di Antonio Saltini
Campi oggi in Lombardia |
Tra le
contraddizioni della storiografia agraria
Non esiste una storiografia agraria comparata dei paesi d’Europa. La mancata
identificazione del posto dell’agricoltura lombarda nel quadro continentale ne
costituisce, insieme, la prova più evidente e la conseguenza più palese.
L’unica opera sull’agricoltura europea composta combinando autentica padronanza
storica e competenza agronomica può essere riconosciuta nel volume che Slicher
van Bath pubblicò nel 1962
in olandese e ripubblicò in inglese l’anno successivo
(Slicher van Bath 1963). Opera di grande originalità, il volume dello storico olandese si propone il
trasparente obiettivo di identificare le regioni e le tradizioni agronomiche da
cui avrebbe preso forma l’agricoltura moderna, regioni e tradizioni che
l’autore include nell’area dal caratteristico clima atlantico che comprende,
sulle sponde opposte della Manica, le regioni dell’Inghilterra meridionale e
centrale, quelle della Francia settentrionale (Artois, Picardie, Normandie,
Bretagne, Beauce) le Fiandre, i Paesi Bassi, le regioni della Germania
atlantica: Holstein e Friesland, la Danimarca. La Pianura padana viene menzionata tra
le regioni dalla agricoltura evoluta, ma quell’agricoltura è esclusa da ogni
analisi comparata. Chiave del volume la tesi che la moderna agricoltura
occidentale sarebbe derivata dalle tradizioni empiriche maturate, tra il
Duecento e il Cinquecento, nelle Fiandre e nei Paesi Bassi, che sarebbero state
perfezionate dalle schiere di agronomi protagoniste, in Inghilterra, tra il
Seicento e l’Ottocento, della Rivoluzione agraria. Desumendo, dalle regioni
oggetto di indagine, i confini orientali e settentrionale dell’area della “invenzione”
dell’agricoltura moderna possiamo identificare, schematicamente, nel Reno e
nella Loira i valla oltre i quali nessun contributo sarebbe stato
prestato al grande processo storico (la dottrina geografico-economica del
volume è organicamente illustrata nell’Introduzione, 7-37). Come nei
planisferi cinquecenteschi le aree mai penetrate dell’Africa erano
contrassegnate dalla locuzione “Hic sunt leones” nell’ideale carta del
progresso agrario occidentale, oltre la Loira e a meridione del Reno van Bath avrebbe
scritto “Hinc sunt boves”, l’animale nel quale, nella propria visione
dell’evoluzione dell’agricoltura, identifica il simbolo dell’agricoltura
primitiva, fondata sul maggese, ignara di qualunque coltura foraggera,
un’agricoltura che non fornisce al mercato che un unico seppure fondamentale
prodotto: il frumento (vedasi l’asserzione emblematica a proposito del Poitou,
p. 84).
La visione è doppiamente illusoria. Mentre nei confronti dell’Inghilterra
van Bath dichiara che nessun contributo avrebbe prestato, al progresso agrario,
la letteratura agronomica, un preconcetto derivante dall’assenza, nella storia
dell’agricoltura fiamminga e olandese, di qualunque testo scritto, ignorando
che trasposte, dai viaggiatori inglesi, dai campi olandesi a quelli britannici,
le pratiche, funzionali, ma ripetitive, dell’agricoltura fiamminga sarebbero
divenute oggetto dell’autentica passione sperimentale della patria di Bacone, e
che sarebbe stata quella vitalità sperimentale a farne il nucleo di un’economia
agraria radicalmente nuova, che conservava nelle pratiche olandesi il nucleo
originario, potenziato dagli apporti delle discipline naturalistiche ed
economiche che conoscevano nel Regno Unito il più vivace centro di evoluzione
(emblematico il giudizio sulla letteratura agronomica britannica posteriore al
1650, dichiarata priva di rilievo proprio all’alba della propria età d’oro, p.
288).
Sul piano geografico l’esclusione del centro e del meridione del continente
dall’area di nascita dell’agricoltura moderna tradisce, invece, la sostanziale
ignoranza delle peculiarità precipue dell’agricoltura padana, in particolare
lombarda, del Rinascimento, l’ignoranza che impedisce al professore di
Wageningen di riconoscere che convertendo la remora del clima più ostile,
attraverso l’irrigazione, in cospicuo vantaggio, gli ordinamenti padani,
ancora, in particolare, lombardi, non risultano soltanto più vari e più ricchi,
comprendendo, quali autentiche colture mercantili, produzioni ignote
nell’Europa centrale e settentrionale, ma le medesime colture realizzano rese
maggiori, sospingendo la produttività complessiva, su territori di eguale
ampiezza, a valori ampiamente superiori.
Chi scrive rilevava, nella prima edizione della propria Storia delle
scienze agrarie (Saltini 1979), che propone la demolizione inequivocabile
dell’antico stereotipo cui van Bath presta il proprio ossequio –
l’identificazione cavallo-progresso/ buoi-arretratezza – il fondatore
dell’agronomia italiana, il bresciano Agostino Gallo. Con una argomentazione di
esemplare lucidità storica ed economica l’agronomo lombardo dimostra la vanità
di giudicare un sistema agrario assumendo a parametro chiave uno solo dei suoi
fattori, sia esso animale da trazione, coltura essenziale, rapporto di
ripartizione dei frutti della terra (Gallo 1584, Giornata nona,
175-176), siccome l’unico metro di giudizio razionale corrisponde, come
spiegherà, nell’ultima opera filosofica, Ludovico Antonio Muratori, alla
capacità della produzione complessiva di soddisfare i bisogni della popolazione
di quel territorio, una capacità che dipende, essenzialmente, dall’entità e
natura delle risorse disponibili, e dall’adeguatezza delle pratiche mediante le
quali dalle medesime risorse si ricavano i prodotti del ciclo agrario annuale
(Muratori 1749, capitolo XV, Dell’Agricoltura, 91-92).
Ma rilevata la speciosità del paradigma geografico di van Bath, e
l’arbitrarietà dell’esclusione dell’agricoltura irrigua lombarda dall’area in
cui avrebbe preso forma la moderna agricoltura europea, possiamo fissare
l’obiettivo di questo lavoro nella definizione del ruolo della medesima
agricoltura nel mosaico delle regioni in cui la realizzazione della Rivoluzione
agraria consentì di alimentare i centri manifatturieri che sarebbero stati il
fulcro della Rivoluzione industriale, un obiettivo che impone, quale condizione
preliminare, un autentico “discorso sull’acqua”.
L’acqua, linfa vitale di un’economia nuova
L’intera storia dell’irrigazione lombarda è inquinata da un pregiudizio che
conta, paradossalmente, un paladino illustre, e che dalle pagine
dell’autorevole Mentore rotola inerte negli scritti di studiosi di diversa
preparazione e levatura, nessuno capace di emanciparsi dall’insigne fantasma.
Il fantasma è quello di Luigi Einaudi, che, alfiere impavido, persino patetico,
della norma, sancita dall’intera tradizione romanistica e suggellata da
Giustiniano, che assicurava al proprietario di qualunque entità fondiaria
l’incondizionato “jus utendi atque abutendi rei suae”, individua,
nell’Introduzione ai Saggi sull’argomento di Cattaneo, la
matrice giuridica della prodigiosa rete irrigua che si dilata, dal Duecento,
nelle campagne lombarde, nello jus aquaeducti, la facoltà del
proprietario di un fondo privo di sorgenti di attraversare il fondo altrui,
secondo il percorso più conveniente al proprietario, con la condotta che gli
consenta di abbeverare il bestiame, di cucinare e lavare indumenti (Einaudi
1975, XV): è una facoltà palesemente inadeguata a consentire l’escavazione di
grandi canali che attraversino centinaia di proprietà, i cui titolari,
costretti a permettere l’escavazione, saranno altresì obbligati a utilizzare
l’acqua che l’opera assicurerà ai fondi intersecati.
Definisce l’esatto contesto normativo nel quale si realizzano le grandi
opere irrigue dei comuni, che saranno proseguite e ampliate dalle successive
signorie, un’operetta di Carlo Bertagnolli, figlio del Trentino, laureato in
legge a Innsbruck, che, sulla base delle indagini sugli statuti comunali di
Muratori sottolinea che solo la radicale eversione dello “jus utendi atque
abutendi” poté consentire opere che la necessità dell’adesione volontaria
di tutti gli interessati avrebbe reso del tutto impensabili. A determinare la
sovversione sarebbero stati gli impulsi più vitali del diritto germanico, un
diritto eminentemente comunitario, profondamente radicato nella cultura
giuridica medievale, che induce le assemblee comunali a sancire il potere della
maggioranza degli utenti futuri a obbligare gli oppositori ad accettare non
solo l’intersezione dei fondi, ma l’acquisto dell’acqua, o, meglio, il
pagamento del canone annuale, un onere che costringerebbe il proprietario più
abbiente, che pretendesse, pagando il canone, di perpetuare l’antico
ordinamento grano-maggese, a vendere l’azienda dopo meno di un lustro (Bertagnolli
1977, 159). I canoni non erano irrisori: l’acqua ripagava, e ripagava
generosamente, chi la utilizzasse per produrre foraggi, che si convertivano in
quei formaggi Piasentini e Lodesani di cui sussisteva la domanda più
fervente, e in letame, che consentiva di moltiplicare le produzioni
cerealicole: frumento, miglio e panico. I ricavi del grano dopo maggese nudo,
contratti dal costo delle quattro tradizionali arature eseguite senza alcun
ricavo diretto, non avrebbero mai permesso di pagare gli onerosi canoni
comunali. L’opera di Bertagnolli dovrebbe, palesemente essere letta con
maggiore attenzione da storici giovani e meno giovani.
L’alba della grande impresa si accende nel mese di agosto del 1179, quando
Milano, unica signora, sconfitto, nel 1176, Federico, del proprio territorio,
intraprende l’imponente opera del Tisinello: una data che dissolve ogni dubbio
sulla regione di origine della nuova agricoltura europea. L’acqua è la linfa
che alimenterà un’economia che nel Trecento si imporrà come la più ricca del
continente. Mentre la produzione di frumento beneficia della fertilità indotta
dalle leguminose foraggere e moltiplicata dal letame, l’acqua medesima sospinge
le rese di miglio, panico, riso, colture estive e, già alla metà del
Cinquecento, del mais, i grani della dieta popolare, a produzioni sconosciute
in qualunque paese diverso, il fondamento dell’alimentazione di una società
rurale la cui densità non ha riscontro che nelle aree di più intenso
popolamento delle Fiandre, e di una dovizia, sui mercati urbani, che consente
l’economicità del cibo per i più numerosi ceti operai, gli uomini, quindi, che
nei fondachi che hanno assunto dimensioni di vere manifatture producono i beni
la cui esportazione rende le medesime città le più ricche d’Europa: armi, lane,
vetri, ceramiche, beni che si traducono, tutti, in denaro, il vero fulcro delle
esportazioni italiane. Esportare denaro, che rientrerà nei forzieri da cui è
stato estratto dopo avere raddoppiato la propria entità, è la più lucrosa tra
le cento attività dei mercanti italiani, titolari delle prime banche dotate di
filiali disseminate in tutte le nazioni europee, ma che, attraverso il sistema
delle tratte, peculiare invenzione italiana, operano con la medesima sicurezza
anche dove non dispongano di succursali, siccome il sistema, rigidissimo e
perfetto, consente di trasferire, attraverso un foglio di carta che riporti le
formule consacrate dalla tradizione, qualunque somma senza estrarre un ducato
dal forziere, al corrispondente che conduca i propri affari nella città più
remota (di cui il traente dovrà solo conoscere la solvibilità), senza alcuna
cura diversa dal rispetto, in quel foglio, di locuzioni inviolabili come le
formule del rito più solenne. Ci offre il quadro dello straordinario commercio
di denaro dei banchieri italiani il piccolo capolavoro sulle tratte di un
caratteristico protagonista della via fiorentina, mercante, banchiere, grande
letterato, Bernardo Davanzati, autore del primo trattato sul mercato delle
obbligazioni della letteratura finanziaria (Davanzati Bostichi 1727).
Se cerchiamo una prova inequivocabile della ricchezza di cui l’agricoltura
irrigua è la scaturigine nella pianura del Po, ci offre la più eloquente
Francesco Guicciardini nella propria Historia d’Italia. Riferendo del
consiglio imperiale tenuto, gloriosamente, dopo la vittoria di Pavia, lo
storico fiorentino pone sulla bocca di Carlo V l’asserzione che “le pianure
italiane possono alimentare tutti gli eserciti che vi si possano dispiegare”
(Guicciardini 1561), la ragione per cui Francia e Spagna si accordarono, nel
più cinico pactum sceleris, per condurre la propria sfida all’ultima
palla di archibugio tra i campi fecondati dai navigli, convertendo il più
opulento paese del Cinquecento nel più miserabile del secolo successivo.
Guicciardini precisa che al consiglio era presente il confessore di “Sua Maestà
Cattolicissima”, cui i doveri dell’ufficio avrebbero imposto di intervenire
ricordando l’esistenza, nelle tavole di Mosè, di una norma che prescrive “non
desiderare la roba d’altri”: palesemente per i confessori di corte il numero
dei precetti mosaici poteva esser contratto o ampliato secondo le convenienze.
Il primo maestro di geografia economica
Abbiamo menzionato il singolare convincimento di van Bath secondo il quale se
un paese ha vantato un’agricoltura d’avanguardia senza che nella lingua che vi
si parla sia mai stata composta un’opera agronomica se ne deve desumere che
l’agricoltura è “arte pratica” che nessun impulso trarrebbe da manuali e
prontuari. La lettura dell’immensa biblioteca dell’agronomia europea confuta
categoricamente l’illusione: dal Cinquecento le pratiche in uso nelle regioni
dall’agricoltura più produttiva sono oggetto di analisi che assumeranno
progressivamente i caratteri dell’indagine sperimentale comparata, l’indagine
che convertirà pratiche indubbiamente fruttuose in tecnologie produttive di cui
i grandi agronomi insegneranno a comporre razionalmente i cento fattori,
pedologici, climatici e stagionali, varietali, meccanici ed economici per poter
ricavare, dalla coltura realizzata su un terreno specifico, in peculiari
condizioni climatiche, con precise disponibilità di forza di trazione, di
manodopera, di fertilizzanti, la massima produzione possibile: un’opera
combinatoria di palese levatura scientifica, impossibile al contadino che
trasponesse altrove la più funzionale delle pratiche tradizionali in un polder
dell’Overjssel.
Il primo autentico protagonista della scienza agronomica moderna (escludendo
quindi quella latina e quella araba) è figlio della terra nella quale abbiamo
registrato la più ricca agricoltura europea del Basso Medioevo, il bresciano
Agostino Gallo, autore, nel 1564, delle Dieci giornate della vera
agricoltura e piaceri della villa (Bozzola, Brescia), un testo composto,
come molte opere scientifiche dell’antichità e del medesimo Rinascimento, nella
forma del dialogo (quale frutto di una successione di luminosi successi, mole
del testo e titolo si convertiranno, nel 1566, nelle Tredici giornate della
vera agricoltura & de’ piaceri della villa, Venetia, N. Bevilacqua,
quindi, nel 1569, per opera del medesimo stampatore, nelle Vinti giornate
dell’agricoltura et de’ piaceri della villa).
Attribuire al patrizio bresciano i titoli di fondatore dell’agronomia
europea impone una nota breve su un dotto dell’età di Dante, il giurisperito
bolognese Pietro de’ Crescenzi, che per quattro secoli letterati e cultori di
“magia naturale” avrebbero celebrato come il primo, sommo autore di scienza
della coltivazione della cultura europea. Nel clima dell’appena compiuto
Risorgimento due studiosi generosamente impegnati a celebrare le glorie degli
eredi di Scipio hanno denunciato come iniquo l’oblio sancito per l’Opus
commodorum ruralium di Crescenzi dalla cultura scientifica ottocentesca
(Niccoli 1902; Savastano 1919-1921).
Seppure se ne debba apprezzare l’ardore patriottico si è costretti a
rilevare che attribuire al giudice bolognese i titoli di fondatore della nuova
agronomia occidentale rivela il carattere velleitario tanto confrontandone
l’opera con quella del latino Columella, quanto con quella del coevo Ibn al
‘Awwâm, il maggiore agronomo della Spagna morisca, quanto infine, con
le Giornate di Gallo, nei confronti delle quali ogni tentativo di
comparazione rivela il palese carattere patetico. Laureato nella più insigne
scuola di giurisprudenza europea, Crescenzi è, per la vita intera, giudice a
fianco di uno dei podestà che i comuni italici invitano, da una città lontana,
a governarne la vita civile evitando dubbi e sospetti che avrebbe alimentato l’attribuzione
del titolo a un concittadino, legato, inevitabilmente, a famiglie e
consorterie. Essendo temporanea la carica maggiore, anche quella di “giudice a
latere” si esaurisce nell’arco di pochi anni. Mutando sede Crescenzi percorre
parte cospicua dell’Italia centro-settentrionale nell’età d’oro
dell’escavazione dei grandi canali irrigui. Quale giurisperito in grado,
astrattamente, di comprenderne la matrice giuridica, avrebbe potuto essere il
testimone della rivoluzione italiana dell’acqua: l’intero Opus non
costituisce, invece, che lo zibaldone del più devoto discepolo di Aristotele,
tanto da rendere incomprensibile l’incredulità dei patrioti indignati
dell’indifferenza per tanto alte elucubrazioni peripatetiche dei naturalisti
del Settecento e dell’Ottocento.
Dimostrato, con una breve, reputo fondata, argomentazione, che lo scrittore
medievale non può essere considerato precursore di alcuna nuova scienza
agronomica, possiamo riconoscere, con pienezza di titoli, il ruolo di fondatore
del pensiero agronomico moderno ad Agostino Gallo. Il riconoscimento impone,
peraltro, una precisazione. Erede legittimo del maggiore agronomo
dell’antichità, lo spagnolo Lucio Moderato Columella, come il predecessore il
patrizio bresciano è grande naturalista per l’intuito con cui osserva i
fenomeni della natura e analizza i possibili interventi umani per renderne più
proficuo lo sfruttamento. Come quelle della scienza antica la sua analisi è
analisi empirica, un impegno capace, dimostra, di frutti copiosi, non è ancora
indagine sperimentale, l’indagine che, sulle orme di Galileo e Bacone
l’agronomia farà propria nel secolo successivo.
Ma l’agronomia è sistema di conoscenze oltremodo complesso, comprendendo,
abbiamo annotato, fattori pedologici, biologici, climatici, meccanici,
economici, demografici: nell’intera storia della letteratura agronomica solo
gli autentici giganti hanno saputo compendiare organicamente l’ampio contesto
delle componenti diverse, ed è proprio la lucida comprensione delle
correlazioni tra le molteplici sfere coinvolte a fare di Gallo agronomo
grandissimo, come lo sono stati il precursore latino e quello arabo, come nei
secoli successivi lo saranno, tra le decine degli autori impegnati nello studio
di singole colture e allevamenti, solo i maggiori inglesi, francesi, tedeschi.
Seppure l’intero corso delle Giornate sia ispirato alla sistematica
considerazione delle correlazioni tra elementi biologici, tecnologici,
economici e demografici, è in una pagina particolare che il patrizio bresciano
dimostra la profondità di analisi che ne fa uno dei primi maestri di geografia
economica della cultura occidentale. È la pagina in cui affronta il tema Delle
molte doti della magn. et Illustre Città di Brescia & del suo
Paese, (inserita, nell’edizione del 1566, prima dell’undicesima delle
tredici giornate che la compongono, e inclusa, quale Proemio delle tre
giornate finali, nell’edizione definitiva). È la più penetrante analisi della
fisionomia fisica del contado bresciano, dell’entità della popolazione e delle
produzioni agricole, una pagina fondamentale per la costruzione di una teoria
organica dei rapporti tra l’uomo e le risorse della terra:
Dapoi che con l’aiuto di Dio ho finito di esplicare i diversi riti
dell’Agricol. cavati dalla prattica... ho pensato anco di palesar... le molte
dotti della mia patria, & quanto è la fama de’ nostri cittadini, &
contadini nel coltivar con buona intelligentia tutt’il paese. Il quale, non
stante che circondi poco meno di trecento miglia, & che i monti, i colli,
le valli, e le campagne siano assai più de’ campi fertili, tuttavia, per essere
habitato da piu che settecento milia creature humane, è talmente ben coltivato,
che di sterile, meritamente acquista il nome di fertilissimo.
E il brano prosegue elencando le produzioni caratteristiche dei distretti
diversi della provincia: legne, fieni e castagne dai monti, frumenti, olii
d’oliva e vini dai colli, biade d’ogni sorta, prodotti animali e vini dalle
pianure, soprattutto dalle aree irrigue attorno al Chiese, al Mella, al Garzia
e allo Strone. Ancora vini, aranci, limoni e cedri dalla riviera del Garda, poi
frutta, legumi, ortaggi, carni, lini e canape, piante tintorie e aromatiche.
Nell’opera fondamentale sulla storia della popolazione italiana Karl Julius
Beloch (Beloch 1994) ricorda, senza citare Gallo, fonti coeve che asseriscono
che le terre bresciane sarebbero state popolate da oltre settecentomila
abitanti, una valutazione smentita dai censimenti dei rettori veneziani, che dimostrano,
nella provincia, una popolazione equivalente a circa la metà: la relazione di
Contarini del 1557 riferisce la sussistenza di 359.205 abitanti, quella di
Francesco Duodo del 1579 ne dichiara 297.899. Lo stesso Beloch spiega,
peraltro, la leggenda della straordinaria densità della popolazione bresciana
riconoscendo che i 100 abitanti per chilometro quadrato che si debbono
attribuire, secondo i dati più sicuri, ai distretti di pianura, costituiscono
densità eccezionale, nel Cinquecento, in tutta la geografia d’Europa.
L’eccezionalità del popolamento della pianura bresciana offre l’avallo più
significativo all’argomentazione di Gallo, un’argomentazione agronomica,
economica e demografica che possiamo parafrasare rilevando che elevata densità
di popolamento è presupposto necessario di intensività di sfruttamento della
terra, mentre sfruttamento intensivo della terra è condizione di elevata
densità demografica: dall’esame dei caratteri dell’agricoltura bresciana il
gentiluomo di Poncarale ricava i due assiomi complementari che costituiranno le
fondamenta delle riflessioni di economia agraria dei filosofi del Settecento,
da Ludovico Antonio Muratori (nell’opera anticipatrice che abbiamo citato) fino
al trattato famoso, all’alba del nuovo secolo, di Thomas Robert Malthus (1798).
Un’agricoltura intensiva è la risultante della composizione di due processi
capitali e di tre subordinati, che ne costituiscono i corollari. Il primo
consiste nell’integrazione dell’allevamento e delle coltivazioni, con
l’instaurazione di un flusso continuo di foraggi dai campi alle stalle, di un
flusso contrario di letame dalle stalle ai campi. Il secondo è la
moltiplicazione degli investimenti realizzati per lo sfruttamento zootecnico
del territorio: investimenti collettivi, sbarramenti fluviali, derivazioni e
canali, e investimenti privati, opere irrigue aziendali e nuovi edifici,
stalle, fienili, cascine, per ricoverare bestiame e foraggi. Di entrambi i
fenomeni ha ricostruito il corso, nelle campagne lombarde, Emilio Sereni che
individua in Lombardia il primo comporsi di uno scenario agrario moderno
(Sereni 1961).
I tre processi subordinati consistono nell’intensificazione dei cicli di
sfruttamento del suolo, con la conseguente riduzione dei tempi di riposo, nello
sviluppo di colture specializzate, destinate a rispondere a particolari
esigenze di mercato, nello spostamento del fulcro delle produzioni dalle
derrate per il consumo diretto a quelle destinate alla trasformazione, che si
compirà in laboratori artigianali o nella stessa azienda agricola, fino alla
nascita dell’industria moderna laboratorio, essa stessa, a funzionalità
plurima.
Come quelli capitali, anche i processi subordinati appaiono operanti
nell’agricoltura lombarda descritta dalle Giornate, che palesano
nell’attività che si sviluppa nelle campagne bresciane un’autentica, moderna
agricoltura intensiva. Esaminando i temi affrontati nel dialogo dei
protagonisti il lettore rileva, quale autentica chiave dell’opera, il ruolo
capitale attribuito alle produzioni foraggere, alle modalità per il
modellamento dei campi, alle pratiche di rotazione e di concimazione,
condizioni del rinnovo della fertilità senza la quale sono impossibili tanto le
successioni più rapide quanto i rendimenti più elevati pretesi da un
agricoltore moderno. Si deve quindi sottolineare l’ampiezza dello spazio
dedicato alle colture specializzate: vite, frutta, ortaggi, agrumi, oltre alla
molteplicità delle produzioni che l’agricoltore bresciano realizza per la
trasformazione: uva per la vinificazione, lino, canapa, lana e bozzoli per la
filatura, robbia e guado per la tintoria, latte per le produzioni casearie,
fiori di cardo per le tessiture (che li impiegano, appunto, per la cardatura).
Il commento esaustivo del testo ha imposto a chi scrive, nel primo volume della
propria Storia delle scienze agrarie, 87 pagine di analisi testuale,
alla quale rimanda i lettori che volessero penetrare il significato agronomico
e mercantile delle produzioni agrarie lombarde alla metà del Cinquecento. Il
testo sarà disponibile, prossimamente, anche nella traduzione inglese.
Canali, “marcite”, grange Cistercensi
Una pagina essenziale, seppure di redazione problematica, delle vicende del
sistema irriguo lombardo, e del peculiare impiego delle acque nelle produzioni
zootecniche, riguarda il ruolo, nell’identificazione delle metodologie di
maggiore efficienza nella pratica irrigua, di due famiglie monastiche, quella
dei Cistercensi, espressione dell’ultima grande “riforma” tra le schiere di
Benedetto, e quella degli Umiliati, uno degli ordini mendicanti fioriti nel
clima nuovo del Duecento. Entrambi presenti in Lombardia con una pluralità di
conventi, i primi avrebbero avuto il proprio centro maggiore a Chiaravalle, i
secondi a Vicoboldone. Seppure riconosciuti, da fonti molteplici, artefici di
cospicue innovazioni nello sfruttamento dell’acqua e negli allevamenti
connessi, nessuno dei due ordini avrebbe mai incaricato qualcuno dei propri
dotti a scrivere il manuale che definisse la fisionomia delle pratiche diffuse
nelle proprie grange, un compito cui si sarebbero scrupolosamente sottratti
anche storici e agronomi dei secoli successivi, cosicché sulle matrici di
tecnologie capitali per l’evoluzione di una delle industrie zootecniche più
dinamiche d’Europa non si conosce, praticamente, nulla.
Si può notare, con motivata sorpresa, che la grande esperienza riformatrice
che porta il nome di San Bernardo è assurta, in anni recenti, ad oggetto di
intenso impegno di indagine, cui hanno partecipato studiosi francesi,
britannici, statunitensi: chi consulti, tuttavia, l’opera di prestigio maggiore
nata dalla nuova vague neobenedettina non reperisce che dotte analisi
sulla disposizione dei monaci in coro, sulle consuetudini del servizio in
refettorio, nulla sul lavoro dei campi (Kinder 2002). Chi chieda ragguagli
all’autorevole autrice non riceve, peraltro, neppure una riga di risposta.
Riconosciuta l’inutilità dell’intera pubblicistica moderna, solo chi possa
contare su una benedizione particolare di san Bernardo può reperire un
volumetto pubblicato, nel 1822, dall’avvocato Domenico Berra, collaboratore
degli Annali dell’agricoltura del Regno d’Italia, la prima rassegna
agronomica nazionale, creata, sotto il beneaugurale scettro napoleonico, per
assicurare uno strumento di comunicazione agli agronomi italici dal professor
Filippo Re, uno studioso cui dedicheremo qualche attenzione delle pagine
successivi di questo saggio.
Invitato da Re a redigere il panorama dell’attività orticola che si
sviluppa, fiorente, attorno a tutte le porte cittadine (Annali cit.,
fasc. 14), il legale milanese avrebbe assolto all’impegno con tale maestria da
indurre il direttore degli Annali a invitarlo a estendere le proprie
ricerche alla presenza e al ruolo degli ordini monastici nelle campagne
periurbane, dove entrambi gli ordini avrebbero disposto di superfici cospicue,
inducendo Berra ad affrontare, con la perizia del cultore di atti giuridici,
archivi imponenti. Seppure non avessero risolto tutti i quesiti su tema tanto
ampio, i risultati del suo impegno (Berra 1822) costituirebbero l’unico
contesto di informazioni attendibili sulla vicenda, un contesto che nessuno, in
seguito, dagli storici ottocenteschi ai nuovi cultori di studi sul monachesimo
lombardo, si sarebbe preoccupato di integrare.
Le indagini realizzate avrebbero condotto Berra a proporre una tesi che non
manca di coerenza: sconfitto, nel 1176, il Barbarossa e assicuratisi la potestà
di decidere come governare la vita della città e delle campagne circostanti, i
milanesi avrebbero impegnato facoltà politiche e disponibilità finanziarie in
grandi imprese idrauliche, prima tra tutte quella del Tisinello, varata nei tre
anni successivi alla vittoria. Alla prima altre sarebbero seguite fino a
scontrarsi col difficile problema dell’incanalamento verso mezzogiorno delle
acque dei torrenti che ricolmavano i fossati delle cinte murarie ma, che
attorno alle medesime cinte ristagnavano diffondendo intollerabili miasmi: il
Seveso, il Nirone, il Vepro e il Vedra. Divenuto l’inconveniente intollerabile,
il problema sarebbe stato discusso, dal 7 maggio 1269, da assemblee sempre più
accese, fino alla delibera dell’immissione delle acque stagnanti nel cavo
Vettabbia, che sarebbe stato ampliato per condurle al Lambro. Si sarebbe
creato, così, un canale dal flusso cospicuo che, attraversando la città, ne
avrebbe raccolto gli scarichi fognari, arricchendosi, così, di un ingente
carico fertilizzante. L’opportunità sarebbe stata colta, con assoluta
destrezza, da Cistercensi e Umiliati, che, in possesso delle più evolute
tecniche ingegneristiche, e delle migliori pratiche foraggere, si sarebbero
impegnati, in reciproca concorrenza, ad acquisire tutti i terreni sul percorso
del nuovo canale e a convertirli da sterili gerbidi, quali erano, in grandi
praterie in grado di ospitate “bergamine” le grandi stalle del tempo, più di
una capace di 100 lattifere, al tempo entità prodigiosa.
Leggendo, frutto delle accurate indagini d’archivio, le riflessioni di Berra
sulla rapidità della conquista, da parte di due ordini monastici, della parte
dal futuro più rigoglioso delle campagne a mezzogiorno di Milano, non si può
mancare di essere colpiti dalle due ragioni di maggiore rilievo cui l’avvocato
milanese attribuisce il successo dell’impresa: entrambi gli ordini avrebbero
trionfato, sottolinea lo storico lombardo, contando sulla più aggressiva
intraprendenza immobiliare: convertite rapidamente le prime aziende acquisite,
a prezzi insignificanti, le avrebbero rivendute a prezzi moltiplicati, che
avrebbero consentito l’acquisto di terreni immensamente più vasti, sui quali
entrambi avrebbero fondato la propria duratura opulenza agraria. La seconda
condizione del successo sarebbe stata, aggiunge Berra, il più rigido controllo
della manodopera, la folla dei conversi accettati, sottolinea, solo se in
possesso del maggiore vigore fisico, e trattati, precisa, quali autentici
“schiavi”, tanto che era loro severamente vietato apprendere a leggere, e per
le devozioni domenicali era loro consentito di conoscere non più di quattro
preci. Non paiono essere le condizioni dell’autentica fraternità monastica:
l’intero volumetto attesta, peraltro, lo scrupolo archivistico di Berra.
La maestria irrigua cistercense avrebbe svolto un ruolo capitale, rileva
l’avvocato milanese, anche nella creazione della “marcita” o “prato marcitoio”,
l’apprestamento più originale della foraggi-coltura lombarda, sulla cui
creazione confronta le ipotesi fino ad allora proposte, concludendo che, nella
contraddittorietà delle notizie può riferire, quale elemento certo, che la
prima menzione che glie ne hanno offerto gli archivi è costituita da un atto
del notaio De Tesseri datato 25 aprile 1566. Non costituisce dettagli privo di
rilievo che uno dei contraenti sia l’Abate commendatario del monastero di
Vicoboldone.
Il collasso del seicento, la rinascita del settecento
Ho annotato la causa essenziale del crollo dello splendore economico
dell’Italia dei canali e delle colture intensive: l’opulenza del paese più
ricco d’Europa, i cui governanti, duchi e marchesi di ineguagliata astuzia
nella conduzione delle rivalità con i propri vicini, mancano assolutamente,
fondando una tradizione che si perpetuerà, di ogni comprensione del quadro
internazionale: ottemperando, anzi, ai suggerimenti del Segretario fiorentino,
sono impegnati nella perpetua ricerca di un alleato invincibile per sopraffare
il vicino che invincibile non è, con l’encomiabile risultato di rimettere le
sorti d’Italia nelle mani delle due potenze altrettanto avide di impadronirsi
di tanta indifesa ricchezza, sfidandosi sul suolo italico fino a convertire
l’oggetto della proprie bramosie nell’ammasso di rovine e nei deserti di terre
abbandonate a macchie e paludi illustrati, nei secoli successivi, dagli
innumerevoli viaggiatori dotati di estro pittorico, di tela e pennello.
Sul piano letterario ai fasti dell’agricoltura lombarda celebrati da Gallo
succedono, nel Seicento, quelli dell’opera di un cortigiano felsineo, Vincenzo
Tanara, che nello spirito, radicalmente diverso, della “grassa” Bologna,
compone il capolavoro dell’agronomia barocca (Tanara 1644). Dopo lo scenario,
dispiegatoci da Gallo, della prima agricoltura moderna, quella che tratteggia
il possidente bolognese è un’agricoltura sostanzialmente medievale, capace,
tuttavia, per l’immensità delle proprietà patrizie, di ricolmare, dopo ogni
banchetto, le insaziabili dispense di marchesi e cardinali, dalle quali il
nostro cortigiano, insicuro commentatore di rotazioni e tecniche colturali,
ineguagliato “maestro di casa” delle famiglie che condividono, nel senato
cittadino, gli oneri (soprattutto digestivi) di governo del cardinale legato,
suggerisce, con inesausta fantasia, cosa estrarre per comporre, per il prelato
giunto repentinamente, un’accoglienza adeguata, che consisterà nel frettoloso
rinfresco di tre servizi di dodici portate ciascuno.
I canali che hanno consentito i prodigi dell’agricoltura lombarda del
Cinquecento non sono stati, felicemente, interrati, nonostante la catastrofe
politica ed economica nelle piane insubri si è immensamente dilatata, nel corso
del secolo infelice, la coltura del gelso, che, quando la Lombardia ritrova, sotto
lo scettro di Vienna, l’ordine civile ed economico, assicurano all’antica
ricchezza casearia il complemento della non inferiore ricchezza sericola.
Seppure dediti, non meno dei patrizi petroniani, ai più sontuosi ozi teatrali e
culinari, il quadro delineato da Giuseppe Parini è inequivocabile, gli
aristocratici lombardi non affidano le proprietà a fattori dediti unicamente ad
angariare mezzadri miserabili, ma ai più accorti “ingegneri agronomi” del tempo,
che valorizzano la risorsa antica dell’acqua ricostruendo un’economia i cui
fasti zootecnici eguagliano, forse superano, quelli delle Fiandre, del
Lincolnshire, dell’Herefordshire, i cui accorti allevatori non possono vantare,
complemento delle produzioni dei mammiferi maggiori e minori, quelle di un
insetto che si rivela fonte di ricchezza persino superiore: il baco da seta.
Dimostra, contro ogni possibile dubbio, la floridezza dell’allevamento
lombardo, una pagina emblematica del diario di viaggio del più geniale e
bizzarro agronomo britannico del Settecento, Arthur Young (1794). Conoscitore
impareggiabile dell’agricoltura del Regno Unito, che ha percorso ripetutamente
stilando ampie relazioni sulle contee in cui è più vivace il progresso
agricolo, Young professa l’incondizionato convincimento che l’agricoltura
britannica sia l’unica agricoltura evoluta del Continente. I suoi elogi più
appassionati sono rivolti, sistematicamente, alle aziende dei grandi
aristocratici, che corteggia durante l’intera esistenza per ottenere accesso e
incarichi nelle sfere più elevate della vita londinese, nelle quali riesce a
insediarsi per doverle, sistematicamente, abbandonare dopo l’impertinenza che
si permette, pubblicamente, nei confronti di un duca o di un visconte. Certo,
con straordinaria lucidità, che Inghilterra e Francia siano sulla soglia del
duello finale, realizza il più accurato viaggio nel paese rivale per valutarne
le risorse umane ed economiche, che, malgrado l’esplicita avversione, giudica
con un acume reputato prodigioso dal giudice più autorevole, Fernand Braudel.
Percorsa la Francia
intera annotando, in ogni pagina di diario, il raccapriccio per l’irrazionalità
delle rotazioni, la primordialità degli strumenti, l’assenza di qualunque
selezione del bestiame, sottolineando l’ignoranza dei proprietari e
l’incompetenza degli agronomi, sospinto, dalla curiosità di autentico
viaggiatore, a protrarre il viaggio in Italia, annota, dopo la visita di alcune
aziende allevatrici di Codogno:
Non lascerò questo interessantissimo distretto senza raccomandarlo con
ogni calore a coloro che desiderino acquisire una completa e perfetta
educazione nella conduzione di un’azienda agricola. A questo fine Codogno
costituirebbe la meta ideale, siccome è circondato da grandi allevamenti
lattieri, e annovera i maggiori magazzini di formaggio tra tutte le città della
Lombardia, con la conseguenza di scambi continui con gli arbitri dell’industria
casearia del Lodigiano. Vi si possono inoltre acquisire le migliori conoscenze
sull’irrigazione e sulla manifattura del formaggio (vol. II, pag. 191).
Dato il disprezzo profuso per l’agricoltura della Francia, quello che
profonderà, proseguendo il viaggio, per la mezzadria bolognese e quella
toscana, è impossibile immaginare che la dichiarazione non sia assolutamente
sincera. Per reperire, nell’immensa biblioteca di Young, un solo apprezzamento
simile si è costretti a sfogliare migliaia di pagine, e gli encomi saranno
sistematicamente rivolti alla perfezione delle rotazioni nelle proprietà di Sir
Joseph Banks nel Lincolnshire o per la superba forma del bestiame in quelle di
Woburn dei Duchi di Bedford. Agli allevatori di Codogno l’elogio del più
impietoso critico dell’agricoltura del Continente non sarà costato,
verosimilmente, che un paio di colazioni in qualche trattoria che al più
perfetto formaggio lodigiano potesse unire il più sapido prosciutto della
tradizione padana.
Riacquistato il primato produttivo, la Lombardia asburgica riconquista anche quello
agronomico. Il governo di Vienna provvede alla stampa, in latino, dell’opera
agronomica in due volumi del rettore dell’Università di Buda, il dotto gesuita
Lajos Mitterpacher von Mitternburg (1779-1794). I due tomi non propongono al
critico un’autentica opera agronomica, offrono, piuttosto, il frutto delle
letture di uno studioso che ha esaminato i testi più aggiornati delle grandi
scuole agronomiche fiorite, dal Seicento, in Inghilterra e in Francia, un testo
di modesta penetrazione agronomica, eppure opera preziosa per l’aggiornamento
di una cultura naturalistica che è rimasta estranea, nell’Impero, ad ogni
influsso della nuova agronomia sperimentale. Diffusa in latino perché sia
accessibile a tutti i parroci, delegati del radicamento dei primordi
dell’agricoltura razionale tra i contadini, la diffusione degli Elementa
rappresenta il primo cimento di divulgazione pubblica, un cimento cui il
governo lombardo-veneto non partecipa passivamente, cui contribuisce
accrescendone originalità ed efficacia. Stampata nel 1784, la versione milanese
non costituisce, infatti, mera rassegna di citazioni straniere, siccome la Società patriotica la
integra di un terzo volume al quale presta il proprio contributo il ceto di
ingegneri e amministratori rurali che rappresentano i veri artefici dei nuovi
fasti agricoli insubri. Quegli agronomi non sono, possiamo rilevare, innovatori
protesi a indirizzare, con l’esperimento, le pratiche agrarie verso frontiere
nuove, sono i conoscitori più accorti dei segreti delle grandi produzioni
lombarde: nello spirito genuino di Gallo, lo spirito empirico dell’agronomia
classica, descrivono magistralmente colture e allevamenti che hanno restituito
alle campagne bresciane, cremonesi e milanesi l’antica ricchezza.
La traduzione, tanto coerentemente integrata, del testo del dotto magiaro,
rappresenta l’unica opera di dignità internazionale dell’agronomia italiana
nell’intero Settecento. Se pure non eguagli la levatura della pubblicistica
agronomica britannica, francese e tedesca, la cultura agraria italiana vanta
traguardi ambiziosi in sfere contigue, i traguardi che prendono corpo nel
catasto composto sotto lo scettro di Maria Teresa, un’opera sorretta da
fondamenta teoriche originalissime, un titolo che deve essere attribuito,
ancora, alla cultura di ingegneri e amministratori rurali, enucleata, nei
principi essenziali, dalla lucidità teorica di autentici grandi economisti,
ricordiamo il milanese Pietro Verri e il toscano Pompeo Neri, in quanto
funzionario imperiale milanese di adozione. Ai loro nomi deve essere associato
quello di Cesare Beccaria, il cui manuale di economia politica (Beccaria 1804),
redatto per l’inaugurazione della milanese Scuola palatina, contiene la più
originale dottrina degli scambi cerealicoli costruita dopo il primo testo di
politica agraria scritto in Europa, i capitoli dedicati all’amministrazione
dell’agricoltura nel contesto della Pubblica Felicità oggetto de’ Buoni
Principi di Muratori (citata).
Nasce, dopo il lungo torpore, la prima scuola agronomica italiana
Dopo il secolo dei fasti gastronomici di Tanara la pubblicazione, nel corso
dell’intero Settecento, della traduzione della prestigiosa opera magiara non
può ricolmare l’immensa voragine che separa la cultura agronomica italiana da
quella europea. Non contraggono lo iato le sontuose enciclopedie di eclettici
tanto versatili quanto incapaci di penetrare l’essenza scientifica delle opere
francesi che Francesco Griselini e Francesco Gera ricopiano senza discernere la
troppa paglia dal poco grano, lo amplia ulteriormente, in età napoleonica, la
pubblicazione dell’imponente biblioteca agraria di Filippo Re, patrizio
reggiano e professore a Bologna, la cui confusa erudizione si impegna,
pateticamente, a stilare il compromesso del credo peripatetico cui l’autore è visceralmente
fedele con le rivoluzionarie scoperte chimiche di Antoine de Lavoisier (Traité
Élémentaire de Chimie, présenté dans un ordre nouveau et d’après les
découvertes modernes, Paris 1789), quelle fitopatologiche di Giovanni
Targioni Tozzetti (Alimurgia, o sia modo di render meno gravi le carestie,
Firenze, G. Bouchard, 1767), quelle fisiologiche di Théodore de Saussure (Recherches
chimiques sur la végétation, Paris, Nyon, 1804), che il professore
bolognese ha scrupolosamente letto nell’assoluta incapacità di comprendere che
le concezioni che propongono dissolvono radicalmente, non possono integrarsi,
quali appendici, alla teoria dei quattro elementi, terra, acqua, aria e fuoco,
della fisica dello Stagirita. Così come pare incapace di percepire che l’idea
della trasmissione della vita, e della sua continuità grazie alla “combustione”
di molecole composte da elementi singolarmente individuabili, non accetta alcun
compromesso con quella del maestro greco, che immaginava che piante e animali
avessero origine, casualmente, da primordi invisibili, di incerta natura fisica
o metafisica, e che, dopo la nascita, potessero essere convertiti in esseri del
tutto diversi (un’upupa, ad esempio, in falco) da misteriosi influssi astrali.
Il ritardo italiano sul terreno agronomico appare, a metà del secolo, dopo
cinquant’anni di diffusione delle elucubrazioni del conte reggiano, del tutto
incolmabile: lo affrontano, con la lucida consapevolezza della sua vastità, e
dell’immenso impegno necessario a ricolmarlo, due uomini, un patrizio toscano,
Cosimo Ridolfi, un medico lombardo, Gaetano Cantoni. Aristocratico viaggiatore,
proprietario di una grande fattoria in Val d’Elsa, verificato che qualunque
progetto di un organismo di sperimentazione e istruzione presentato all’Accademia
cittadina dei Georgofili accende grandi entusiasmi, non suscita alcun impegno
concreto, Ridolfi esperisce il generoso tentativo di affrontare l’ardua impresa
con le proprie forze di proprietario, introducendo nell’azienda avita varietà
vegetali, procedure e apparecchi di cui ha annotato modalità ed effetti di
impiego nei taccuini di viaggio. Realizzate colture e rotazioni sconosciute tra
i colli toscani, invita amici patrizi, piccoli possidenti e fattori a visitare
i suoi campi, animando accese discussioni sui relativi vantaggi. Verificata la
modestia degli esiti conseguiti, usando del credito di cui gode alla corte
granducale promuove la creazione, a Pisa, della cattedra di agronomia e
pastorizia, che sarà convertita, nel 1844, in Scuola superiore di grado
universitario: impartiti agli allievi i principi della nuova agronomia, saranno
quegli allievi, è convinto, a diffondere nella regione le procedure e le
rotazioni dell’agricoltura moderna. Nominato direttore, apre il primo anno
accademico, l’8 gennaio 1843, con una luminosa prolusione sulle conquiste
future dell’agricoltura “scientifica”.
Conseguita a Pavia la laurea in medicina, Gaetano Cantoni segue gli impulsi
patriottici operando, quale luogotenente di Cattaneo, durante le Cinque
giornate, studia, durante il successivo esilio in Svizzera, le esperienze dei
primi fondatori di aziende-scuola elvetici e germanici, von Fellemberg, von
Schwerz, Staudinger, Thaer. Convinto della necessità di introdurre in Italia la
nuova scienza e le procedure che ne derivano, si impegna, dopo la vittoria
nazionale del ‘59, a creare un’istituzione analoga, che apre, nelle campagne di
Lodi, a Corte Palasio. Costretto, dall’esiguità dei mezzi che ha raccolto, a
interrompere l’esperienza, accetta la cattedra che gli offre l’Università di
Torino, sulla quale siede durante quattro anni, per fare ritorno a Milano
quando le amministrazioni pubbliche gli assicurano i fondi per la creazione
della seconda Scuola superiore italiana, di cui inaugura nel 1870 il primo anno
accademico, della quale condurrà la gestione fino alla morte, che ne arresterà
l’irrefrenabile attività nel 1887.
Se, confrontando gli esiti delle due imprese, deve riconoscersi a Ridolfi
un’originalità di pensiero difficilmente superabile, è inequivocabile che la
vitalità della sua Scuola subisce i cento contraccolpi delle vicende che
conducono all’estinzione del Granducato, mentre l’accorto impiego, da parte del
direttore, dei mezzi a disposizione, farà della Scuola milanese l’autentico
ponte attraverso il quale l’agronomia italiana si congiungerà, superato il vallum
del secolare ritardo, alla scienza europea. Presteranno il contributo
determinante al grande risultato la tempra del maestro, che stabilirà con gli
allievi migliori i vincoli che uniscono un’autentica scuola scientifica
nazionale, e le amicizie stabilite a Torino, dove suggellerà con il più
dinamico editore nazionale, quei cugini Pomba che muteranno la ragione sociale
in quella di Unione tipografico editrice torinese, il progetto dell’Enciclopedia
agraria italiana, alla quale Cantoni inviterà a contribuire i migliori
specialisti italiani, in numero preminente allievi della Scuola, componendo non
più una miscellanea di pagine casualmente ricavate dalle opere francesi, ma una
raccolta di saggi monografici, sulle branche essenziali dell’agronomia, redatti
da studiosi che hanno analizzato, e compreso, i testi chiave dell’agronomia più
aggiornata, inglese, francese, tedesca (Enciclopedia agraria italiana,
redatta dagli agronomi delle diverse provincie e diretta dal commendatore
Gaetano Cantoni, Unione tipografico-editrice, Torino 1880). Le dispense che
comporranno i quattro volumi previsti vengono stampate, con più di
un’incongruenza rispetto al progetto originario, tra il 1871 e il 1880. Sarà il
successo dell’opera a indurre, alla fine del secolo, gli editori a rinnovare
l’esperienza con la pubblicazione della Nuova enciclopedia agraria italiana,
un’opera che un’ammirevole intuizione scientifica e pubblicistica condurrà a
progettare non più come insieme organico di saggi ma come autentica biblioteca
di manuali monografici. Affidata alla regia di Vittorio Alpe, docente della
Scuola superiore milanese, ciascun volume sarà affidato a uno specialista
finalmente in grado di confrontarsi, su un piano di parità, con gli studiosi
che affrontano imprese analoghe nei paesi che guidano il progresso scientifico
internazionale (Alpe, Zecchini, Soave, Voglino 1898-1932). Dimostra la vitalità
dell’impresa la sostituzione, nell’ampio arco temporale, quindi al progredire
delle conoscenze, di più di un volume con quello, radicalmente nuovo, di un
nuovo autore.
La fondazione della Scuola superiore milanese corrisponde all’alba della
stagione della creazione del tessuto degli organismi di sperimentazione,
divulgazione, istruzione e cooperazione che muteranno, progressivamente, il
quadro agrario nazionale. Seppure gli intenti siano lodevoli le realizzazioni
risentiranno, sistematicamente, delle incongruenze dei progetti, dell’esiguità
dei mezzi loro assicurati, della difficoltà, data l’esistenza di due sole
scuole universitarie, del reperimento degli specialisti con i quali guarnire
gli organici, un obiettivo tanto più arduo siccome i fondi disponibili non
assicurano, generalmente, l’erogazione degli stipendi previsti.
Il 23 dicembre 1866 un decreto reale ha istituito i Comizi agrari, entità di
natura ambivalente, metà pubblica metà privata, che vivranno vita ondivaga e
sostanzialmente breve. Nel 1870 il ministro Castagnola attua un progetto
stilato dal predecessore, Marco Minghetti, istituendo, a Udine, la prima Regia
stazione sperimentale, che l’anno successivo sarà seguita da quelle di Modena,
Torino, Roma e Lodi. Nel 1905 avranno raggiunto il numero di 15, metà a
competenza genericamente agronomica, metà a competenza specifica (viticoltura,
fitopatologia, selezione di nuove cultivar di cereali). I mezzi per finanziare
la ricerca saranno, per tutte, inadeguati: potranno realizzare progetti
sperimentali originali solo quelle in cui un direttore dalle autentiche
capacità manageriali saprà offrire agli agricoltori l’attività di un
laboratorio di analisi (per le sementi, i fertilizzanti, gli anticrittogamici)
tanto efficiente da produrre utili significativi, che potrà devolvere alla
sperimentazione.
Risplenderanno, nell’opacità del contesto, le “cattedre ambulanti”, creature
originalissime dell’estro italico consistenti, essenzialmente, nell’assunzione,
da parte di un’amministrazione provinciale, di un comizio agrario, di un
consorzio di comuni, di un laureato cui vengono affidati compiti di
conferenziere nei borghi rurali, dove l’oratore dovrà convincere possidenti e
contadini all’adozione delle metodologie dell’agricoltura moderna. Più di un
cronista ne ha esaltato l’attività come lo strumento dell’autentico decollo
della nuova agricoltura italiana. Nella realtà, le decine di cattedre affidate
ad un agronomo competente, volonteroso e diligente hanno prodotto progressi
significativi, ma, inevitabilmente lenti e parziali. In assenza di rigide norme
statutarie, fasti autentici hanno coronato l’opera di direttori dalla
personalità prorompente, autentici demiurgi della divulgazione agraria che
hanno espresso la propria creatività nella pluralità delle sfere che nelle
province loro affidate fossero pronte al balzo del progresso. Quei demiurgi,
che non in un caso solo hanno radicalmente mutato il volto agrario di interi
comprensori, sono stati manipolo glorioso, non schiera trionfante. Nell’albo
d’oro si possono iscrivere Antonio Bizzozero, cattedratico a Parma, Ferruccio
Zago, cattedratico a Piacenza, Vittorio Peglion, cattedratico a Ferrara, Luigi
Savastano, cattedratico a Sorrento, Domizio Cavazza, cattedratico a Novara.
Quell’albo include, ancora, Tito Poggi, cattedratico a Milano, e Antonio
Sansone, cattedratico a Cremona, protagonisti dei progressi ulteriori
dell’agricoltura lombarda.
Se il numero preminente degli organismi di sperimentazione e divulgazione
nasce e protrae la propria esistenza tra difficoltà organizzative e finanziarie,
un capitolo radicalmente nuovo della diffusione, nel paese, delle metodologie
dell’agricoltura moderna si apre il 10 aprile 1892, quando si riuniscono a
Piacenza, nei locali della Banca popolare, cinquanta compunti gentiluomini,
diciotto in rappresentanza di altrettanti sodalizi, trentadue in veste di
semplici, seppure cospicui, imprenditori agrari, che dichiarano al notaio
Vittorio Porta la volontà di costituire la Federazione italiana
dei consorzi agrari. La formale assemblea conclude un lungo, in parte confuso,
confronto sulla formula più congrua per riunire, economicamente, gli
agricoltori italiani assicurando loro una controparte sicura per l’acquisto dei
nuovi mezzi tecnici, fertilizzanti, sementi, apparecchiature, con la certezza
della qualità, le più convenienti agevolazioni finanziarie, la sicurezza
dell’assistenza tecnica più aggiornata sul loro impiego. Non si può non
riconoscere una singolarità sorprendente, nell’incontro, nel numero dei
consorzi riuniti per creare la propria federazione, una diecina tra gli
organismi rappresentati, un numero tanto esiguo da obbligare ad attribuire ai
fondatori il lungimirante, quanto ardimentoso, proposito che debba essere la Federazione a
promuovere, a tutte le latitudini della penisola e delle isole, la costituzione
dei consorzi che non può associare, siccome ancora inesistenti, un proposito
che sarà rapidamente, quasi prodigiosamente, concretizzato (Saltini 1993;
Saltini 2006).
Si può menzionare, come indizio attendibile della supposizione, il numero,
tra i partecipanti, e tra i fondatori dei consorzi che nasceranno dopo
l’assemblea, dei discepoli di Gaetano Cantoni. Se i titoli, che ho attribuito
al professore milanese, di fondatore di un’autentica scuola economica e
scientifica, della consistenza di quella scuola l’assemblea piacentina
costituirebbe la prova e, insieme, il frutto maturo. In uno dei lavori in cui
chi scrive ha proposto gli argomenti che sosterrebbero l’ipotesi la
supposizione è stata integrata con quella della militanza massonica dei gentiluomini
riuniti alla Banca popolare di Piacenza. Argomento capitale a suffragare
entrambe le supposizioni è la fisionomia dell’autentico protagonista
dell’impresa, Giovanni Raineri, il giovanissimo agronomo chiamato da Milano
all’insegnamento in un istituto tecnico piacentino, il quale, grazie ai legami
stabiliti dal maestro, associa al progetto i migliori dei condiscepoli,
assicurando altresì la presenza di due personalità di preminente rilievo
nazionale, Luigi Luzzati, finanziere, fondatore del contesto delle Banche
popolari, ripetutamente ministro, e il suo primo coadiutore, Enea Cavalieri,
due dioscuri che non avrebbero lasciato, palesemente, Roma per la fondazione di
una federazione ancora priva, paradossalmente, degli organi federati, la cui
partecipazione può spiegarsi solo quale contributo alla realizzazione di un
progetto di cui fossero entrambi coautori, affidato a esecutori ai quali
fossero organicamente legati e nei quali riponessero la propria assoluta
fiducia. In un arco brevissimo di anni la federazione creerà decine di
consorzi, aprirà stabilimenti chimici e sementieri, stamperà periodici,
convocherà convegni: i segni eloquenti del successo del progetto.
È, quella che ripropongo, ipotesi che potrebbe essere convertita in certezza
storica solo da laboriose indagini sui legami, personali e associativi, che
uniscono gli uomini della classe politica che governa il paese tra il
crepuscolo del Risorgimento e l’alba del fascismo, il quale convertirà, dopo
averla sottratta ai fondatori, la federazione piacentina in apparato annonario
gestito a fini di illusoria potenza militare, alla quale avrà sacrificato
l’unica organizzazione agraria di dimensioni nazionali, di indiscussa
funzionalità e di ispirazione liberale, nata fortunosamente tra le cento contraddizioni
tra le quali si è sviluppato, nelle campagne italiane, l’embrione
dell’agricoltura moderna. Un’ipotesi che, fosse riconosciuta corrispondente
all’obiettività storica, confermerebbe il ruolo capitale di Gaetano Cantoni e
della sua Scuola superiore nella “conversione” moderna dell’agricoltura
italiana e nella sua omologazione a quelle dei paesi che sono stati teatro
della Rivoluzione agraria. Senza il contributo, lungimirante e coeso, degli
allievi del professore di Milano l’evento piacentino, capitale per il progresso
agrario nazionale, sarebbe evento del tutto incomprensibile.
Docente
di Storia dell'agricoltura all'Università di Milano, giornalista,
storico delle scienze agrarie. Ha diretto la rivista mensile di
agricoltura Genio Rurale ed è stato vicedirettore del settimanale,
sempre di argomento agricolo, Terra e vita. E' autore della Storia delle
Scienze Agrarie opera in 7 volumi. www.itempidellaterra.com
Aòfonso, non si tratta di alcune note, ma di una sintesi che confronterò nel mio umile archivio di merito, insieme ai volume di memorie del periodo ritrovabili negli atti dei convegni della Fondazione Datini.
RispondiEliminaSì, Enzo. E' un testo davvero straordinario che merita di essere diffuso.
RispondiEliminaGentili Vincenzo e Alfonso, Agrarian Sciences è disponibile alla diffusione dello scritto del prof. Antonio Saltini.
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