martedì 20 gennaio 2015

Micotossine, una storia emiliana. Anzi, italiana

di Antonio Saltini


Storia di un’azienda produttrice di latte di qualità che, impedendo la legge di coltivare mais esenti da micotossine, ha cercato faticosamente di adeguarsi, vedendo accettato il latte che avrebbe potuto essere inquinato, costretta a versare nelle fognature latte certamente indenne. L’avventura di un  allevatore che si è ripetuta in cento aziende



Un giorno identificato col solo titolo di sabato di un anno non precisato, suona il telefono, alle otto della mattina, nell’ufficio aziendale dell’allevamento La Tenuta, in un’area di bonifica al confine tra province emiliane diverse in cui le dimensioni aziendali sono mediamente cospicue. Risponde la figlia del titolare, la signorina Ella, che non crede a quanto le riferisce la voce che si è presentata come impiegata della A.s.l. Chiede di ripetere. Spazientita la voce all’altro capo della linea ripete: l’ultimo campione di latte prelevato dall’azienda, il giovedì, è risultato positivo all’analisi delle aflatossine, presenti in misura superiore alle 5 p.p.t., parti per trilione, previste come limite di legge. Il latte deve essere eliminato. La signorina Ella dichiara di essere certa che la presenza delle tossine nel latte del giorno sia inferiore al valore soglia, ribadisce che eseguirà immediatamente un’analisi di riscontro. Perduta, ormai, la pazienza, l’impiegata della U.s.l dichiara che essendo sabato, e chiudendo il laboratorio a fine mattina, analisi ufficiali saranno impossibili fino a lunedì. Se lunedì la presenza di tossine risulterà contenuta nei termini di legge l’azienda sarà autorizzata a consegnare dal giorno successivo: fino a lunedì tutto il latte dovrà essere gettato.
L’azienda La Tenuta alimenta centocinquanta capi in mungitura, consegna il latte, ogni mattina, a una cooperativa lattiera che, date le caratteristiche sistematicamente verificate, lo impiega nelle linea di prodotti di “alta qualità”. Unendo il latte della sera a quello della mattina, ogni consegna consiste di una cisterna di 47 quintali.
La signorina Ella getta il telefono, corre alla cisterna, preleva due campioni, sale sull’automobile e si getta sulla provinciale in direzione della città, per raggiungere il laboratorio cui l’azienda affida le analisi di verifica. Comprensibilmente agitata, non nota di incrociare, varcati i cancelli dell’azienda, l’autocisterna della cooperativa che raggiunge l’azienda per il prelievo mattutino. La A.s.l. non ha avvertito la cooperativa che il latte della Tenuta deve reputarsi inquinato. L’operaio addetto, che la signorina Ella non ha informato, procede al carico, il latte raggiungerà lo stabilimento della cooperativa, il cui direttore invierà all’azienda una nota in cui, lamentando che il latte non avrebbe potuto essere consegnato, minaccerà una sanzione.
Mentre il latte viaggia felicemente verso la società casearia giunge alla Tenuta il proprietario, il signor Ico che, avvertito, sul cellulare, dalla figlia, si mette in contatto con la A.s.l, si inquieta, grida. Inutilmente: fino a martedì ogni consegna è vietata. Stia attento, lo diffida il funzionario della pubblica sanità, di non provocare, gettando il latte, l’inquinamento di terreni o falde: ne sarebbe responsabile civilmente e penalmente.
Il laboratorio che ha ricevuto i campioni dalla signorina Ella fornisce i dati a metà del pomeriggio: il valore delle aflatossine nel latte della Tenuta è ampiamente al di sotto della soglia di tolleranza: è “legale”. Ma è inutile comunicare il rilievo alla A.s.l.: il telefono squilla invano, l’A.s.l è chiusa.
Del risultato la signorina Ella era certa. Con le aflatossine tutto l’allevamento della provincia  combatteva, insieme alla cooperativa lattiera, una guerra che durava da oltre un anno. La legge consente, infatti, ai mangimisti di vendere sfarinati di mais che contengano aflatossine nella misura di 3 p.p.b. parti per miliardo, mentre la contaminazione consentita nel latte, alimento liquido, è molto inferiore, 5 p.p.t., parti per triliardo. Bestie alimentate con pochi chili di farina di mais non correrebbero alcun rischio, animali alimentati con 40 chili di sfarinati al giorno, se quegli sfarinati sono contaminati entro i limiti di legge, producono latte contaminato fuori dai limiti di legge. Varate le disposizioni l’A.s.l. aveva iniziato a prelevare campioni dalle cisterne sul piazzale della cooperativa, ma in quelle cisterne era già stata riunita la produzione di più conferenti: se il latte fosse risultato inquinato sarebbe stato impossibile sapere chi lo aveva inquinato. Così la cooperativa aveva iniziato a eseguire analisi di campioni aziendali, e, di fronte al rischio di vedere il latte rifiutato, i conferenti avevano trovato conveniente eseguire periodiche verifiche a proprie spese.
Nei dieci giorni precedenti alla Tenuta era pervenuta una partita di mais la cui contaminazione era prossima alla soglia di tolleranza, la signorina Ella aveva fatto controllare la contaminazione del latte, verificando il raggiungimento della soglia aveva mutato radicalmente la dieta, era quindi sicura che il latte della sera di venerdì e della mattina seguente rispettasse i termini di legge. Se il latte della Tenuta aveva superato la soglia, l’evento poteva essersi realizzato nei giorni precedenti. Il latte da cui era stato prelevato il campione contestato, giovedì mattina, poteva essere inquinato, ma era già stato consegnato alla cooperativa, e diretto al consumo. Venerdì sera, mutata la dieta, il latte era certamente indenne. Le quarantotto ore tra il prelievo della A.s.l. e il responso avevano operato perché latte potenzialmente inquinato fosse diretto al consumo, obbligavano alla distruzione di latte che rispettava i parametri di legge. Se l’esame di laboratorio era esatto, migliaia di bottiglie di latte i cui parametri erano illegali erano state legalmente distribuite tra bar e supermercati. Siccome, peraltro, l’inquinamento cessa al mutamento della dieta, il ritardo del responso obbligava a distruggere latte legale.
Stanco di cercare, al telefono, funzionari della sanità pubblica dispersi, per il  weekend, tra i monti e il mare, verificato che la cooperativa non avrebbe mai ritirato il latte che l’A.s.l. vietava di ritirare, ne attestassero l’idoneità le analisi di cento laboratori privati, anche il signor Ico rinuncia all’impossibile intento di salvare i 47 quintali di latte che le sue mucche avrebbero prodotto tra sabato sera e domenica mattina, e i 47 che avrebbero prodotto tra domenica sera e lunedì mattina. Dato disposizione al capostalla di dirigere il condotto di uscita dalla cisterna, al termine di ogni mungitura, al più prossimo tombino della rete fognaria, lasciava l’azienda per il più agro di tutti i weekend da quando aveva deciso, chiuso lo studio professionale, tra i più noti in città, di fare l’allevatore.
Una storia emiliana. Anzi una storia italiana. Che dimostra l’irrazionalità di un sistema che consente di vendere mais che, trasformato in latte, concentrerà le tossine originarie, “legali”, trasformandole  in tossine “illegali”, un sistema che rende inevitabile che il latte possa superare la soglia di legge, accendendo una caccia alle aflatossine che oppone aziende e autorità sanitarie in un balletto ridicolo e inutile. Inutile perché il responso non può essere istantaneo, e l’ordine di distruggere interviene quando il latte inquinato è già in bottiglia. Nodo di tutte le irrazionalità: l’impossibilità di coltivare mais che sia esente da tossine, frutto della combinazione di attacchi di insetti e crittogame. La piralide, il più comune insetto fitofago del mais, perfora la spiga, nelle sue feci si instaura il Fusarium, la crittogama che produce le micotossine, in particolare la fumonisina. Per evitare l’infezione esistono i mais in cui è inserito il gene del Bacillus thuringiensis, inattaccabili dagli insetti, ma il mais b.t. è un mais o.g.m. e i mais o.g.m. in Italia sono proibiti.
Giustizia vorrebbe che per i 141 quintali di latte perduti il signor Ico, e le decine di allevatori che come lui, hanno dovuto gettare il frutto del proprio lavoro, ne chiedessero il risarcimento ai ministri dell’agricoltura, che, per assecondare la piazza fremente di orrore per le piante o.g.m., non paghi del bando contro sementi impiegate in tutto il mondo, hanno creato difficoltà anche alla ricerca genetica. Non potendo opporsi alle istanze che ispirano le scelte di chi governa il Bel Paese, il signor Ico assiste con attenzione al dibattito in corso negli Stati Uniti, dove, verificando che la contaminazione del mais da parte di micotossine provoca, in tutta la popolazione di origine messicana della California e del Texas, consumatrice di tortillas di mais, un numero intollerabile di alterazioni irreversibili del sistema nervoso dei neonati, gli specialisti della Food and drug Administration, il più efficiente servizio di prevenzione sanitaria del mondo, hanno avanzato la proposta di proibire i mais che soggiacciano all’inconveniente. Sarebbero proibiti, cioè, tutti gli ibridi tradizionali, resi obbligatori i mais o.g.m. Come attende con curiosità il signor Ico attendono con qualche ansia, immaginiamo, gli ayatollah della lotta alla genetica, pronti a eccitare le proprie mute contro qualunque politico osasse  sostenere la liceità dei mais o.g.m. Accecato dalla propria verità, un ayatollah non è tenuto alla sincerità: può predicare ai fedeli che le malformazioni del sistema nervoso dei neonati sono causate dalle nefaste congiunzioni degli astri.

2 commenti:

  1. Segnalo qualche imprecisione nei numeri (il limite di aflatossina B1 nel mais è di 20 ppb, di M1 nel latte di 50 ppt e un bovino difficilmente può ingerire 40 Kg di concentrati), per il resto tutte considerazioni condivisibili.

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