di Angelo Troi
Indiscutibilmente il mezzo secolo appena
trascorso è stato un periodo di crescita economica quasi ininterrotta.
Le guerre si sono portate ai confini, lasciando all'interno degli Stati
più fortunati l'impressione di relativa tranquillità. Non è cosa nuova:
ne fu un esempio la Pax Augustea, ben più lunga dell'attuale, che si
protrasse dal termine della guerra civile (29 a.C.), fino al decesso di
Marco Aurelio, nel 180 d.C. Anche allora si ebbe un periodo di grande
sviluppo economico e culturale. Anche allora la pace si concluse con una
lenta decadenza aggravata da tensioni tra classi sociali,
irresponsabilità civica, amministrativa e politica, malattie infettive
(fattore spesso dimenticato), acuite dagli spostamenti “rapidi” del
“mondo globalizzato” di allora.
Economia non sostenibile.
Negli ultimi decenni
di storia contemporanea, si è attinto in modo sconsiderato dal debito
pubblico facendo passare tutto per investimenti con ricadute positive
sull'economia; invece il debito resta debito e in ultima analisi lo può
estinguere solo chi produce. Si è diffusa l'idea dell'illimitatezza
delle risorse e questo ha avuto importanti ripercussioni
socio-culturali. Ovviamente hanno contribuito i continui al-lupo-al-lupo
(qualcuno ricorderà la crisi del petrolio degli anni '70, quando si
vaticinava l'imminente esaurimento delle risorse e si limitarono le
cilindrate delle auto!). Ci siamo assuefatti. Probabilmente grazie anche
al susseguirsi di smentite sulle imponenti catastrofi da parte di una
comunicazione via via meno scientifica nei contenuti, ma molto più
sofisticata nel metodo per inculcarli. La classe dirigente ha preferito
assecondare, piuttosto che educare e consapevolizzare ed oggi non ci
stupiamo nemmeno se Obama, presidente di uno dei Paesi più ricchi e
potenti del globo, annuncia con una certa enfasi di aver dato accesso
alla sanità ad un 10% in più di popolazione. Non ci fa riflettere avere
una sanità più o meno gratuita dal 1978, anche per chi potrebbe
permettersela e voler estendere uno stato sociale agli animali, quando
nazioni ben più ricche e potenti della nostra, considerano la sanità
gratis per tutta la popolazione un traguardo quasi utopico. Poi è
subentrata un crisi severa: si comincia a dover fare conti e bilanci. Lo
stato sociale, ammortizzatore per eccellenza e vacca da mungere
all'infinito per i più furbi, non potrà essere garantito all'infinito e
comincia ad essere messa in discussione un'economia basata sul valore
simbolico di azioni e monete (persino di aziende quali marchi, moda,
web), stimata da autorevoli economisti come sette volte sopravvalutata
rispetto al valore reale di quanto verrebbe rappresentare.
La Veterinaria
Veterinaria, sia
come ciclo di studi che come professione, era una realtà fortemente
impostata sulla zoo-economia, con una decisa connotazione agricola. In
seguito, la spinta dei telefilm con gli eroi veterinari, la forte
pressione mediatica favorevole al dottore per gli animali
(essenzialmente da compagnia), la selezione prevalentemente al femminile
operata dai test d'ingresso alle facoltà e -perché no-, anche un
significativo addolcimento dei tanto temuti cinquantacinque esami del
corso di studi (era la facoltà con più esami), ne hanno cambiato le
caratteristiche.
È
venuta meno l'urgenza del reddito: oggi poter studiare non è più un
privilegio agognato e lavorare non è più considerato da tutti una
necessità. Si laurea in veterinaria anche chi non studia per avere una
sicurezza economica; se così fosse, i report sui guadagni che ci vedono
in coda ai professionisti, avrebbero svuotato le facoltà da tempo.
Comunque -dato questo confermato da recenti statistiche-, la motivazione
del reddito è decisamente sopravanzata da altre priorità: la curiosità
dell'etologia, il consenso sociale, la favola del
veterinario-missionario. Veterinaria è sexy.
Il medico veterinario è spinto a non
considerare più il valore intrinseco di quello che cura, diventando a
sua volta un attore/vittima della glamour-economy.
Contribuisce in parte ad alimentare le contraddizioni, prima fra
tutte quella ad un reddito dignitoso per dei laureati. Sono passati i
tempi dello zooiatra di campagna H24,
sempre disponibile; oggi non lo vuol fare più nessuno. Intanto le
attività zootecniche, costrette ai conti di fine mese e a confrontarsi
con il mercato, imparano ad arrangiarsi. Così il professionista
diventa un burocrate come un altro, non più a supporto di un sistema
produttivo ma fatale necessità, piano piano superabile da tutta una
serie di altre figure nate nel frattempo dallo stesso ceppo della
facoltà di veterinaria.
La
forbice tra zootecnia ed animali da compagnia si allarga sempre di più.
Gli allevamenti di animali da reddito con pochi animali chiamati per
nome, sono praticamente estinti, mentre restano sul mercato solo le
realtà in grado di fare economie di scala. Al contrario, negli animali
da compagnia sono quasi scomparsi gli allevamenti veri e propri,
sostituiti spesso da soggetti improvvisati, digiuni completamente di
cinotecnica, che riproducono animali in semi-clandestinità alimentando
un mercato sommerso (anche ai fini fiscali), che poco si giova anche
della nostra professionalità.
Principi ondivaghi.
Da
qui in poi, molte contraddizioni. Dai concetti più alti, a cascata fino
in basso. Come ai tempi di Galileo quando si scoprì l'universo e la
rotazione planetaria, ci sentiamo ripetere continuamente che gli animali
sono esseri in grado di percepire stimoli ed agire di conseguenza. Come
chi guarda il dito e non la luna, non ci fanno accorgere che la
maggior parte della biomassa vivente sul nostro pianeta è in grado di
percepire stimoli e reagire a questi. Il veterinario ha -o dovrebbe
avere- le basi scientifiche per comprenderlo. Un girasole che segue la
parabola dell'astro diurno nel cielo non è poi così diverso dalla zecca
che per fototropismo positivo sale su un filo d'erba.
Da
questo concetto dovrebbe derivare la più forte contestazione
dell'anti-specismo animale, teoria vecchia di oltre quarant'anni,
quando ancora non esistevano studi di neuro-fisiologia vegetale e le
piante e i minerali erano pacificamente accomunati nella categoria dell'
ambiente. Eppure non
c'è un pezzo di una pianta che cresca per caso o che sia inutile. Tutto è
esattamente finalizzato alla perpetuazione e diffusione della specie.
Compresa la frutta che cade dalla pianta e contiene semi destinati a
diffonderla in altre aree fertili e non a finire sterilizzata nei
depuratori fognari delle nostre aree urbane.
Ossequiosi al politically-correct, si
va perdendo la concezione di ecologia e gestione della fauna selvatica,
trasferendo sulle dinamiche di popolazione e sulla prevenzione delle
malattie infettive concetti adatti al gatto di casa. Pretendiamo di
partecipare alla comunicazione di Expo 2015 (sfamare il pianeta)
lasciandoci propinare ideologie sul consumo di carne insostenibile,
valutato unicamente in consumo di acqua e produzione di gas, quasi come
se la veterinaria fosse aliena dalle produzioni animali. Come se gli
agronomi disconoscessero le produzioni vegetali in nome dei fiorellini
sul balcone di casa. Può un veterinario non capire che il consumo di
acqua di un animale rappresenta solo un uso temporaneo, perché l'acqua è
rimessa nell'ambiente; che l'animale respira carbonio senza
aggiungerne di nuovo, mentre quasi la totalità dei prodotti “eco” sono
sintetici e quindi traggono carbonio da riserve in cui è immobilizzato
(petrolio, gas) creando un vero impatto sul bilancio globale; che
la filiera zootecnica utilizza alimenti non consumabili dall'uomo (la
fibra grezza del foraggio digerita dai ruminanti) e soprattutto mantiene
una riserva di proteine a lungo termine mentre la deperibilità rapida
dei prodotti vegetali, comporta significative quantità di energia per
approvvigionare parti del pianeta in base alle stagioni, per produrre
quantità significative nelle serre o per conservare questi alimenti
nella filiera che va dal campo alla tavola?
Le nuove figure.
I
veterinari si allontanano dalla zoo-economia con sorprendente
acriticità, spesso supportando chi nega le produzioni animali, quasi che
queste distino anni-luce dal nostro ambito occupazionale. Come per i telefilm degli anni settanta che mitizzavano il veterinario, oggi si mitizza il guru,
inteso come esperto della materia che può vendere il suo sapere nei
"corsifici". Si comincia dall'università a proporre corsi di formazione
e tirocini a pagamento e si continua nel post-laurea, complici i
famigerati ECM. Molti neo-laureati finiscono per non avere più alcun
contatto con la realtà, non si propongono più come lavoratori autonomi
con partita iva ma vengono risucchiati in un giro di sfruttamento a
basso reddito quasi sempre re-investito nella formazione, a volte
proposta sotto diverso nome (tirocini, praticantati, patentini, master,
elenchi di abilitati...) dalle stesse organizzazioni che li sfruttano.
Viene meno la partecipazione all'attività politica della categoria,
perché giudicata inutile da chi è talmente settorializzato nella
professione, da non aver più bisogno di fare ricette e di conoscere i
farmaci o di sapere come si compila o si esige una fattura emessa al
cliente (le false-partite iva fatturano solo “consulenze”). Questa
negligenza partecipativa gioca a favore di
chi specula sulla veterinaria elitaria e le sue regole, sprezzante
verso il reddito altrui e indifferenti ai colleghi cinquantenni
marginalizzati dal lavoro, non appena i nuovi vivai producono rampolli a
prezzo più basso.
Dove andare.Questa è la veterinaria di moda, destinata come tutte le mode a cambiare.
Per
questo il SIVELP propone di ricollegarsi alle basi economiche di
quanto facciamo e sosteniamo, sia negli animali da reddito che in quelli
da compagnia. Coerenti con la nostra professionalità, per non rimanere
vittime degli interessi di altri
Angelo Troi
Veterinario, Segretario Nazionale del SIVeLP (Sindacato Italiano Liberi Professionisti). E' responsabile del sito http://www.sivelp.it/
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