di Antonio Saltini
Pubblichiamo un articolo scritto quasi 10 anni fa, che per la "narrazione" ci sembra di estrema attualità (qui).
Storia di un
burattino che incontrò due animali gentili, rimase incantato dai bei modi, ne
seguì gli accorti consigli e si trovò a cadere dalla finestra del palazzo
fatato in cui i premurosi compagni lo avevano condotto promettendogli che sarebbe
stato suo per sempre.
Due interlocutori si confrontano, nell’ufficio di presidenza
di un organismo agricolo bolognese. Alcuni amici seguono con passione il duello
verbale. Sono trascorsi quasi dieci anni. Tema del confronto, Pinocchio il Gatto
e la Volpe. Uno dei duellanti sostiene che il Gatto e la Volpe hanno chiuso il
burattino in un sacco, e ne faranno quello che vorranno, l’avversario proclama
che prendere Pinocchio per il naso non è così facile: nonostante il nasetto sia
lungo i due compari non lo raggiungeranno mai, e sarà Pinocchio a servirsi dei
due, lacché diligenti, per soddisfare i propri capricci.
Il confronto
sull’apologo rivestiva di sembianze fiabesche il dissenso su un tema capitale
dell’agricoltura nazionale, il quesito su chi fosse il vero signore della
Confederazione nazionale dei coltivatori diretti. Pinoccio era, traducendo la
metafora, Paolo Bedoni, presidente della medesima, il Gatto e la Volpe,
Vincenzo Gesmundo e Franco Pasquali, i dioscuri dell’apparato burocratico che
organizza, dal “pantano” di Ispica ai noceti della Carnia, il consenso dei
piccoli proprietari italici.
Secondo il
primo dei duellanti Bedoni, convertita la favola, non costituiva che un
burattino nelle mani di chi, governando l’apparato, era in grado di
sostituirlo, avesse contravvenuto alle disposizioni, in giornata. Secondo
l’avversario il presidente della Coldiretti era il contadino furbo che,
arrivato con le scarpe imbrattate di letame nel palazzo dei principi
Rospigliosi, si era seduto in trono manifestando con tanta chiarezza le
prerogative regali che la coppia più scaltra di un organismo che non ha mai
consentito l’accesso, ai vertici, agli sciocchi, avrebbe dovuto piegare la
testa e accettarne la preminenza.
La repentina, indecorosa
caduta del contadino elevato al rango di principe pare dimostrare che chi
proclamava, nel duello bolognese, inimmaginabile che il burattino potesse
essere preso per il naso, non sapeva uscire dalla favola e riconoscere la
realtà. E che chi sosteneva che al burattino poteva essere tolta la corona per
essere posta, in giornata, su un’altra testa di legno, non faceva che
riconoscere l’abissale differenza di potere, sull’apparato della Confederazione,
del presidente contadino e dei suoi ministri. Nei quali identificava gli
arbitri della promozione di ogni impiegato, dall’ufficio locale di Cavaion alle
scrivanie cardinalizie di Palazzo Rospigliosi, reputando improbabile che quelle
scrivanie potessero essere occupate da chi non assicurasse ai signori Pasquali
e Gesmundo fedeltà assoluta e cieca obbedienza.
La caduta di
Paolo Bedoni costringe, per il carattere repentino, a riflettere sul governo
della prima organizzazione sindacale dell’agricoltura italiana, un governo che
un peso tanto ingente esercita, gloriosamente, o, a scelta, tragicamente, su
quello della patria agricoltura. Rilevando, innanzitutto, che non si tratta di
un avvicendamento secondo le ordinarie procedure statutarie, assemblee,
candidature, votazioni, ma di una defenestrazione. Qualche parvenza delle forme
è stata rispettata, ma nessuno ha preteso che si credesse che erano più che
parvenze.
Il primo rilievo
induce ad uno conseguente: al vertice della Coldiretti si è compiuta la terza
defenestrazione successiva. Arcangelo Lobianco, l’orgoglioso successore di
Bonomi che aveva sognato di trattare i ministri dell’agricoltura come il
predecessore aveva trattato quelli dei tempi suoi, fu defenestrato con un rispetto
molto maggiore dei rituali statutari, ma nulla impedì agli osservatori meno
attenti di verificare che di defenestrazione si trattava. Paolo Micolini, il
successore, fu gettato dalla finestra con un rispetto delle forme che
dimostrava una certa dose di scrupolo statutario, ma la defenestrazione fu
ancora più palese. Verso Bedoni il rispetto delle forme è stato tale da
dimostrare che a chi lo gettava dalle lesene cinquecentesche di Palazzo
Rospigliosi non interessava più neppure il pudore.
Finestre
generose di presidenti, quelle di Palazzo Rospigliosi! A ricordo degli uomini
cui hanno offerto l’ebbrezza del volo si può ricordare che chi fu vicino a
Lobianco assicura che il leader di Bitonto non avesse alcuna intenzione, poche
settimane prima delle assise fatali, di rinunciare alle glorie del sindacalismo
agricolo. Ma aveva consentito l’assalto degli avversari alla Federconsorzi, e
aveva perduto lo storico baluardo economico. Pare gli sia stato detto che la
perdita non era benemerenza tale da consentire un nuovo mandato. Il commiato fu celebrato con
tutti gli onori: il copione comprese un’orazione commemorativa, lacrime e
abbracci di commiato. Il mare di lacrime attenuò la caduta, che fu caduta
drammatica.
Sul successore,
chi lo conobbe proclama che era contadino ma non sciocco, e che da buon
contadino, consapevole delle proprie capacità e dei propri limiti, non avrebbe
mai osato sfidare Lobianco, il tribuno che godeva tra gli associati di affetti sinceri
e diffusi. Qualcuno, appare verosimile, avrebbe spiegato a Micolini che
Lobianco doveva lasciare, e che bastava salire sulla tribuna: tutto avrebbe seguito
il copione.
Neppure
Micolini, proclama, ancora, chi ebbe il piacere di conoscere il grande
friulano, aveva intenzione, quando toccò a lui la finestra, di gettarsi. Ma
l’antico contadino era stato senatore, e, come senatore, sedutosi sul trono
romano aveva manifestato tutto l’affetto per il potere. E’ probabile che le
pretese esorbitassero dai patti stabiliti al momento dell’investitura:
qualcuno, probabilmente, glie lo ricordò. E Paolo Micolini affrontò il salto.
Salto felice, piuttosto tuffo che salto, terminato
in un accogliente mare di latte. Da qualche anno il senatore intratteneva i
rapporti più cordiali con un protagonista intemerato dell’agroindustria
nazionale, Sergio Cragnotti, che prima che atterrasse lo aveva insignito della
presidenza della Cirio. Il grande businessman
aveva rilevato la Cirio, riferiscono le cronache, a un prezzo che suscitò molte
chiacchiere, dal professor Prodi, gran manager
dell’Iri, e l’aveva aggiunta all’impero lattiero la cui prima pietra era
stata la società Polenghi Lombardo, rilevata dal fallimento della
Federconsorzi. Si mormorò che la Polenghi Lombardo valesse assai più di quanto era
scritto nei bilanci, che riportavano poste ermetiche. Qualcuno ne aveva
illustrato il significato al signor Cragnotti. Paolo Micolini era stato
presidente della società di latte e formaggio. Per la vicenda Cragnotti fu “intervistato”
dal sostituto procuratore di Perugia, Razzi. Prima dell’interrogatorio gli
entusiasti di “latte e formaggio puliti” contavano che nel corso dell’incontro l’interpellato
avrebbe potuto provare l’emozione delle manette. Illusioni? Dell’interrogatorio
dovrebbe sussistere il verbale.
Mentre i
burattini volavano dalle finestre di Palazzo Rospigliosi il Gatto e la Volpe,
possiamo notare, continuavano a presidiare gli appartamenti principeschi del
presidente venturo. I primi defenestrati avevano conosciuto i fastidi di
vicende incresciose: Federconsorzi, Polenghi, Cirio. Vincenzo Gesmondo e Franco
Pasquali vantano un posto tra i protagonisti del crack della Federconsorzi, di
cui furono sindaci attestando, sistematicamente, la regolarità di bilanci di
cui schiere di commissari ministeriali e
di magistrati hanno sospettato la falsità. Per le benemerenze di controllori
meticolosi sono stati rinviati a giudizio per bancarotta fraudolenta, dal
Procuratore della Repubblica di Roma, il 6 giugno 1997 (rinvio 3988/93, foglio
2 e segg.), ma, non rivestendo ruoli statutariamente rilevanti, l’infortunio
non ha prodotto conseguenze sgradevoli. Né le produrrà mai il processo, le cui
udienze sono state regolarmente iscritte all’albo, per essere sempre rinviate,
in attesa del felice compimento dei termini di prescrizione.
Tanto
che se dall’apologo deve trarsi, come da tutti gli apologhi, una “morale” non
v’è dubbio che questa ammonisca il futuro presidente della Confederazione
italiana dei coltivatori diretti a non ripetere le prodezze di Pinocchio, e di
essere certo, prima di avvicinarsi ai davanzali della propria sontuosa magione,
di non avere mai tirato la coda al Gatto, né di avere pestato la zampetta della
Volpe.
Antonio Saltini
Antonio Saltini
Docente di Storia
dell'agricoltura all'Università di Milano, giornalista, storico delle
scienze agrarie. Ha diretto la rivista mensile di agricoltura Genio
Rurale ed è stato vicedirettore del settimanale, sempre di argomento
agricolo, Terra e vita. E' autore della Storia delle Scienze Agrarie
opera in 7 volumi. www.itempidellaterra.com (qui).
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