lunedì 20 luglio 2015

Le campagne lombarde, tessera chiave del mosaico agrario europeo


di Antonio Saltini


Campi oggi in Lombardia
    Tra le contraddizioni della storiografia agraria
Non esiste una storiografia agraria comparata dei paesi d’Europa. La mancata identificazione del posto dell’agricoltura lombarda nel quadro continentale ne costituisce, insieme, la prova più evidente e la conseguenza più palese. L’unica opera sull’agricoltura europea composta combinando autentica padronanza storica e competenza agronomica può essere riconosciuta nel volume che Slicher van Bath pubblicò nel 1962 in olandese e ripubblicò in inglese l’anno successivo (Slicher van Bath 1963). Opera di grande originalità, il volume dello storico olandese si propone il trasparente obiettivo di identificare le regioni e le tradizioni agronomiche da cui avrebbe preso forma l’agricoltura moderna, regioni e tradizioni che l’autore include nell’area dal caratteristico clima atlantico che comprende, sulle sponde opposte della Manica, le regioni dell’Inghilterra meridionale e centrale, quelle della Francia settentrionale (Artois, Picardie, Normandie, Bretagne, Beauce) le Fiandre, i Paesi Bassi, le regioni della Germania atlantica: Holstein e Friesland, la Danimarca. La Pianura padana viene menzionata tra le regioni dalla agricoltura evoluta, ma quell’agricoltura è esclusa da ogni analisi comparata. Chiave del volume la tesi che la moderna agricoltura occidentale sarebbe derivata dalle tradizioni empiriche maturate, tra il Duecento e il Cinquecento, nelle Fiandre e nei Paesi Bassi, che sarebbero state perfezionate dalle schiere di agronomi protagoniste, in Inghilterra, tra il Seicento e l’Ottocento, della Rivoluzione agraria. Desumendo, dalle regioni oggetto di indagine, i confini orientali e settentrionale dell’area della “invenzione” dell’agricoltura moderna possiamo identificare, schematicamente, nel Reno e nella Loira i valla oltre i quali nessun contributo sarebbe stato prestato al grande processo storico (la dottrina geografico-economica del volume è organicamente illustrata nell’Introduzione, 7-37). Come nei planisferi cinquecenteschi le aree mai penetrate dell’Africa erano contrassegnate dalla locuzione “Hic sunt leones” nell’ideale carta del progresso agrario occidentale, oltre la Loira e a meridione del Reno van Bath avrebbe scritto “Hinc sunt boves”, l’animale nel quale, nella propria visione dell’evoluzione dell’agricoltura, identifica il simbolo dell’agricoltura primitiva, fondata sul maggese, ignara di qualunque coltura foraggera, un’agricoltura che non fornisce al mercato che un unico seppure fondamentale prodotto: il frumento (vedasi l’asserzione emblematica a proposito del Poitou, p. 84).

La visione è doppiamente illusoria. Mentre nei confronti dell’Inghilterra van Bath dichiara che nessun contributo avrebbe prestato, al progresso agrario, la letteratura agronomica, un preconcetto derivante dall’assenza, nella storia dell’agricoltura fiamminga e olandese, di qualunque testo scritto, ignorando che trasposte, dai viaggiatori inglesi, dai campi olandesi a quelli britannici, le pratiche, funzionali, ma ripetitive, dell’agricoltura fiamminga sarebbero divenute oggetto dell’autentica passione sperimentale della patria di Bacone, e che sarebbe stata quella vitalità sperimentale a farne il nucleo di un’economia agraria radicalmente nuova, che conservava nelle pratiche olandesi il nucleo originario, potenziato dagli apporti delle discipline naturalistiche ed economiche che conoscevano nel Regno Unito il più vivace centro di evoluzione (emblematico il giudizio sulla letteratura agronomica britannica posteriore al 1650, dichiarata priva di rilievo proprio all’alba della propria età d’oro, p. 288).

Sul piano geografico l’esclusione del centro e del meridione del continente dall’area di nascita dell’agricoltura moderna tradisce, invece, la sostanziale ignoranza delle peculiarità precipue dell’agricoltura padana, in particolare lombarda, del Rinascimento, l’ignoranza che impedisce al professore di Wageningen di riconoscere che convertendo la remora del clima più ostile, attraverso l’irrigazione, in cospicuo vantaggio, gli ordinamenti padani, ancora, in particolare, lombardi, non risultano soltanto più vari e più ricchi, comprendendo, quali autentiche colture mercantili, produzioni ignote nell’Europa centrale e settentrionale, ma le medesime colture realizzano rese maggiori, sospingendo la produttività complessiva, su territori di eguale ampiezza, a valori ampiamente superiori.
Chi scrive rilevava, nella prima edizione della propria Storia delle scienze agrarie (Saltini 1979), che propone la demolizione inequivocabile dell’antico stereotipo cui van Bath presta il proprio ossequio – l’identificazione cavallo-progresso/ buoi-arretratezza – il fondatore dell’agronomia italiana, il bresciano Agostino Gallo. Con una argomentazione di esemplare lucidità storica ed economica l’agronomo lombardo dimostra la vanità di giudicare un sistema agrario assumendo a parametro chiave uno solo dei suoi fattori, sia esso animale da trazione, coltura essenziale, rapporto di ripartizione dei frutti della terra (Gallo 1584, Giornata nona, 175-176), siccome l’unico metro di giudizio razionale corrisponde, come spiegherà, nell’ultima opera filosofica, Ludovico Antonio Muratori, alla capacità della produzione complessiva di soddisfare i bisogni della popolazione di quel territorio, una capacità che dipende, essenzialmente, dall’entità e natura delle risorse disponibili, e dall’adeguatezza delle pratiche mediante le quali dalle medesime risorse si ricavano i prodotti del ciclo agrario annuale (Muratori 1749, capitolo XV, Dell’Agricoltura, 91-92).
Ma rilevata la speciosità del paradigma geografico di van Bath, e l’arbitrarietà dell’esclusione dell’agricoltura irrigua lombarda dall’area in cui avrebbe preso forma la moderna agricoltura europea, possiamo fissare l’obiettivo di questo lavoro nella definizione del ruolo della medesima agricoltura nel mosaico delle regioni in cui la realizzazione della Rivoluzione agraria consentì di alimentare i centri manifatturieri che sarebbero stati il fulcro della Rivoluzione industriale, un obiettivo che impone, quale condizione preliminare, un autentico “discorso sull’acqua”.

L’acqua, linfa vitale di un’economia nuova


L’intera storia dell’irrigazione lombarda è inquinata da un pregiudizio che conta, paradossalmente, un paladino illustre, e che dalle pagine dell’autorevole Mentore rotola inerte negli scritti di studiosi di diversa preparazione e levatura, nessuno capace di emanciparsi dall’insigne fantasma. Il fantasma è quello di Luigi Einaudi, che, alfiere impavido, persino patetico, della norma, sancita dall’intera tradizione romanistica e suggellata da Giustiniano, che assicurava al proprietario di qualunque entità fondiaria l’incondizionato “jus utendi atque abutendi rei suae”, individua, nell’Introduzione ai Saggi sull’argomento di Cattaneo, la matrice giuridica della prodigiosa rete irrigua che si dilata, dal Duecento, nelle campagne lombarde, nello jus aquaeducti, la facoltà del proprietario di un fondo privo di sorgenti di attraversare il fondo altrui, secondo il percorso più conveniente al proprietario, con la condotta che gli consenta di abbeverare il bestiame, di cucinare e lavare indumenti (Einaudi 1975, XV): è una facoltà palesemente inadeguata a consentire l’escavazione di grandi canali che attraversino centinaia di proprietà, i cui titolari, costretti a permettere l’escavazione, saranno altresì obbligati a utilizzare l’acqua che l’opera assicurerà ai fondi intersecati.

Definisce l’esatto contesto normativo nel quale si realizzano le grandi opere irrigue dei comuni, che saranno proseguite e ampliate dalle successive signorie, un’operetta di Carlo Bertagnolli, figlio del Trentino, laureato in legge a Innsbruck, che, sulla base delle indagini sugli statuti comunali di Muratori sottolinea che solo la radicale eversione dello “jus utendi atque abutendi” poté consentire opere che la necessità dell’adesione volontaria di tutti gli interessati avrebbe reso del tutto impensabili. A determinare la sovversione sarebbero stati gli impulsi più vitali del diritto germanico, un diritto eminentemente comunitario, profondamente radicato nella cultura giuridica medievale, che induce le assemblee comunali a sancire il potere della maggioranza degli utenti futuri a obbligare gli oppositori ad accettare non solo l’intersezione dei fondi, ma l’acquisto dell’acqua, o, meglio, il pagamento del canone annuale, un onere che costringerebbe il proprietario più abbiente, che pretendesse, pagando il canone, di perpetuare l’antico ordinamento grano-maggese, a vendere l’azienda dopo meno di un lustro (Bertagnolli 1977, 159). I canoni non erano irrisori: l’acqua ripagava, e ripagava generosamente, chi la utilizzasse per produrre foraggi, che si convertivano in quei formaggi Piasentini e Lodesani di cui sussisteva la domanda più fervente, e in letame, che consentiva di moltiplicare le produzioni cerealicole: frumento, miglio e panico. I ricavi del grano dopo maggese nudo, contratti dal costo delle quattro tradizionali arature eseguite senza alcun ricavo diretto, non avrebbero mai permesso di pagare gli onerosi canoni comunali. L’opera di Bertagnolli dovrebbe, palesemente essere letta con maggiore attenzione da storici giovani e meno giovani.

L’alba della grande impresa si accende nel mese di agosto del 1179, quando Milano, unica signora, sconfitto, nel 1176, Federico, del proprio territorio, intraprende l’imponente opera del Tisinello: una data che dissolve ogni dubbio sulla regione di origine della nuova agricoltura europea. L’acqua è la linfa che alimenterà un’economia che nel Trecento si imporrà come la più ricca del continente. Mentre la produzione di frumento beneficia della fertilità indotta dalle leguminose foraggere e moltiplicata dal letame, l’acqua medesima sospinge le rese di miglio, panico, riso, colture estive e, già alla metà del Cinquecento, del mais, i grani della dieta popolare, a produzioni sconosciute in qualunque paese diverso, il fondamento dell’alimentazione di una società rurale la cui densità non ha riscontro che nelle aree di più intenso popolamento delle Fiandre, e di una dovizia, sui mercati urbani, che consente l’economicità del cibo per i più numerosi ceti operai, gli uomini, quindi, che nei fondachi che hanno assunto dimensioni di vere manifatture producono i beni la cui esportazione rende le medesime città le più ricche d’Europa: armi, lane, vetri, ceramiche, beni che si traducono, tutti, in denaro, il vero fulcro delle esportazioni italiane. Esportare denaro, che rientrerà nei forzieri da cui è stato estratto dopo avere raddoppiato la propria entità, è la più lucrosa tra le cento attività dei mercanti italiani, titolari delle prime banche dotate di filiali disseminate in tutte le nazioni europee, ma che, attraverso il sistema delle tratte, peculiare invenzione italiana, operano con la medesima sicurezza anche dove non dispongano di succursali, siccome il sistema, rigidissimo e perfetto, consente di trasferire, attraverso un foglio di carta che riporti le formule consacrate dalla tradizione, qualunque somma senza estrarre un ducato dal forziere, al corrispondente che conduca i propri affari nella città più remota (di cui il traente dovrà solo conoscere la solvibilità), senza alcuna cura diversa dal rispetto, in quel foglio, di locuzioni inviolabili come le formule del rito più solenne. Ci offre il quadro dello straordinario commercio di denaro dei banchieri italiani il piccolo capolavoro sulle tratte di un caratteristico protagonista della via fiorentina, mercante, banchiere, grande letterato, Bernardo Davanzati, autore del primo trattato sul mercato delle obbligazioni della letteratura finanziaria (Davanzati Bostichi 1727).

Se cerchiamo una prova inequivocabile della ricchezza di cui l’agricoltura irrigua è la scaturigine nella pianura del Po, ci offre la più eloquente Francesco Guicciardini nella propria Historia d’Italia. Riferendo del consiglio imperiale tenuto, gloriosamente, dopo la vittoria di Pavia, lo storico fiorentino pone sulla bocca di Carlo V l’asserzione che “le pianure italiane possono alimentare tutti gli eserciti che vi si possano dispiegare” (Guicciardini 1561), la ragione per cui Francia e Spagna si accordarono, nel più cinico pactum sceleris, per condurre la propria sfida all’ultima palla di archibugio tra i campi fecondati dai navigli, convertendo il più opulento paese del Cinquecento nel più miserabile del secolo successivo. Guicciardini precisa che al consiglio era presente il confessore di “Sua Maestà Cattolicissima”, cui i doveri dell’ufficio avrebbero imposto di intervenire ricordando l’esistenza, nelle tavole di Mosè, di una norma che prescrive “non desiderare la roba d’altri”: palesemente per i confessori di corte il numero dei precetti mosaici poteva esser contratto o ampliato secondo le convenienze.

Il primo maestro di geografia economica


Abbiamo menzionato il singolare convincimento di van Bath secondo il quale se un paese ha vantato un’agricoltura d’avanguardia senza che nella lingua che vi si parla sia mai stata composta un’opera agronomica se ne deve desumere che l’agricoltura è “arte pratica” che nessun impulso trarrebbe da manuali e prontuari. La lettura dell’immensa biblioteca dell’agronomia europea confuta categoricamente l’illusione: dal Cinquecento le pratiche in uso nelle regioni dall’agricoltura più produttiva sono oggetto di analisi che assumeranno progressivamente i caratteri dell’indagine sperimentale comparata, l’indagine che convertirà pratiche indubbiamente fruttuose in tecnologie produttive di cui i grandi agronomi insegneranno a comporre razionalmente i cento fattori, pedologici, climatici e stagionali, varietali, meccanici ed economici per poter ricavare, dalla coltura realizzata su un terreno specifico, in peculiari condizioni climatiche, con precise disponibilità di forza di trazione, di manodopera, di fertilizzanti, la massima produzione possibile: un’opera combinatoria di palese levatura scientifica, impossibile al contadino che trasponesse altrove la più funzionale delle pratiche tradizionali in un polder dell’Overjssel.

Il primo autentico protagonista della scienza agronomica moderna (escludendo quindi quella latina e quella araba) è figlio della terra nella quale abbiamo registrato la più ricca agricoltura europea del Basso Medioevo, il bresciano Agostino Gallo, autore, nel 1564, delle Dieci giornate della vera agricoltura e piaceri della villa (Bozzola, Brescia), un testo composto, come molte opere scientifiche dell’antichità e del medesimo Rinascimento, nella forma del dialogo (quale frutto di una successione di luminosi successi, mole del testo e titolo si convertiranno, nel 1566, nelle Tredici giornate della vera agricoltura & de’ piaceri della villa, Venetia, N. Bevilacqua, quindi, nel 1569, per opera del medesimo stampatore, nelle Vinti giornate dell’agricoltura et de’ piaceri della villa).

Attribuire al patrizio bresciano i titoli di fondatore dell’agronomia europea impone una nota breve su un dotto dell’età di Dante, il giurisperito bolognese Pietro de’ Crescenzi, che per quattro secoli letterati e cultori di “magia naturale” avrebbero celebrato come il primo, sommo autore di scienza della coltivazione della cultura europea. Nel clima dell’appena compiuto Risorgimento due studiosi generosamente impegnati a celebrare le glorie degli eredi di Scipio hanno denunciato come iniquo l’oblio sancito per l’Opus commodorum ruralium di Crescenzi dalla cultura scientifica ottocentesca (Niccoli 1902; Savastano 1919-1921).
 

Seppure se ne debba apprezzare l’ardore patriottico si è costretti a rilevare che attribuire al giudice bolognese i titoli di fondatore della nuova agronomia occidentale rivela il carattere velleitario tanto confrontandone l’opera con quella del latino Columella, quanto con quella del coevo Ibn al ‘Awwâm, il maggiore agronomo della Spagna morisca, quanto infine, con le Giornate di Gallo, nei confronti delle quali ogni tentativo di comparazione rivela il palese carattere patetico. Laureato nella più insigne scuola di giurisprudenza europea, Crescenzi è, per la vita intera, giudice a fianco di uno dei podestà che i comuni italici invitano, da una città lontana, a governarne la vita civile evitando dubbi e sospetti che avrebbe alimentato l’attribuzione del titolo a un concittadino, legato, inevitabilmente, a famiglie e consorterie. Essendo temporanea la carica maggiore, anche quella di “giudice a latere” si esaurisce nell’arco di pochi anni. Mutando sede Crescenzi percorre parte cospicua dell’Italia centro-settentrionale nell’età d’oro dell’escavazione dei grandi canali irrigui. Quale giurisperito in grado, astrattamente, di comprenderne la matrice giuridica, avrebbe potuto essere il testimone della rivoluzione italiana dell’acqua: l’intero Opus non costituisce, invece, che lo zibaldone del più devoto discepolo di Aristotele, tanto da rendere incomprensibile l’incredulità dei patrioti indignati dell’indifferenza per tanto alte elucubrazioni peripatetiche dei naturalisti del Settecento e dell’Ottocento.

Dimostrato, con una breve, reputo fondata, argomentazione, che lo scrittore medievale non può essere considerato precursore di alcuna nuova scienza agronomica, possiamo riconoscere, con pienezza di titoli, il ruolo di fondatore del pensiero agronomico moderno ad Agostino Gallo. Il riconoscimento impone, peraltro, una precisazione. Erede legittimo del maggiore agronomo dell’antichità, lo spagnolo Lucio Moderato Columella, come il predecessore il patrizio bresciano è grande naturalista per l’intuito con cui osserva i fenomeni della natura e analizza i possibili interventi umani per renderne più proficuo lo sfruttamento. Come quelle della scienza antica la sua analisi è analisi empirica, un impegno capace, dimostra, di frutti copiosi, non è ancora indagine sperimentale, l’indagine che, sulle orme di Galileo e Bacone l’agronomia farà propria nel secolo successivo.

Ma l’agronomia è sistema di conoscenze oltremodo complesso, comprendendo, abbiamo annotato, fattori pedologici, biologici, climatici, meccanici, economici, demografici: nell’intera storia della letteratura agronomica solo gli autentici giganti hanno saputo compendiare organicamente l’ampio contesto delle componenti diverse, ed è proprio la lucida comprensione delle correlazioni tra le molteplici sfere coinvolte a fare di Gallo agronomo grandissimo, come lo sono stati il precursore latino e quello arabo, come nei secoli successivi lo saranno, tra le decine degli autori impegnati nello studio di singole colture e allevamenti, solo i maggiori inglesi, francesi, tedeschi.

Seppure l’intero corso delle Giornate sia ispirato alla sistematica considerazione delle correlazioni tra elementi biologici, tecnologici, economici e demografici, è in una pagina particolare che il patrizio bresciano dimostra la profondità di analisi che ne fa uno dei primi maestri di geografia economica della cultura occidentale. È la pagina in cui affronta il tema Delle molte doti della magn. et Illustre Città di Brescia & del suo Paese, (inserita, nell’edizione del 1566, prima dell’undicesima delle tredici giornate che la compongono, e inclusa, quale Proemio delle tre giornate finali, nell’edizione definitiva). È la più penetrante analisi della fisionomia fisica del contado bresciano, dell’entità della popolazione e delle produzioni agricole, una pagina fondamentale per la costruzione di una teoria organica dei rapporti tra l’uomo e le risorse della terra:



Dapoi che con l’aiuto di Dio ho finito di esplicare i diversi riti dell’Agricol. cavati dalla prattica... ho pensato anco di palesar... le molte dotti della mia patria, & quanto è la fama de’ nostri cittadini, & contadini nel coltivar con buona intelligentia tutt’il paese. Il quale, non stante che circondi poco meno di trecento miglia, & che i monti, i colli, le valli, e le campagne siano assai più de’ campi fertili, tuttavia, per essere habitato da piu che settecento milia creature humane, è talmente ben coltivato, che di sterile, meritamente acquista il nome di fertilissimo.



E il brano prosegue elencando le produzioni caratteristiche dei distretti diversi della provincia: legne, fieni e castagne dai monti, frumenti, olii d’oliva e vini dai colli, biade d’ogni sorta, prodotti animali e vini dalle pianure, soprattutto dalle aree irrigue attorno al Chiese, al Mella, al Garzia e allo Strone. Ancora vini, aranci, limoni e cedri dalla riviera del Garda, poi frutta, legumi, ortaggi, carni, lini e canape, piante tintorie e aromatiche.

Nell’opera fondamentale sulla storia della popolazione italiana Karl Julius Beloch (Beloch 1994) ricorda, senza citare Gallo, fonti coeve che asseriscono che le terre bresciane sarebbero state popolate da oltre settecentomila abitanti, una valutazione smentita dai censimenti dei rettori veneziani, che dimostrano, nella provincia, una popolazione equivalente a circa la metà: la relazione di Contarini del 1557 riferisce la sussistenza di 359.205 abitanti, quella di Francesco Duodo del 1579 ne dichiara 297.899. Lo stesso Beloch spiega, peraltro, la leggenda della straordinaria densità della popolazione bresciana riconoscendo che i 100 abitanti per chilometro quadrato che si debbono attribuire, secondo i dati più sicuri, ai distretti di pianura, costituiscono densità eccezionale, nel Cinquecento, in tutta la geografia d’Europa.

L’eccezionalità del popolamento della pianura bresciana offre l’avallo più significativo all’argomentazione di Gallo, un’argomentazione agronomica, economica e demografica che possiamo parafrasare rilevando che elevata densità di popolamento è presupposto necessario di intensività di sfruttamento della terra, mentre sfruttamento intensivo della terra è condizione di elevata densità demografica: dall’esame dei caratteri dell’agricoltura bresciana il gentiluomo di Poncarale ricava i due assiomi complementari che costituiranno le fondamenta delle riflessioni di economia agraria dei filosofi del Settecento, da Ludovico Antonio Muratori (nell’opera anticipatrice che abbiamo citato) fino al trattato famoso, all’alba del nuovo secolo, di Thomas Robert Malthus (1798).

Un’agricoltura intensiva è la risultante della composizione di due processi capitali e di tre subordinati, che ne costituiscono i corollari. Il primo consiste nell’integrazione dell’allevamento e delle coltivazioni, con l’instaurazione di un flusso continuo di foraggi dai campi alle stalle, di un flusso contrario di letame dalle stalle ai campi. Il secondo è la moltiplicazione degli investimenti realizzati per lo sfruttamento zootecnico del territorio: investimenti collettivi, sbarramenti fluviali, derivazioni e canali, e investimenti privati, opere irrigue aziendali e nuovi edifici, stalle, fienili, cascine, per ricoverare bestiame e foraggi. Di entrambi i fenomeni ha ricostruito il corso, nelle campagne lombarde, Emilio Sereni che individua in Lombardia il primo comporsi di uno scenario agrario moderno (Sereni 1961).

I tre processi subordinati consistono nell’intensificazione dei cicli di sfruttamento del suolo, con la conseguente riduzione dei tempi di riposo, nello sviluppo di colture specializzate, destinate a rispondere a particolari esigenze di mercato, nello spostamento del fulcro delle produzioni dalle derrate per il consumo diretto a quelle destinate alla trasformazione, che si compirà in laboratori artigianali o nella stessa azienda agricola, fino alla nascita dell’industria moderna laboratorio, essa stessa, a funzionalità plurima.

Come quelli capitali, anche i processi subordinati appaiono operanti nell’agricoltura lombarda descritta dalle Giornate, che palesano nell’attività che si sviluppa nelle campagne bresciane un’autentica, moderna agricoltura intensiva. Esaminando i temi affrontati nel dialogo dei protagonisti il lettore rileva, quale autentica chiave dell’opera, il ruolo capitale attribuito alle produzioni foraggere, alle modalità per il modellamento dei campi, alle pratiche di rotazione e di concimazione, condizioni del rinnovo della fertilità senza la quale sono impossibili tanto le successioni più rapide quanto i rendimenti più elevati pretesi da un agricoltore moderno. Si deve quindi sottolineare l’ampiezza dello spazio dedicato alle colture specializzate: vite, frutta, ortaggi, agrumi, oltre alla molteplicità delle produzioni che l’agricoltore bresciano realizza per la trasformazione: uva per la vinificazione, lino, canapa, lana e bozzoli per la filatura, robbia e guado per la tintoria, latte per le produzioni casearie, fiori di cardo per le tessiture (che li impiegano, appunto, per la cardatura). Il commento esaustivo del testo ha imposto a chi scrive, nel primo volume della propria Storia delle scienze agrarie, 87 pagine di analisi testuale, alla quale rimanda i lettori che volessero penetrare il significato agronomico e mercantile delle produzioni agrarie lombarde alla metà del Cinquecento. Il testo sarà disponibile, prossimamente, anche nella traduzione inglese.

Canali, “marcite”, grange Cistercensi


Una pagina essenziale, seppure di redazione problematica, delle vicende del sistema irriguo lombardo, e del peculiare impiego delle acque nelle produzioni zootecniche, riguarda il ruolo, nell’identificazione delle metodologie di maggiore efficienza nella pratica irrigua, di due famiglie monastiche, quella dei Cistercensi, espressione dell’ultima grande “riforma” tra le schiere di Benedetto, e quella degli Umiliati, uno degli ordini mendicanti fioriti nel clima nuovo del Duecento. Entrambi presenti in Lombardia con una pluralità di conventi, i primi avrebbero avuto il proprio centro maggiore a Chiaravalle, i secondi a Vicoboldone. Seppure riconosciuti, da fonti molteplici, artefici di cospicue innovazioni nello sfruttamento dell’acqua e negli allevamenti connessi, nessuno dei due ordini avrebbe mai incaricato qualcuno dei propri dotti a scrivere il manuale che definisse la fisionomia delle pratiche diffuse nelle proprie grange, un compito cui si sarebbero scrupolosamente sottratti anche storici e agronomi dei secoli successivi, cosicché sulle matrici di tecnologie capitali per l’evoluzione di una delle industrie zootecniche più dinamiche d’Europa non si conosce, praticamente, nulla.

Si può notare, con motivata sorpresa, che la grande esperienza riformatrice che porta il nome di San Bernardo è assurta, in anni recenti, ad oggetto di intenso impegno di indagine, cui hanno partecipato studiosi francesi, britannici, statunitensi: chi consulti, tuttavia, l’opera di prestigio maggiore nata dalla nuova vague neobenedettina non reperisce che dotte analisi sulla disposizione dei monaci in coro, sulle consuetudini del servizio in refettorio, nulla sul lavoro dei campi (Kinder 2002). Chi chieda ragguagli all’autorevole autrice non riceve, peraltro, neppure una riga di risposta. Riconosciuta l’inutilità dell’intera pubblicistica moderna, solo chi possa contare su una benedizione particolare di san Bernardo può reperire un volumetto pubblicato, nel 1822, dall’avvocato Domenico Berra, collaboratore degli Annali dell’agricoltura del Regno d’Italia, la prima rassegna agronomica nazionale, creata, sotto il beneaugurale scettro napoleonico, per assicurare uno strumento di comunicazione agli agronomi italici dal professor Filippo Re, uno studioso cui dedicheremo qualche attenzione delle pagine successivi di questo saggio.

Invitato da Re a redigere il panorama dell’attività orticola che si sviluppa, fiorente, attorno a tutte le porte cittadine (Annali cit., fasc. 14), il legale milanese avrebbe assolto all’impegno con tale maestria da indurre il direttore degli Annali a invitarlo a estendere le proprie ricerche alla presenza e al ruolo degli ordini monastici nelle campagne periurbane, dove entrambi gli ordini avrebbero disposto di superfici cospicue, inducendo Berra ad affrontare, con la perizia del cultore di atti giuridici, archivi imponenti. Seppure non avessero risolto tutti i quesiti su tema tanto ampio, i risultati del suo impegno (Berra 1822) costituirebbero l’unico contesto di informazioni attendibili sulla vicenda, un contesto che nessuno, in seguito, dagli storici ottocenteschi ai nuovi cultori di studi sul monachesimo lombardo, si sarebbe preoccupato di integrare.

Le indagini realizzate avrebbero condotto Berra a proporre una tesi che non manca di coerenza: sconfitto, nel 1176, il Barbarossa e assicuratisi la potestà di decidere come governare la vita della città e delle campagne circostanti, i milanesi avrebbero impegnato facoltà politiche e disponibilità finanziarie in grandi imprese idrauliche, prima tra tutte quella del Tisinello, varata nei tre anni successivi alla vittoria. Alla prima altre sarebbero seguite fino a scontrarsi col difficile problema dell’incanalamento verso mezzogiorno delle acque dei torrenti che ricolmavano i fossati delle cinte murarie ma, che attorno alle medesime cinte ristagnavano diffondendo intollerabili miasmi: il Seveso, il Nirone, il Vepro e il Vedra. Divenuto l’inconveniente intollerabile, il problema sarebbe stato discusso, dal 7 maggio 1269, da assemblee sempre più accese, fino alla delibera dell’immissione delle acque stagnanti nel cavo Vettabbia, che sarebbe stato ampliato per condurle al Lambro. Si sarebbe creato, così, un canale dal flusso cospicuo che, attraversando la città, ne avrebbe raccolto gli scarichi fognari, arricchendosi, così, di un ingente carico fertilizzante. L’opportunità sarebbe stata colta, con assoluta destrezza, da Cistercensi e Umiliati, che, in possesso delle più evolute tecniche ingegneristiche, e delle migliori pratiche foraggere, si sarebbero impegnati, in reciproca concorrenza, ad acquisire tutti i terreni sul percorso del nuovo canale e a convertirli da sterili gerbidi, quali erano, in grandi praterie in grado di ospitate “bergamine” le grandi stalle del tempo, più di una capace di 100 lattifere, al tempo entità prodigiosa.

Leggendo, frutto delle accurate indagini d’archivio, le riflessioni di Berra sulla rapidità della conquista, da parte di due ordini monastici, della parte dal futuro più rigoglioso delle campagne a mezzogiorno di Milano, non si può mancare di essere colpiti dalle due ragioni di maggiore rilievo cui l’avvocato milanese attribuisce il successo dell’impresa: entrambi gli ordini avrebbero trionfato, sottolinea lo storico lombardo, contando sulla più aggressiva intraprendenza immobiliare: convertite rapidamente le prime aziende acquisite, a prezzi insignificanti, le avrebbero rivendute a prezzi moltiplicati, che avrebbero consentito l’acquisto di terreni immensamente più vasti, sui quali entrambi avrebbero fondato la propria duratura opulenza agraria. La seconda condizione del successo sarebbe stata, aggiunge Berra, il più rigido controllo della manodopera, la folla dei conversi accettati, sottolinea, solo se in possesso del maggiore vigore fisico, e trattati, precisa, quali autentici “schiavi”, tanto che era loro severamente vietato apprendere a leggere, e per le devozioni domenicali era loro consentito di conoscere non più di quattro preci. Non paiono essere le condizioni dell’autentica fraternità monastica: l’intero volumetto attesta, peraltro, lo scrupolo archivistico di Berra.

La maestria irrigua cistercense avrebbe svolto un ruolo capitale, rileva l’avvocato milanese, anche nella creazione della “marcita” o “prato marcitoio”, l’apprestamento più originale della foraggi-coltura lombarda, sulla cui creazione confronta le ipotesi fino ad allora proposte, concludendo che, nella contraddittorietà delle notizie può riferire, quale elemento certo, che la prima menzione che glie ne hanno offerto gli archivi è costituita da un atto del notaio De Tesseri datato 25 aprile 1566. Non costituisce dettagli privo di rilievo che uno dei contraenti sia l’Abate commendatario del monastero di Vicoboldone.

Il collasso del seicento, la rinascita del settecento


Ho annotato la causa essenziale del crollo dello splendore economico dell’Italia dei canali e delle colture intensive: l’opulenza del paese più ricco d’Europa, i cui governanti, duchi e marchesi di ineguagliata astuzia nella conduzione delle rivalità con i propri vicini, mancano assolutamente, fondando una tradizione che si perpetuerà, di ogni comprensione del quadro internazionale: ottemperando, anzi, ai suggerimenti del Segretario fiorentino, sono impegnati nella perpetua ricerca di un alleato invincibile per sopraffare il vicino che invincibile non è, con l’encomiabile risultato di rimettere le sorti d’Italia nelle mani delle due potenze altrettanto avide di impadronirsi di tanta indifesa ricchezza, sfidandosi sul suolo italico fino a convertire l’oggetto della proprie bramosie nell’ammasso di rovine e nei deserti di terre abbandonate a macchie e paludi illustrati, nei secoli successivi, dagli innumerevoli viaggiatori dotati di estro pittorico, di tela e pennello.

Sul piano letterario ai fasti dell’agricoltura lombarda celebrati da Gallo succedono, nel Seicento, quelli dell’opera di un cortigiano felsineo, Vincenzo Tanara, che nello spirito, radicalmente diverso, della “grassa” Bologna, compone il capolavoro dell’agronomia barocca (Tanara 1644). Dopo lo scenario, dispiegatoci da Gallo, della prima agricoltura moderna, quella che tratteggia il possidente bolognese è un’agricoltura sostanzialmente medievale, capace, tuttavia, per l’immensità delle proprietà patrizie, di ricolmare, dopo ogni banchetto, le insaziabili dispense di marchesi e cardinali, dalle quali il nostro cortigiano, insicuro commentatore di rotazioni e tecniche colturali, ineguagliato “maestro di casa” delle famiglie che condividono, nel senato cittadino, gli oneri (soprattutto digestivi) di governo del cardinale legato, suggerisce, con inesausta fantasia, cosa estrarre per comporre, per il prelato giunto repentinamente, un’accoglienza adeguata, che consisterà nel frettoloso rinfresco di tre servizi di dodici portate ciascuno.

I canali che hanno consentito i prodigi dell’agricoltura lombarda del Cinquecento non sono stati, felicemente, interrati, nonostante la catastrofe politica ed economica nelle piane insubri si è immensamente dilatata, nel corso del secolo infelice, la coltura del gelso, che, quando la Lombardia ritrova, sotto lo scettro di Vienna, l’ordine civile ed economico, assicurano all’antica ricchezza casearia il complemento della non inferiore ricchezza sericola. Seppure dediti, non meno dei patrizi petroniani, ai più sontuosi ozi teatrali e culinari, il quadro delineato da Giuseppe Parini è inequivocabile, gli aristocratici lombardi non affidano le proprietà a fattori dediti unicamente ad angariare mezzadri miserabili, ma ai più accorti “ingegneri agronomi” del tempo, che valorizzano la risorsa antica dell’acqua ricostruendo un’economia i cui fasti zootecnici eguagliano, forse superano, quelli delle Fiandre, del Lincolnshire, dell’Herefordshire, i cui accorti allevatori non possono vantare, complemento delle produzioni dei mammiferi maggiori e minori, quelle di un insetto che si rivela fonte di ricchezza persino superiore: il baco da seta.

Dimostra, contro ogni possibile dubbio, la floridezza dell’allevamento lombardo, una pagina emblematica del diario di viaggio del più geniale e bizzarro agronomo britannico del Settecento, Arthur Young (1794). Conoscitore impareggiabile dell’agricoltura del Regno Unito, che ha percorso ripetutamente stilando ampie relazioni sulle contee in cui è più vivace il progresso agricolo, Young professa l’incondizionato convincimento che l’agricoltura britannica sia l’unica agricoltura evoluta del Continente. I suoi elogi più appassionati sono rivolti, sistematicamente, alle aziende dei grandi aristocratici, che corteggia durante l’intera esistenza per ottenere accesso e incarichi nelle sfere più elevate della vita londinese, nelle quali riesce a insediarsi per doverle, sistematicamente, abbandonare dopo l’impertinenza che si permette, pubblicamente, nei confronti di un duca o di un visconte. Certo, con straordinaria lucidità, che Inghilterra e Francia siano sulla soglia del duello finale, realizza il più accurato viaggio nel paese rivale per valutarne le risorse umane ed economiche, che, malgrado l’esplicita avversione, giudica con un acume reputato prodigioso dal giudice più autorevole, Fernand Braudel.

Percorsa la Francia intera annotando, in ogni pagina di diario, il raccapriccio per l’irrazionalità delle rotazioni, la primordialità degli strumenti, l’assenza di qualunque selezione del bestiame, sottolineando l’ignoranza dei proprietari e l’incompetenza degli agronomi, sospinto, dalla curiosità di autentico viaggiatore, a protrarre il viaggio in Italia, annota, dopo la visita di alcune aziende allevatrici di Codogno:

 
Non lascerò questo interessantissimo distretto senza raccomandarlo con ogni calore a coloro che desiderino acquisire una completa e perfetta educazione nella conduzione di un’azienda agricola. A questo fine Codogno costituirebbe la meta ideale, siccome è circondato da grandi allevamenti lattieri, e annovera i maggiori magazzini di formaggio tra tutte le città della Lombardia, con la conseguenza di scambi continui con gli arbitri dell’industria casearia del Lodigiano. Vi si possono inoltre acquisire le migliori conoscenze sull’irrigazione e sulla manifattura del formaggio (vol. II, pag. 191).

 
Dato il disprezzo profuso per l’agricoltura della Francia, quello che profonderà, proseguendo il viaggio, per la mezzadria bolognese e quella toscana, è impossibile immaginare che la dichiarazione non sia assolutamente sincera. Per reperire, nell’immensa biblioteca di Young, un solo apprezzamento simile si è costretti a sfogliare migliaia di pagine, e gli encomi saranno sistematicamente rivolti alla perfezione delle rotazioni nelle proprietà di Sir Joseph Banks nel Lincolnshire o per la superba forma del bestiame in quelle di Woburn dei Duchi di Bedford. Agli allevatori di Codogno l’elogio del più impietoso critico dell’agricoltura del Continente non sarà costato, verosimilmente, che un paio di colazioni in qualche trattoria che al più perfetto formaggio lodigiano potesse unire il più sapido prosciutto della tradizione padana.

Riacquistato il primato produttivo, la Lombardia asburgica riconquista anche quello agronomico. Il governo di Vienna provvede alla stampa, in latino, dell’opera agronomica in due volumi del rettore dell’Università di Buda, il dotto gesuita Lajos Mitterpacher von Mitternburg (1779-1794). I due tomi non propongono al critico un’autentica opera agronomica, offrono, piuttosto, il frutto delle letture di uno studioso che ha esaminato i testi più aggiornati delle grandi scuole agronomiche fiorite, dal Seicento, in Inghilterra e in Francia, un testo di modesta penetrazione agronomica, eppure opera preziosa per l’aggiornamento di una cultura naturalistica che è rimasta estranea, nell’Impero, ad ogni influsso della nuova agronomia sperimentale. Diffusa in latino perché sia accessibile a tutti i parroci, delegati del radicamento dei primordi dell’agricoltura razionale tra i contadini, la diffusione degli Elementa rappresenta il primo cimento di divulgazione pubblica, un cimento cui il governo lombardo-veneto non partecipa passivamente, cui contribuisce accrescendone originalità ed efficacia. Stampata nel 1784, la versione milanese non costituisce, infatti, mera rassegna di citazioni straniere, siccome la Società patriotica la integra di un terzo volume al quale presta il proprio contributo il ceto di ingegneri e amministratori rurali che rappresentano i veri artefici dei nuovi fasti agricoli insubri. Quegli agronomi non sono, possiamo rilevare, innovatori protesi a indirizzare, con l’esperimento, le pratiche agrarie verso frontiere nuove, sono i conoscitori più accorti dei segreti delle grandi produzioni lombarde: nello spirito genuino di Gallo, lo spirito empirico dell’agronomia classica, descrivono magistralmente colture e allevamenti che hanno restituito alle campagne bresciane, cremonesi e milanesi l’antica ricchezza.

La traduzione, tanto coerentemente integrata, del testo del dotto magiaro, rappresenta l’unica opera di dignità internazionale dell’agronomia italiana nell’intero Settecento. Se pure non eguagli la levatura della pubblicistica agronomica britannica, francese e tedesca, la cultura agraria italiana vanta traguardi ambiziosi in sfere contigue, i traguardi che prendono corpo nel catasto composto sotto lo scettro di Maria Teresa, un’opera sorretta da fondamenta teoriche originalissime, un titolo che deve essere attribuito, ancora, alla cultura di ingegneri e amministratori rurali, enucleata, nei principi essenziali, dalla lucidità teorica di autentici grandi economisti, ricordiamo il milanese Pietro Verri e il toscano Pompeo Neri, in quanto funzionario imperiale milanese di adozione. Ai loro nomi deve essere associato quello di Cesare Beccaria, il cui manuale di economia politica (Beccaria 1804), redatto per l’inaugurazione della milanese Scuola palatina, contiene la più originale dottrina degli scambi cerealicoli costruita dopo il primo testo di politica agraria scritto in Europa, i capitoli dedicati all’amministrazione dell’agricoltura nel contesto della Pubblica Felicità oggetto de’ Buoni Principi di Muratori (citata).

Nasce, dopo il lungo torpore, la prima scuola agronomica italiana


Dopo il secolo dei fasti gastronomici di Tanara la pubblicazione, nel corso dell’intero Settecento, della traduzione della prestigiosa opera magiara non può ricolmare l’immensa voragine che separa la cultura agronomica italiana da quella europea. Non contraggono lo iato le sontuose enciclopedie di eclettici tanto versatili quanto incapaci di penetrare l’essenza scientifica delle opere francesi che Francesco Griselini e Francesco Gera ricopiano senza discernere la troppa paglia dal poco grano, lo amplia ulteriormente, in età napoleonica, la pubblicazione dell’imponente biblioteca agraria di Filippo Re, patrizio reggiano e professore a Bologna, la cui confusa erudizione si impegna, pateticamente, a stilare il compromesso del credo peripatetico cui l’autore è visceralmente fedele con le rivoluzionarie scoperte chimiche di Antoine de Lavoisier (Traité Élémentaire de Chimie, présenté dans un ordre nouveau et d’après les découvertes modernes, Paris 1789), quelle fitopatologiche di Giovanni Targioni Tozzetti (Alimurgia, o sia modo di render meno gravi le carestie, Firenze, G. Bouchard, 1767), quelle fisiologiche di Théodore de Saussure (Recherches chimiques sur la végétation, Paris, Nyon, 1804), che il professore bolognese ha scrupolosamente letto nell’assoluta incapacità di comprendere che le concezioni che propongono dissolvono radicalmente, non possono integrarsi, quali appendici, alla teoria dei quattro elementi, terra, acqua, aria e fuoco, della fisica dello Stagirita. Così come pare incapace di percepire che l’idea della trasmissione della vita, e della sua continuità grazie alla “combustione” di molecole composte da elementi singolarmente individuabili, non accetta alcun compromesso con quella del maestro greco, che immaginava che piante e animali avessero origine, casualmente, da primordi invisibili, di incerta natura fisica o metafisica, e che, dopo la nascita, potessero essere convertiti in esseri del tutto diversi (un’upupa, ad esempio, in falco) da misteriosi influssi astrali.

Il ritardo italiano sul terreno agronomico appare, a metà del secolo, dopo cinquant’anni di diffusione delle elucubrazioni del conte reggiano, del tutto incolmabile: lo affrontano, con la lucida consapevolezza della sua vastità, e dell’immenso impegno necessario a ricolmarlo, due uomini, un patrizio toscano, Cosimo Ridolfi, un medico lombardo, Gaetano Cantoni. Aristocratico viaggiatore, proprietario di una grande fattoria in Val d’Elsa, verificato che qualunque progetto di un organismo di sperimentazione e istruzione presentato all’Accademia cittadina dei Georgofili accende grandi entusiasmi, non suscita alcun impegno concreto, Ridolfi esperisce il generoso tentativo di affrontare l’ardua impresa con le proprie forze di proprietario, introducendo nell’azienda avita varietà vegetali, procedure e apparecchi di cui ha annotato modalità ed effetti di impiego nei taccuini di viaggio. Realizzate colture e rotazioni sconosciute tra i colli toscani, invita amici patrizi, piccoli possidenti e fattori a visitare i suoi campi, animando accese discussioni sui relativi vantaggi. Verificata la modestia degli esiti conseguiti, usando del credito di cui gode alla corte granducale promuove la creazione, a Pisa, della cattedra di agronomia e pastorizia, che sarà convertita, nel 1844, in Scuola superiore di grado universitario: impartiti agli allievi i principi della nuova agronomia, saranno quegli allievi, è convinto, a diffondere nella regione le procedure e le rotazioni dell’agricoltura moderna. Nominato direttore, apre il primo anno accademico, l’8 gennaio 1843, con una luminosa prolusione sulle conquiste future dell’agricoltura “scientifica”.

Conseguita a Pavia la laurea in medicina, Gaetano Cantoni segue gli impulsi patriottici operando, quale luogotenente di Cattaneo, durante le Cinque giornate, studia, durante il successivo esilio in Svizzera, le esperienze dei primi fondatori di aziende-scuola elvetici e germanici, von Fellemberg, von Schwerz, Staudinger, Thaer. Convinto della necessità di introdurre in Italia la nuova scienza e le procedure che ne derivano, si impegna, dopo la vittoria nazionale del ‘59, a creare un’istituzione analoga, che apre, nelle campagne di Lodi, a Corte Palasio. Costretto, dall’esiguità dei mezzi che ha raccolto, a interrompere l’esperienza, accetta la cattedra che gli offre l’Università di Torino, sulla quale siede durante quattro anni, per fare ritorno a Milano quando le amministrazioni pubbliche gli assicurano i fondi per la creazione della seconda Scuola superiore italiana, di cui inaugura nel 1870 il primo anno accademico, della quale condurrà la gestione fino alla morte, che ne arresterà l’irrefrenabile attività nel 1887.

Se, confrontando gli esiti delle due imprese, deve riconoscersi a Ridolfi un’originalità di pensiero difficilmente superabile, è inequivocabile che la vitalità della sua Scuola subisce i cento contraccolpi delle vicende che conducono all’estinzione del Granducato, mentre l’accorto impiego, da parte del direttore, dei mezzi a disposizione, farà della Scuola milanese l’autentico ponte attraverso il quale l’agronomia italiana si congiungerà, superato il vallum del secolare ritardo, alla scienza europea. Presteranno il contributo determinante al grande risultato la tempra del maestro, che stabilirà con gli allievi migliori i vincoli che uniscono un’autentica scuola scientifica nazionale, e le amicizie stabilite a Torino, dove suggellerà con il più dinamico editore nazionale, quei cugini Pomba che muteranno la ragione sociale in quella di Unione tipografico editrice torinese, il progetto dell’Enciclopedia agraria italiana, alla quale Cantoni inviterà a contribuire i migliori specialisti italiani, in numero preminente allievi della Scuola, componendo non più una miscellanea di pagine casualmente ricavate dalle opere francesi, ma una raccolta di saggi monografici, sulle branche essenziali dell’agronomia, redatti da studiosi che hanno analizzato, e compreso, i testi chiave dell’agronomia più aggiornata, inglese, francese, tedesca (Enciclopedia agraria italiana, redatta dagli agronomi delle diverse provincie e diretta dal commendatore Gaetano Cantoni, Unione tipografico-editrice, Torino 1880). Le dispense che comporranno i quattro volumi previsti vengono stampate, con più di un’incongruenza rispetto al progetto originario, tra il 1871 e il 1880. Sarà il successo dell’opera a indurre, alla fine del secolo, gli editori a rinnovare l’esperienza con la pubblicazione della Nuova enciclopedia agraria italiana, un’opera che un’ammirevole intuizione scientifica e pubblicistica condurrà a progettare non più come insieme organico di saggi ma come autentica biblioteca di manuali monografici. Affidata alla regia di Vittorio Alpe, docente della Scuola superiore milanese, ciascun volume sarà affidato a uno specialista finalmente in grado di confrontarsi, su un piano di parità, con gli studiosi che affrontano imprese analoghe nei paesi che guidano il progresso scientifico internazionale (Alpe, Zecchini, Soave, Voglino 1898-1932). Dimostra la vitalità dell’impresa la sostituzione, nell’ampio arco temporale, quindi al progredire delle conoscenze, di più di un volume con quello, radicalmente nuovo, di un nuovo autore.

L’età delle istituzioni sperimentali e divulgative: insuccessi e conquiste

La fondazione della Scuola superiore milanese corrisponde all’alba della stagione della creazione del tessuto degli organismi di sperimentazione, divulgazione, istruzione e cooperazione che muteranno, progressivamente, il quadro agrario nazionale. Seppure gli intenti siano lodevoli le realizzazioni risentiranno, sistematicamente, delle incongruenze dei progetti, dell’esiguità dei mezzi loro assicurati, della difficoltà, data l’esistenza di due sole scuole universitarie, del reperimento degli specialisti con i quali guarnire gli organici, un obiettivo tanto più arduo siccome i fondi disponibili non assicurano, generalmente, l’erogazione degli stipendi previsti.

Il 23 dicembre 1866 un decreto reale ha istituito i Comizi agrari, entità di natura ambivalente, metà pubblica metà privata, che vivranno vita ondivaga e sostanzialmente breve. Nel 1870 il ministro Castagnola attua un progetto stilato dal predecessore, Marco Minghetti, istituendo, a Udine, la prima Regia stazione sperimentale, che l’anno successivo sarà seguita da quelle di Modena, Torino, Roma e Lodi. Nel 1905 avranno raggiunto il numero di 15, metà a competenza genericamente agronomica, metà a competenza specifica (viticoltura, fitopatologia, selezione di nuove cultivar di cereali). I mezzi per finanziare la ricerca saranno, per tutte, inadeguati: potranno realizzare progetti sperimentali originali solo quelle in cui un direttore dalle autentiche capacità manageriali saprà offrire agli agricoltori l’attività di un laboratorio di analisi (per le sementi, i fertilizzanti, gli anticrittogamici) tanto efficiente da produrre utili significativi, che potrà devolvere alla sperimentazione.

Risplenderanno, nell’opacità del contesto, le “cattedre ambulanti”, creature originalissime dell’estro italico consistenti, essenzialmente, nell’assunzione, da parte di un’amministrazione provinciale, di un comizio agrario, di un consorzio di comuni, di un laureato cui vengono affidati compiti di conferenziere nei borghi rurali, dove l’oratore dovrà convincere possidenti e contadini all’adozione delle metodologie dell’agricoltura moderna. Più di un cronista ne ha esaltato l’attività come lo strumento dell’autentico decollo della nuova agricoltura italiana. Nella realtà, le decine di cattedre affidate ad un agronomo competente, volonteroso e diligente hanno prodotto progressi significativi, ma, inevitabilmente lenti e parziali. In assenza di rigide norme statutarie, fasti autentici hanno coronato l’opera di direttori dalla personalità prorompente, autentici demiurgi della divulgazione agraria che hanno espresso la propria creatività nella pluralità delle sfere che nelle province loro affidate fossero pronte al balzo del progresso. Quei demiurgi, che non in un caso solo hanno radicalmente mutato il volto agrario di interi comprensori, sono stati manipolo glorioso, non schiera trionfante. Nell’albo d’oro si possono iscrivere Antonio Bizzozero, cattedratico a Parma, Ferruccio Zago, cattedratico a Piacenza, Vittorio Peglion, cattedratico a Ferrara, Luigi Savastano, cattedratico a Sorrento, Domizio Cavazza, cattedratico a Novara. Quell’albo include, ancora, Tito Poggi, cattedratico a Milano, e Antonio Sansone, cattedratico a Cremona, protagonisti dei progressi ulteriori dell’agricoltura lombarda.

Se il numero preminente degli organismi di sperimentazione e divulgazione nasce e protrae la propria esistenza tra difficoltà organizzative e finanziarie, un capitolo radicalmente nuovo della diffusione, nel paese, delle metodologie dell’agricoltura moderna si apre il 10 aprile 1892, quando si riuniscono a Piacenza, nei locali della Banca popolare, cinquanta compunti gentiluomini, diciotto in rappresentanza di altrettanti sodalizi, trentadue in veste di semplici, seppure cospicui, imprenditori agrari, che dichiarano al notaio Vittorio Porta la volontà di costituire la Federazione italiana dei consorzi agrari. La formale assemblea conclude un lungo, in parte confuso, confronto sulla formula più congrua per riunire, economicamente, gli agricoltori italiani assicurando loro una controparte sicura per l’acquisto dei nuovi mezzi tecnici, fertilizzanti, sementi, apparecchiature, con la certezza della qualità, le più convenienti agevolazioni finanziarie, la sicurezza dell’assistenza tecnica più aggiornata sul loro impiego. Non si può non riconoscere una singolarità sorprendente, nell’incontro, nel numero dei consorzi riuniti per creare la propria federazione, una diecina tra gli organismi rappresentati, un numero tanto esiguo da obbligare ad attribuire ai fondatori il lungimirante, quanto ardimentoso, proposito che debba essere la Federazione a promuovere, a tutte le latitudini della penisola e delle isole, la costituzione dei consorzi che non può associare, siccome ancora inesistenti, un proposito che sarà rapidamente, quasi prodigiosamente, concretizzato (Saltini 1993; Saltini 2006).

Si può menzionare, come indizio attendibile della supposizione, il numero, tra i partecipanti, e tra i fondatori dei consorzi che nasceranno dopo l’assemblea, dei discepoli di Gaetano Cantoni. Se i titoli, che ho attribuito al professore milanese, di fondatore di un’autentica scuola economica e scientifica, della consistenza di quella scuola l’assemblea piacentina costituirebbe la prova e, insieme, il frutto maturo. In uno dei lavori in cui chi scrive ha proposto gli argomenti che sosterrebbero l’ipotesi la supposizione è stata integrata con quella della militanza massonica dei gentiluomini riuniti alla Banca popolare di Piacenza. Argomento capitale a suffragare entrambe le supposizioni è la fisionomia dell’autentico protagonista dell’impresa, Giovanni Raineri, il giovanissimo agronomo chiamato da Milano all’insegnamento in un istituto tecnico piacentino, il quale, grazie ai legami stabiliti dal maestro, associa al progetto i migliori dei condiscepoli, assicurando altresì la presenza di due personalità di preminente rilievo nazionale, Luigi Luzzati, finanziere, fondatore del contesto delle Banche popolari, ripetutamente ministro, e il suo primo coadiutore, Enea Cavalieri, due dioscuri che non avrebbero lasciato, palesemente, Roma per la fondazione di una federazione ancora priva, paradossalmente, degli organi federati, la cui partecipazione può spiegarsi solo quale contributo alla realizzazione di un progetto di cui fossero entrambi coautori, affidato a esecutori ai quali fossero organicamente legati e nei quali riponessero la propria assoluta fiducia. In un arco brevissimo di anni la federazione creerà decine di consorzi, aprirà stabilimenti chimici e sementieri, stamperà periodici, convocherà convegni: i segni eloquenti del successo del progetto.

È, quella che ripropongo, ipotesi che potrebbe essere convertita in certezza storica solo da laboriose indagini sui legami, personali e associativi, che uniscono gli uomini della classe politica che governa il paese tra il crepuscolo del Risorgimento e l’alba del fascismo, il quale convertirà, dopo averla sottratta ai fondatori, la federazione piacentina in apparato annonario gestito a fini di illusoria potenza militare, alla quale avrà sacrificato l’unica organizzazione agraria di dimensioni nazionali, di indiscussa funzionalità e di ispirazione liberale, nata fortunosamente tra le cento contraddizioni tra le quali si è sviluppato, nelle campagne italiane, l’embrione dell’agricoltura moderna. Un’ipotesi che, fosse riconosciuta corrispondente all’obiettività storica, confermerebbe il ruolo capitale di Gaetano Cantoni e della sua Scuola superiore nella “conversione” moderna dell’agricoltura italiana e nella sua omologazione a quelle dei paesi che sono stati teatro della Rivoluzione agraria. Senza il contributo, lungimirante e coeso, degli allievi del professore di Milano l’evento piacentino, capitale per il progresso agrario nazionale, sarebbe evento del tutto incomprensibile.


Antonio Saltini 

Docente di Storia dell'agricoltura all'Università di Milano, giornalista, storico delle scienze agrarie. Ha diretto la rivista mensile di agricoltura Genio Rurale ed è stato vicedirettore del settimanale, sempre di argomento agricolo, Terra e vita. E' autore della Storia delle Scienze Agrarie opera in 7 volumi. www.itempidellaterra.com


3 commenti:

  1. Aòfonso, non si tratta di alcune note, ma di una sintesi che confronterò nel mio umile archivio di merito, insieme ai volume di memorie del periodo ritrovabili negli atti dei convegni della Fondazione Datini.

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  2. Sì, Enzo. E' un testo davvero straordinario che merita di essere diffuso.

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  3. Gentili Vincenzo e Alfonso, Agrarian Sciences è disponibile alla diffusione dello scritto del prof. Antonio Saltini.

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