di Alfonso Pascale
Expo 2015 è in pieno svolgimento a Milano all’insegna della parola d’ordine Nutrire il Pianeta. Energia per la Vita. Come le edizioni che l’hanno preceduta, anche questa Esposizione Universale intende favorire il dialogo e la cooperazione tra i popoli e permettere ai partecipanti e ai visitatori un’esperienza culturale, educativa e commerciale di rilievo internazionale. Il tema Nutrire il Pianeta richiama innanzitutto il principale problema che l’umanità ha dinanzi a sé: il persistere della fame nel mondo – un mondo molto più ricco di un tempo - e l’urgenza di sconfiggerla. Guai a considerare la fame una tragedia sostanzialmente inevitabile con cui convivere! Non dobbiamo accettarla e tollerarla quasi fosse elemento integrante del mondo moderno. Il numero di coloro che soffrono la fame si è ridotto negli ultimi decenni ma il fenomeno è ancora presente in tutta la sua incredibile durezza. Debellare la fame è una sfida che richiede l’impegno dei governi, della società civile e dei cittadini partendo da una riflessione comune sulle cause del problema.
Se ancora oggi ci sono 870 milioni di persone denutrite o affamate – ben più di una su dieci sulla terra – non dipende da una penuria alimentare, ma dal fatto che questi individui non sono in condizione di procurarsi il cibo di cui hanno bisogno, acquistandolo o producendolo nel proprio appezzamento di terra. Non basta avere più cibo nel mondo o in un paese, e nemmeno a livello locale, per rendere, di per sé, più semplice il reperimento di cibo da parte di chi soffre la denutrizione. La quantità di cibo che siamo in grado di acquistare dipende dal reddito che abbiamo, dalle attività che svolgiamo, dai servizi che siamo in grado di offrire e dai beni che riusciamo a produrre. In altre parole, dipende dai nostri introiti e questi, a loro volta, dipendono da quello che riusciamo a vendere.
Solo la crescita economica può debellare la fame Parlare della fame senza averne fatto esperienza diretta è molto difficile. Solo scrittori davvero grandi riescono a raccontare le storie drammatiche di chi ha sperimentato la condizione d’inedia. Herta Müller, premio Nobel per la letteratura nel 2009, nel romanzo L’altalena del respiro scrive: “Che cosa si può dire della fame cronica. Si può dire che esiste una fame che fa ammalare di fame. Una fame sempre più affamata che si aggiunge a quella che c’è già. Una fame sempre nuova che cresce insaziabile e si aggiunge alla vecchia domata a fatica. Come si gira per il mondo quando non si sa dire più nulla di se stessi se non che si ha fame. Quando non si riesce a pensare ad altro. Il palato è più grande della testa, una cupola, alto e penetrante fino nel cranio. Quando la fame diventa insopportabile, il palato tira, come se una pelle fresca di lepre ti venisse tesa dietro la faccia ad asciugare. Le guance si seccano e si ricoprono di una peluria pallida”. E ancora in un’altra pagina del romanzo si trova questo brano: “Anche sessant’anni dopo il Lager mangiare per me significa una grande eccitazione. Mangio con tutti i pori. Quando mangio insieme ad altri divento sgradevole. Mangio con prepotenza. Gli altri non conoscono la felicità della bocca, sono socievoli e cortesi nel mangiare. Proprio mentre mangio mi attraversa la mente un goccio di felicità di troppo… Mangio con tanto gusto così che non mi venga voglia di morire, perché allora non potrò più mangiare. Da sessant’anni so che il mio ritorno a casa non ha potuto ammansire la felicità del Lager. Ancora oggi, con la sua fame, stacca a morsi il centro di ogni altro sentimento. In centro a me c’è il vuoto”.
Il premio Nobel per l’economia, Amartya Sen, ha ricordato, ancora una volta, una verità spesso rimossa: la fame endemica, quella che magari non uccide ma debilita i bambini e i giovani e deprime la produttività economica delle persone, non ha a che vedere con la mancanza di cibo in quantità sufficiente a sfamare l’intera popolazione di un determinato paese, bensì con il fatto che le singole persone non hanno la capacità di procurarsi il cibo a sufficienza. L’economista e filosofo bengalese arrivò a questa conclusione già alcuni decenni fa, analizzando le carestie che si erano verificate in India e in Cina. E mise in guardia i governi dal non lasciarsi ingannare dagli andamenti favorevoli dei raccolti. Thomas Malthus si era sbagliato quando – a fine Settecento – aveva previsto terribili disastri qualora la popolazione mondiale fosse cresciuta più velocemente dell’aumento della produzione agricola. La sciagurata profezia fortunatamente non si è mai avverata. Ma anche le autorità che dovevano intervenire in occasione della carestia bengalese del 1943 si erano sbagliate nel tenere sott’occhio esclusivamente l’andamento delle quantità di produzione agricola e nel rifiutarsi di vedere la situazione di fame che stava devastando il paese. Questo non significa – avverte ovviamente Sen – che i livelli di produzione delle derrate non debbano essere tenuti sotto controllo, favorendo la ricerca e l’innovazione per tenere alta la produttività delle colture. A Milano l’economista ha richiamato la Rivoluzione Verde indiana degli anni Sessanta che contribuì in modo decisivo ad eliminare le morti per fame mediante l’applicazione delle biotecnologie alla produzione agricola. E negare questo dato significa esporre a rischi tremendi le popolazioni dei paesi poveri. La privazione alimentare non è, dunque, un problema di cibo, in senso stretto, ma un problema economico generale che attiene a una molteplicità di fattori. Ad esempio, le convenzioni sociali influenzano la condivisione del cibo all’interno dei contesti familiari. Per via di tali convenzioni, spesso discriminatorie verso i soggetti più deboli, la sottoalimentazione è più diffusa tra le giovani donne. Inoltre, per prevenire la denutrizione occorre evitare le malattie endemiche che riducono l’assorbimento delle sostanze nutritive. Investire nell’assistenza sanitaria diventa così un elemento decisivo nella lotta alla fame. Un altro elemento di cui tener conto è il nesso tra sottoalimentazione e livelli d’istruzione. La conoscenza e la capacità di comunicare sono essenziali nell’ottenere lavoro e reddito. La fame e le carestie, infine, non sono influenzate soltanto da fattori culturali, sociali, economici e sanitari, ma anche dal sistema politico. Questo vale soprattutto per le carestie che si verificano nelle società autoritarie, dove non c’è alcuna partecipazione al processo decisionale della politica come avviene, invece, nelle democrazie.
Bisogna capire in profondità molti rapporti di causa ed effetto per debellare e, infine, cancellare lo spettro della fame nel mondo. I problemi da affrontare riguardano le condizioni di povertà e di miseria che si possono eliminare mediante la crescita economica. E questo vale non solo per i paesi poveri ma anche per le nuove povertà nelle metropoli dei paesi ricchi. A Roma, ad esempio, aumenta il numero degli individui alla deriva, senza fissa dimora e che hanno perso il passo.
La loro condizione non è il risultato di una scelta: piuttosto, il persistere di una serie di circostanze sfortunate. Privati della possibilità di un vero riposo, vivono sempre coi nervi a pezzi e in preda all’angoscia. Mangiano nelle mense pubbliche e, quando non le trovano, frugano nei cassonetti alla ricerca di un pezzo di pane. Non si tratta di problemi di penuria alimentare, come appare evidente, ma di sviluppo economico e di politiche di welfare capaci di affrontare le antiche e nuove povertà.
Fallito il disegno di Petrini e Farinetti
Expo 2015 è, dunque, un’occasione formidabile per parlare di lotta alla povertà, di crescita economica, di nuovi obiettivi dello sviluppo umano, di democrazia, di diritti umani, insomma di politica e di economia. I rappresentanti delle istituzioni, le forze economiche e i soggetti della società civile dovrebbero saper cogliere le forti interazioni tra i problemi della fame e quelli della sazietà, tra i temi dello sviluppo e quelli della lotta all’insicurezza alimentare. Un’accorta e lodevole regia dell’evento ha impedito che visioni manichee e pregiudizi occultassero la varietà delle agricolture, la pluralità dei modelli di produzione e di consumo e degli ethos del mercato. Carlo Petrini e Oscar Farinetti hanno tentato di piegare Expo all’immagine bucolica di un’agricoltura fatta esclusivamente di piccole e piccolissime aziende da tenere separate dal resto dell’economia e della società, “salvaguardarle” dalle contaminazioni culturali di altri soggetti e di altri settori, contrapporle alla scienza e alla ricerca scientifica, eventualmente proteggerle con politiche ad hoc. Un’area dorata a cui aggrapparsi con l’illusione di affrontare meglio i rischi della contemporaneità. È evidente che questa idea sottenda un nuovo e più subdolo tentativo di dominazione culturale delle campagne da parte di gruppi che, a discapito dell’interesse generale, fanno prevalere poderosi interessi particolaristici. I contadini e le campagne non sono mai stati un mondo a parte bisognoso di protezione. Solo chi li vorrebbe intruppare nei propri ranghi può coltivare tale visione. Chi intende dare un contributo di idee lo faccia senza strumentalizzare i contadini. Fare cultura non significa fare la guerra a qualcuno ma saper interagire con tutti in modo laico, cioè nel rispetto delle diverse visioni culturali. Se proprio si vuole trarre una lezione dalla millenaria civiltà contadina, è che questa, coi propri valori e la propria cultura, si è sempre mostrata aperta al dialogo e all'interazione con quelle degli altri.
Costruire una rete globale di accordi tra Stati
La “Carta di Milano” si apre con una citazione emblematica dello Human Development Report 2011, pubblicazione annuale dell’Ufficio delle Nazioni Unite che si occupa dei programmi di sviluppo in atto o da promuovere nei diversi paesi: “Salvaguardare il futuro del pianeta e il diritto delle generazioni future del mondo intero a vivere esistenze prospere e appaganti è la più grande sfida per lo sviluppo del XXI secolo. Comprendere i legami fra sostenibilità ambientale ed equità è essenziale se vogliamo espandere le libertà umane per le generazioni attuali e future”. Ci vorrebbe, innanzitutto, una consapevolezza diffusa della gravità di questi problemi. E poi occorrerebbe avviare un cambiamento nelle coscienze individuali, nella società civile organizzata, nella politica, nel sistema della conoscenza e nella responsabilità degli Stati che dovrebbero coordinare politiche sempre più complesse a livello globale. La complicazione sta nel fatto che la democrazia è rimasta un fenomeno nazionale e una rete istituzionale per affrontare questi problemi non può essere disegnata mediante deliberazione democratica al livello di un singolo paese, anche il più potente. La rete andrebbe, pertanto, disegnata e costruita attraverso accordi tra Stati sulla base di proposte che la società civile e la politica dovrebbero saper elaborare in una dimensione globale. Expo 2015 potrebbe stimolare la costruzione di una tale rete.
Se ancora oggi ci sono 870 milioni di persone denutrite o affamate – ben più di una su dieci sulla terra – non dipende da una penuria alimentare, ma dal fatto che questi individui non sono in condizione di procurarsi il cibo di cui hanno bisogno, acquistandolo o producendolo nel proprio appezzamento di terra. Non basta avere più cibo nel mondo o in un paese, e nemmeno a livello locale, per rendere, di per sé, più semplice il reperimento di cibo da parte di chi soffre la denutrizione. La quantità di cibo che siamo in grado di acquistare dipende dal reddito che abbiamo, dalle attività che svolgiamo, dai servizi che siamo in grado di offrire e dai beni che riusciamo a produrre. In altre parole, dipende dai nostri introiti e questi, a loro volta, dipendono da quello che riusciamo a vendere.
Solo la crescita economica può debellare la fame Parlare della fame senza averne fatto esperienza diretta è molto difficile. Solo scrittori davvero grandi riescono a raccontare le storie drammatiche di chi ha sperimentato la condizione d’inedia. Herta Müller, premio Nobel per la letteratura nel 2009, nel romanzo L’altalena del respiro scrive: “Che cosa si può dire della fame cronica. Si può dire che esiste una fame che fa ammalare di fame. Una fame sempre più affamata che si aggiunge a quella che c’è già. Una fame sempre nuova che cresce insaziabile e si aggiunge alla vecchia domata a fatica. Come si gira per il mondo quando non si sa dire più nulla di se stessi se non che si ha fame. Quando non si riesce a pensare ad altro. Il palato è più grande della testa, una cupola, alto e penetrante fino nel cranio. Quando la fame diventa insopportabile, il palato tira, come se una pelle fresca di lepre ti venisse tesa dietro la faccia ad asciugare. Le guance si seccano e si ricoprono di una peluria pallida”. E ancora in un’altra pagina del romanzo si trova questo brano: “Anche sessant’anni dopo il Lager mangiare per me significa una grande eccitazione. Mangio con tutti i pori. Quando mangio insieme ad altri divento sgradevole. Mangio con prepotenza. Gli altri non conoscono la felicità della bocca, sono socievoli e cortesi nel mangiare. Proprio mentre mangio mi attraversa la mente un goccio di felicità di troppo… Mangio con tanto gusto così che non mi venga voglia di morire, perché allora non potrò più mangiare. Da sessant’anni so che il mio ritorno a casa non ha potuto ammansire la felicità del Lager. Ancora oggi, con la sua fame, stacca a morsi il centro di ogni altro sentimento. In centro a me c’è il vuoto”.
Il premio Nobel per l’economia, Amartya Sen, ha ricordato, ancora una volta, una verità spesso rimossa: la fame endemica, quella che magari non uccide ma debilita i bambini e i giovani e deprime la produttività economica delle persone, non ha a che vedere con la mancanza di cibo in quantità sufficiente a sfamare l’intera popolazione di un determinato paese, bensì con il fatto che le singole persone non hanno la capacità di procurarsi il cibo a sufficienza. L’economista e filosofo bengalese arrivò a questa conclusione già alcuni decenni fa, analizzando le carestie che si erano verificate in India e in Cina. E mise in guardia i governi dal non lasciarsi ingannare dagli andamenti favorevoli dei raccolti. Thomas Malthus si era sbagliato quando – a fine Settecento – aveva previsto terribili disastri qualora la popolazione mondiale fosse cresciuta più velocemente dell’aumento della produzione agricola. La sciagurata profezia fortunatamente non si è mai avverata. Ma anche le autorità che dovevano intervenire in occasione della carestia bengalese del 1943 si erano sbagliate nel tenere sott’occhio esclusivamente l’andamento delle quantità di produzione agricola e nel rifiutarsi di vedere la situazione di fame che stava devastando il paese. Questo non significa – avverte ovviamente Sen – che i livelli di produzione delle derrate non debbano essere tenuti sotto controllo, favorendo la ricerca e l’innovazione per tenere alta la produttività delle colture. A Milano l’economista ha richiamato la Rivoluzione Verde indiana degli anni Sessanta che contribuì in modo decisivo ad eliminare le morti per fame mediante l’applicazione delle biotecnologie alla produzione agricola. E negare questo dato significa esporre a rischi tremendi le popolazioni dei paesi poveri. La privazione alimentare non è, dunque, un problema di cibo, in senso stretto, ma un problema economico generale che attiene a una molteplicità di fattori. Ad esempio, le convenzioni sociali influenzano la condivisione del cibo all’interno dei contesti familiari. Per via di tali convenzioni, spesso discriminatorie verso i soggetti più deboli, la sottoalimentazione è più diffusa tra le giovani donne. Inoltre, per prevenire la denutrizione occorre evitare le malattie endemiche che riducono l’assorbimento delle sostanze nutritive. Investire nell’assistenza sanitaria diventa così un elemento decisivo nella lotta alla fame. Un altro elemento di cui tener conto è il nesso tra sottoalimentazione e livelli d’istruzione. La conoscenza e la capacità di comunicare sono essenziali nell’ottenere lavoro e reddito. La fame e le carestie, infine, non sono influenzate soltanto da fattori culturali, sociali, economici e sanitari, ma anche dal sistema politico. Questo vale soprattutto per le carestie che si verificano nelle società autoritarie, dove non c’è alcuna partecipazione al processo decisionale della politica come avviene, invece, nelle democrazie.
Bisogna capire in profondità molti rapporti di causa ed effetto per debellare e, infine, cancellare lo spettro della fame nel mondo. I problemi da affrontare riguardano le condizioni di povertà e di miseria che si possono eliminare mediante la crescita economica. E questo vale non solo per i paesi poveri ma anche per le nuove povertà nelle metropoli dei paesi ricchi. A Roma, ad esempio, aumenta il numero degli individui alla deriva, senza fissa dimora e che hanno perso il passo.
La loro condizione non è il risultato di una scelta: piuttosto, il persistere di una serie di circostanze sfortunate. Privati della possibilità di un vero riposo, vivono sempre coi nervi a pezzi e in preda all’angoscia. Mangiano nelle mense pubbliche e, quando non le trovano, frugano nei cassonetti alla ricerca di un pezzo di pane. Non si tratta di problemi di penuria alimentare, come appare evidente, ma di sviluppo economico e di politiche di welfare capaci di affrontare le antiche e nuove povertà.
Fallito il disegno di Petrini e Farinetti
Expo 2015 è, dunque, un’occasione formidabile per parlare di lotta alla povertà, di crescita economica, di nuovi obiettivi dello sviluppo umano, di democrazia, di diritti umani, insomma di politica e di economia. I rappresentanti delle istituzioni, le forze economiche e i soggetti della società civile dovrebbero saper cogliere le forti interazioni tra i problemi della fame e quelli della sazietà, tra i temi dello sviluppo e quelli della lotta all’insicurezza alimentare. Un’accorta e lodevole regia dell’evento ha impedito che visioni manichee e pregiudizi occultassero la varietà delle agricolture, la pluralità dei modelli di produzione e di consumo e degli ethos del mercato. Carlo Petrini e Oscar Farinetti hanno tentato di piegare Expo all’immagine bucolica di un’agricoltura fatta esclusivamente di piccole e piccolissime aziende da tenere separate dal resto dell’economia e della società, “salvaguardarle” dalle contaminazioni culturali di altri soggetti e di altri settori, contrapporle alla scienza e alla ricerca scientifica, eventualmente proteggerle con politiche ad hoc. Un’area dorata a cui aggrapparsi con l’illusione di affrontare meglio i rischi della contemporaneità. È evidente che questa idea sottenda un nuovo e più subdolo tentativo di dominazione culturale delle campagne da parte di gruppi che, a discapito dell’interesse generale, fanno prevalere poderosi interessi particolaristici. I contadini e le campagne non sono mai stati un mondo a parte bisognoso di protezione. Solo chi li vorrebbe intruppare nei propri ranghi può coltivare tale visione. Chi intende dare un contributo di idee lo faccia senza strumentalizzare i contadini. Fare cultura non significa fare la guerra a qualcuno ma saper interagire con tutti in modo laico, cioè nel rispetto delle diverse visioni culturali. Se proprio si vuole trarre una lezione dalla millenaria civiltà contadina, è che questa, coi propri valori e la propria cultura, si è sempre mostrata aperta al dialogo e all'interazione con quelle degli altri.
Costruire una rete globale di accordi tra Stati
La “Carta di Milano” si apre con una citazione emblematica dello Human Development Report 2011, pubblicazione annuale dell’Ufficio delle Nazioni Unite che si occupa dei programmi di sviluppo in atto o da promuovere nei diversi paesi: “Salvaguardare il futuro del pianeta e il diritto delle generazioni future del mondo intero a vivere esistenze prospere e appaganti è la più grande sfida per lo sviluppo del XXI secolo. Comprendere i legami fra sostenibilità ambientale ed equità è essenziale se vogliamo espandere le libertà umane per le generazioni attuali e future”. Ci vorrebbe, innanzitutto, una consapevolezza diffusa della gravità di questi problemi. E poi occorrerebbe avviare un cambiamento nelle coscienze individuali, nella società civile organizzata, nella politica, nel sistema della conoscenza e nella responsabilità degli Stati che dovrebbero coordinare politiche sempre più complesse a livello globale. La complicazione sta nel fatto che la democrazia è rimasta un fenomeno nazionale e una rete istituzionale per affrontare questi problemi non può essere disegnata mediante deliberazione democratica al livello di un singolo paese, anche il più potente. La rete andrebbe, pertanto, disegnata e costruita attraverso accordi tra Stati sulla base di proposte che la società civile e la politica dovrebbero saper elaborare in una dimensione globale. Expo 2015 potrebbe stimolare la costruzione di una tale rete.
Alfonso Pascale
Sindacalista e scrittore , già vicepresidente nazionale della Cia (Confederazione Italiana Agricoltori) e fino al 2011 vicepresidente dell’ istituto Zooprofilatico Sperimentale delle regioni Lazio e Toscana. Ultima sua fatica letteraria: Radici & Gemme - La società civile delle campagne dall'Unità ad oggi ( 2013). www.alfonsopascale.it
Sindacalista e scrittore , già vicepresidente nazionale della Cia (Confederazione Italiana Agricoltori) e fino al 2011 vicepresidente dell’ istituto Zooprofilatico Sperimentale delle regioni Lazio e Toscana. Ultima sua fatica letteraria: Radici & Gemme - La società civile delle campagne dall'Unità ad oggi ( 2013). www.alfonsopascale.it
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