi, tra i
contendenti, se ne impossesserà, subordinerà, allora, ogni disegno di riforma
all'imperativo di non indebolirne la solidità: nel corso di ogni battaglia
fantasticare sulla disposizione dei plotoni nella parata che seguirà la
vittoria è impegno futile e rischioso. Lo schieramento di cui il sistema
federconsortile diverrà roccaforte sarà quello democristiano, che sottrarrà la Federazione alla sfera
comunista cui ha accettato fosse consegnata, con la nomina del commissario,
durante l'interludio della coalizione.
La riconquista, e la disposizione dell'apparato nelle prime linee del fronte
cattolico, sono opera di un dei più pugnaci tra i luogotenenti di De Gaspari,
Paolo Bonomi. Come attende chi si cimenti con la sua storia secolare la Federconsorzi, così
attende il narratore delle proprie battaglie politiche e sociali la Confederazione
nazionale dei coltivatori diretti, l'organizzazione di cui Bonomi è il creatore
e il capitano, un'organizzazione che salda tanto solidamente l'obiettivo del
riscatto sociale dei contadini agli imperativi della lotta anticomunista da
essere destinata, quando si dissolverà l'urgenza della lotta, ad una crisi di
identità che tenterà invano di superare il secondo presidente, che farà
dell'apparato, dalla terza presidenza, macchina economica dalle risorse immense,
costretta a rimettere la propria strategia, che non può più derivare da un
programma ideale, agli studi di consulenza pubblicitaria.
Il tribuno e le sue legioni
Scrivere la storia della Coldiretti significherà verificare, innanzitutto,
le notizie secondo le quali il creatore, e anima, dell'organizzazione non ne
sarebbe stato anche l'ideatore, che sarebbe stato, invece, Alcide De Gasperi,
col contributo, quanto determinante dovrà essere stabilito, di Attilio
Piccioni, di Mario Scelba, di qualche monsignore del Vaticano e di un dirigente
dell'organizzazione fascista degli agricoltori, Luigi Anchisi, che, prima
ancora della scelta del presidente, dell'organizzazione, avrebbe stilato lo
statuto. Non meno dell'idea, sarebbe stata merito di De Gaspari la designazione
del presidente: scegliendo un giovanotto novarese laureato ma di assai modesta
cultura, tribuno efficace nella semplicità elementare dei concetti, il primo
presidente cattolico del Consiglio avrebbe dato prova di quell'intuito di vero
statista che ne fa il padre dell'Italia democratica. Su poche forze sociali
l'uomo politico trentino potrà contare, infatti, con la certezza con cui saprà
al suo fianco i coltivatori diretti, di pochi uomini l'alfiere del mondo
cattolico, insidiato da cento congiurati, potrà fidarsi come di Paolo Bonomi.
Chi ha conosciuto il tribuno contadino negli anni della grande avventura
sottolinea che Bonomi era oltremodo lontano dal prevedere la marcia trionfale
che stava per iniziare, nelle campagna italiane, sottoscrivendo, il 31 ottobre
1944, davanti al notaio Intersimone, il fatidico statuto. Compreso il
capousciere, attorno a sé non aveva che sei luogotenenti, che univa a lui, più
che la meta da realizzare, la necessità di sfuggire, inquadrandosi nei ranghi
democristiani, l'epurazione che minacciava chi avesse ricoperto responsabilità
dirigenziali sotto il Regime. Le dimensioni del successo alimenteranno il
viscerale attaccamento con cui lo stratega contadino si aggrapperà alle leve
del comando conquistato nel corso della lunga, debilitante malattia che lo
colpirà precocemente: un rilievo che introduce nella vicenda di uno degli
uomini che hanno contribuito a plasmare l'Italia repubblicana le note del
dramma del despota condannato all'impotenza.
L'evento che suggellerà il trionfo nelle campagne della compagine bonomiana,
da manipolo trasformatasi in armata, sarà la presa dei consorzi agrari, e la
successiva conquista, tramite il voto dei presidenti dei consorzi, della
Federazione. Tra il decreto di Gullo che riapre le prospettive del futuro al
contesto consortile e l'espugnazione democristiana, che si compie il 3
settembre 1949, trascorrono quattro anni: sono anni confusi in termini di
direzione politica, straordinariamente fattivi sul piano operativo. Infranta la
solidarietà nazionale, al commissario comunista Spezzano è succeduto il
democristiano Albertario, cui altri ne seguono, in una pirotecnia che,
alimentata dai conflitti interministeriali, al momento delle elezioni
federconsortili porterà il numero dei commissari a tre. Nell'incertezza della
guida politica ha consolidato i titoli di direttore attribuitegli, sul campo,
dal Comando americano, il "gerente" dell'ufficio di Napoli, Leonida
Mizzi, che nel corso di ogni burrasca pare saper rafforzare il proprio comando,
che impiega, con maestria, nella più impegnativa opera annonaria.
Il decreto di Segni
Nel Paese uscito dalla guerra con il sistema agroalimentare compromesso
provvedono a fornire l'essenziale alla tavola degli italiani i successivi piani
di aiuto americani, Amg, Unrra ed Ausfap, tra le cui voci occupano un posto
eminente le forniture alimentari. Dopo aver offerto ai vincitori appena
sbarcati l'apparato annonario con cui sfamare i vinti, Mizzi ha continuato la
medesima attività per conto del Commissariato all'alimentazione, quindi del
Ministero dell'agricoltura, destinatari formali delle derrate americane. Ha
riorganizzato, contemporaneamente, la rete dei consorzi per distribuire le
prime macchine agricole che escono dalle catene di montaggio ristrutturate dopo
aver prodotto carri armati, e i concimi prodotti dalle industri chimiche che
hanno interrotto la produzione di esplosivi.
Conservato, nel quadro delle istituzioni pubbliche, per assolvere agli
imperativi del momento, dal governo Bonomi, il contesto federconsortile attende
di essere inserito organicamente nella cornice repubblicana dalla riforma che
lo restituisca alla primitiva natura cooperativistica.
Vara il decreto di riforma, il 7 maggio 1948, Antonio Segni. Sono trascorsi
quindici giorni dal trionfo democristiano del 18 aprile: dello scontro senza
quartiere di cui quel trionfo segna un cippo il testo è frutto emblematico.
Piuttosto dell'attesa riforma, è l'espressione della scelta di nulla riformare:
nell'incertezza di quali maggioranze potranno formarsi in ciascun consorzio, lo
statuto del ministro democristiano perpetua l'accentramento fascista, la
precauzione per affidare il controllo dei consorzi che potranno essere
conquistati dagli avversari alla Federazione, che Segni spera sarà guadagnata
alle forze democristiane. Se le riforme fasciste hanno creato una compagine di
enti corporativi che giuristi autorevoli hanno dubitato di classificare
autentici enti pubblici, la riforma democristiana ricostituisce un sistema di
cooperative per le quali risulterà inapplicabile la legislazione delle
cooperative: la sommatoria di due discipline dettate da ragioni opposte ma
convergenti, composte estemporaneamente, non sarà causa secondaria del
collasso: difficilmente organismi dallo statuto confuso sfidano impavidi le
ingiurie del tempo.
La pubblicazione del decreto apre la stagione elettorale. Le elezioni hanno
uno svolgimento tempestoso: i rappresentanti della borghesia agraria, eredi
degli amministratori dell'età di Morandi, pretendono il governo dei consorzi e
della Federazione come cosa propria, dimenticando con soverchia leggerezza di
avere abdicato ai propri poteri quando i gerarchi in camicia nera hanno
sottratto le poltrone presidenziali ai rappresentanti eletti dai soci.
Consapevoli del ruolo dell'agricoltura nel futuro scontro politico, i
comunisti, che nel corso della Liberazione hanno svolto un lavoro capillare,
accendendo, nel Mezzogiorno, violenti moti contadini, sono certi della
conquista di un numero ingente di consigli di amministrazione. Dove le forze
della neonata Coldiretti appaiono più vigorose, riescono ad attirare gli
"agrari" nella più spregiudicata delle alleanze.
Coerenza strategica e astuzie tattiche si rivelano egualmente impotenti di
fronte alla forze assicurata a Bonomi dall'attivismo della schiera di
funzionari fascisti sottratti all'epurazione: le elezioni, che nella maggior
parte delle province si svolgono sotto la tutela dei carabinieri, consacrano il
trionfo del movimento contadino cattolico, cui gli avversari riescono a
sottrarre un solo consorzio, quello di Livorno.
La contea democristiana
Il successivo scrutinio, tra i presidenti riuniti a Roma, per la
designazione della giunta e del presidente della Federazione, si trasforma in
plebiscito a favore di Paolo Bonomi. Il successo supera le aspettative più
ottimistiche. E' trascorso poco più di un anno dalla vittoria del 18 aprile: la Democrazia Cristiana
più misurare le posizioni conquistate riconoscendo di non essere stata favorita
da una ventata di opinione, ma di avere incluso tra le proprie linee uno dei
perni del potere economico, l'apparato per distribuire, nell'emergenza,
alimenti alla nazione, lo strumento per indirizzare, nella stabilità, il
progresso tecnologico e sociale delle campagne.
All'indomani della vittoria, Bonomi convoca a convegno i responsabili
consortili per dibattere della strategia futura dell'organizzazione. La riforma
che Antonio Segni non ha osato compiere temendo l'interferenza di una minoranza
socialcomunista può essere affrontata con sicurezza: a turbare i disegni democristiani
nel consiglio della Federconsorzi non siede un solo comunista. Le assise si
celebrano a Fiuggi nel giugno del 1950: sono occasione di mero esercizio
declamatorio. Nei mesi trascorsi dalla vittoria il possesso delle leve del
comando ha convinto Bonomi che la legge appena varata non richieda alcuna
modifica: ha conquistato un organismo monolitico, e un organismo monolitico, ha
deciso valutando lo scacchiere politico, è il migliore baluardo economico della
sua confederazione contadina.
A orientare l'opzione sono anche i primordi dell'intesa con Mizzi che
segnerà il futuro dell'organismo, e dirigerà la parabola di entrambi gli
uomini. Assumendo la presidenza Bonomi, ricordano i funzionari che furono
vicini al direttore generale, non avrebbe celato l'intenzione di liberarsi di
un coinquilino che non doveva a lui la propria investitura.
Reagendo con estrema padronanza ai fendenti del nuovo signore, e rivelando
doti sottilissime di diplomazia, il ragioniere piacentino avrebbe indotto
l'avversario a percepire quanto, anziché lo scontro, sarebbe stato più proficuo
l'accordo. Concludendo un compromesso, il presidente della Coldiretti avrebbe
disposto, alla guida della Federazione, di un uomo che ne avrebbe padroneggiato
i meccanismi commerciali assicurandogli la più assoluta fedeltà: avrebbe
goduto, così, i vantaggi del controllo politico senza doversi impegnare in
prima persona sul terreno finanziario, su quello mercantile e su quello
fiscale, tre sfere che Bonomi istintivamente rifuggiva.
Dotato dell'istinto più sagace per i problemi di schieramento, e
dell'intuito più pronto per i rapporti di primato e di sudditanza, Bonomi
avrebbe compreso che quanto gli offriva l'uomo che aveva cercato di spingere
alle dimissioni costituiva proposta da non lasciare cadere. Dalla sua
accettazione sarebbe nato un sodalizio destinato a segnare di sé la storia
economica delle campagne, quella politica del Paese.
L'incontro di Fiuggi si celebra cinque lustri dopo l'assise in cui, a
Montecatini, Morandi ha denunciato i pericoli che avrebbero minacciato il
sistema consortile se gli uomini che lo dirigevano avessero lasciato offuscare
l'ideale di libertà delle origini. Nei cinque lustri successivi, governata
dalla diarchia di Bonomi e Mizzi, la Federconsorzi apparirà corazzata inaffondabile.
Nel suo scafo, sotto la linea di galleggiamento, si moltiplicheranno le falle.
Tenterà, invano di chiamare volontari alle pompe, al termine della diarchia, un
altro convegno, a Piacenza. Sarà l'ultimo dell'epopea della Federconsorzi.
Già pubblicati:
1ª parte
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3ª parte
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Docente
di Storia dell'agricoltura all'Università di Milano, giornalista,
storico delle scienze agrarie. Ha diretto la rivista mensile di
agricoltura Genio Rurale ed è stato vicedirettore del settimanale,
sempre di argomento agricolo, Terra e vita. E' autore della Storia delle
Scienze Agrarie opera in 7 volumi. www.itempidellaterra.com
Interessante lavoro, come sempre il prof. Saltini da un esauriente spaccato dell' agricoltura italiana.
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