4ª parte
Agnosticismo scientifico, passione tecnologica
Se nel crepuscolo degli anni Settanta una rassegna delle scuole e sette in
cui si rifrangeva il movimento per un’agricoltura alternativa rivelava
l’intensità dello sforzo per definirne l’edificio secondo principi capaci di
confrontarsi con i cardini teorici dell’agricoltura tradizionale, vent’anni più
tardi, alla constatazione dell’immensa dilatazione degli spazi coltivati dagli
agricoltori “biologici” si accompagna, paradossalmente, quella dell’abbandono,
da parte di quanti praticano la nuova agricoltura, di qualsiasi proposito
teorico.
Se l’agricoltura alternativa pare avere iniziato, cioè, la marcia trionfale alla conquista delle campagne, quanti la praticano hanno abbandonato, contemporaneamente, ogni impegno per fondare le proprie pratiche su presupposti conoscitivi di dignità scientifica. La circostanza può apparire paradossale: essa rivela, peraltro, al critico che esamini le condizioni in cui si è realizzata, ragioni palesi. I trenta anni trascorsi hanno convertito l’opzione di pratiche agrarie alternative da impegno etico di pionieri dalle vigorose motivazioni ideali, paladini della ricomposizione degli equilibri tra l’uomo e le risorse, che le ragioni ideali anteponevano ad ogni calcolo economico, in attività produttiva dai solidi risultati economici. Ad assicurare quei risultati sono stati due eventi dagli esiti convergenti: il varo, da parte dell’Unione Europea, di un programma di significativi incentivi a favore dell’agricoltura “biologica”, il diffondersi tra i consumatori di istanze salutistiche sempre più affannose. Da un lato, cioè, le erogazioni dell’Unione Europea hanno convertito l’agricoltura alternativa in uno dei terreni più fertili di contributi della sussidiata agricoltura europea, dall’altro consumatori sempre più sazi, adusi a devolvere agli acquisti alimentari una percentuale del proprio reddito insignificante di fronte alle quote del reddito destinate al cibo da tutte le società della storia, sempre più ansiosi dei possibili effetti nocivi di alimenti “contaminati”, sono stati sospinti a premiare con liberalità, pagandoli prezzi maggiori, alimenti che si proclamano in possesso di requisiti salutistici più certi delle derrate ottenute con le pratiche consuete. Trasformata da impegno etico di tutela degli equilibri tra l’uomo e le risorse agrarie in ordinaria attività produttiva, condotta da una pluralità di operatori per ricavarne, come tutti gli imprenditori, contributi pubblici e i più elevati guadagni possibili, senza rinnegare i principi cardinali, in primo luogo il bando della chimica, l’agricoltura alternativa ha rigettato le istanze teoriche, ha rinunciato ad elaborare una dottrina da contrapporre alle teorie agronomiche classiche, si è immersa nei problemi della tecnica produttiva.
Se l’agricoltura alternativa pare avere iniziato, cioè, la marcia trionfale alla conquista delle campagne, quanti la praticano hanno abbandonato, contemporaneamente, ogni impegno per fondare le proprie pratiche su presupposti conoscitivi di dignità scientifica. La circostanza può apparire paradossale: essa rivela, peraltro, al critico che esamini le condizioni in cui si è realizzata, ragioni palesi. I trenta anni trascorsi hanno convertito l’opzione di pratiche agrarie alternative da impegno etico di pionieri dalle vigorose motivazioni ideali, paladini della ricomposizione degli equilibri tra l’uomo e le risorse, che le ragioni ideali anteponevano ad ogni calcolo economico, in attività produttiva dai solidi risultati economici. Ad assicurare quei risultati sono stati due eventi dagli esiti convergenti: il varo, da parte dell’Unione Europea, di un programma di significativi incentivi a favore dell’agricoltura “biologica”, il diffondersi tra i consumatori di istanze salutistiche sempre più affannose. Da un lato, cioè, le erogazioni dell’Unione Europea hanno convertito l’agricoltura alternativa in uno dei terreni più fertili di contributi della sussidiata agricoltura europea, dall’altro consumatori sempre più sazi, adusi a devolvere agli acquisti alimentari una percentuale del proprio reddito insignificante di fronte alle quote del reddito destinate al cibo da tutte le società della storia, sempre più ansiosi dei possibili effetti nocivi di alimenti “contaminati”, sono stati sospinti a premiare con liberalità, pagandoli prezzi maggiori, alimenti che si proclamano in possesso di requisiti salutistici più certi delle derrate ottenute con le pratiche consuete. Trasformata da impegno etico di tutela degli equilibri tra l’uomo e le risorse agrarie in ordinaria attività produttiva, condotta da una pluralità di operatori per ricavarne, come tutti gli imprenditori, contributi pubblici e i più elevati guadagni possibili, senza rinnegare i principi cardinali, in primo luogo il bando della chimica, l’agricoltura alternativa ha rigettato le istanze teoriche, ha rinunciato ad elaborare una dottrina da contrapporre alle teorie agronomiche classiche, si è immersa nei problemi della tecnica produttiva.
I quali sono tutt’altro che semplici. Avvicinare le produzioni
dell’agricoltura alternativa, realizzate senza antiparassitari,
anticrittogamici e diserbanti, alle rese produttive dell’agricoltura ortodossa
non è impegno agevole: è solo grazie ad estrema perizia che il divario può
essere ridotto. Se ridurlo risultasse tecnicamente troppo arduo, la tentazione
degli adepti conquistati alla nuova pratica dai sussidi pubblici ad impiegare,
surrettiziamente, gli strumenti della chimica, diverrebbe irresistibile. E, si
deve sottolineare, il sotterfugio sarebbe di identificazione impossibile: i
fertilizzanti, e molte delle molecole antiparassitarie più moderne, non
lasciano traccia, ed è arduo supporre che gli organismi di certificazione, che
suggellano la produzione “biologica” con uno-due sopralluoghi annuali, traendo
il proprio utile dal numero delle aziende cui rilasciano i propri attestati,
sarebbero interessati a scoprire le frodi. Per scongiurare il pericolo che
l’intero ordito dell’agricoltura alternativa, ormai florido sistema economico,
sia pervaso dalla tara della frode, i suoi alfieri debbono assicurare agli
adepti la disponibilità di pratiche sicure, che applicate con meticolosità
producano risultati non troppo remoti da quelli dell’agricoltura ortodossa, dai
quali deve separarli un divario che possa essere compensato dalle sovvenzioni e
dal più elevato prezzo di vendita dei prodotti. Ma risolvere, senza l’impiego
di fertilizzanti, insetticidi, anticrittogamici e diserbanti, tutti i problemi
tecnici nelle sfere diverse della produzione agricola non è obiettivo agevole:
alla soluzione dei cento quesiti in cui l’imperativo si rifrange nella molteplicità
delle colture e degli allevamenti la seconda generazione degli alfieri
dell’agricoltura alternativa ha dedicato tutte le proprie energie.
Agnosticismo scientifico, quindi, fervente fede nella tecnologia: esprime
con chiarezza emblematica l’atteggiamento dei nuovi paladini dell’agricoltura
alternativa il testo, vergato per il ventennale di un sodalizio “biologico”, in
cui uno dei più attivi, nell’arco tra gli anni Ottanta e Novanta, Enos
Costantini, agronomo udinese, riferisce, con apprezzabile lucidità, il proprio
percorso di fautore dell’agricoltura liberata dalle molecole di sintesi, di
promotore di convegni, seminari ed esperienze in campo apprestate per favorire,
assicurando la soluzione dei problemi tecnici più ardui, la moltiplicazione
degli adepti della nuova agricoltura.
In un testo vergato con amabile facondia, non può sfuggire a chi dietro la
piacevolezza voglia misurare le ragioni ispiratrici, l’insistente riproporsi di
espressioni di diffidenza verso la scienza. Ai grandi interrogativi sulla conservazione
degli equilibri naturali, sull’innocuità delle pratiche agricole, sulla
salubrità degli alimenti, secondo Costantini la scienza sarebbe del tutto
incapace di dare risposte certe. Dichiarando di avere setacciato biblioteche
intere alla ricerca, sulle pubblicazioni specialistiche, della dimostrazione
“scientifica” della nocività delle molecole di sintesi impiegate in
agricoltura, in quelle biblioteche Costantini proclama di avere trovato le
prove della nocività dei composti chimici, non riconoscerebbe mai di avere
scoperto la dimostrazione “scientifica” che una sola di quelle molecole sia
innocua. Quando si pronunci sugli effetti ambientali dei prodotti della chimica
ogni scienziato professerebbe, secondo Costantini, una personale, opinabile “scienza”:
essendo tra loro dissonanti, le “scienze” diverse proposte dalla comunità
accademica sarebbero tutte ugualmente inattendibili. E’ la prova della più
incondizionata adesione, da parte di un agronomo italiano, alla lezione di
Aubert, che nell’agronomo udinese può vantare il più fedele dei discepoli.
Ad avallare gli appunti sull’inutilità della scienza Costantini menziona la
propria esperienza universitaria, che giudica inutile siccome nulla avrebbe
aggiunto alle solide conoscenze tecniche acquisite all’istituto professionale,
il centro di irradiazione di un sapere agronomico capace di risolvere i
problemi “in campo”, un sapere pratico e utile di fronte alle inutili, vuote,
elucubrazioni accademiche. Agnostico verso la scienza, Costantini esprime un atteggiamento
di incondizionata considerazione per la tecnologia agronomica, manifesta la più
calorosa considerazione per i promotori delle esperienze, e per gli scambi di
conoscenze, che hanno consentito ai coltivatori “biologici” di conservare la
fertilità della terra senza somministrare al suolo fertilizzanti industriali,
di eliminare le malerbe senza impiegare i diserbanti, di combattere le
crittogame senza impiegare altri mezzi che le molecole “naturali” dello zolfo e
del rame, di contenere gli insetti parassiti senza gli insetticidi di sintesi.
Un atteggiamento singolare? Su una verità si deve convenire col dottor
Costantini. Iscrivendosi all’università ha commesso un errore imperdonabile: se
in quattro anni i docenti di ventuno materie non sono riusciti a dimostrargli
che senza la scienza la tecnologia moderna è corpo incapace di sopravvivenza, o
ha scelto la peggiore delle facoltà italiane o gli bastava davvero la lettura
del manuale dell’ortolano e del prontuario del capostalla che gli aveva
assicurato l’istituto tecnico.
Pragmatismo filosofico, ambizione scientifica
Conclusa la rassegna degli alfieri della nuova agricoltura protesi a fondare
la metodologia che propugnano su originali fondamenta filosofiche, una pretesa
i cui coloriti risultati hanno suggerito, sensatamente, il ripudio di ogni
ambizione teorica e l’adesione al più pratico credo tecnicistico, una
considerazione particolare ed una riflessione conclusiva sono dovute ad un
testo redatto secondo un’ispirazione radicalmente diversa, il proposito di
comporre l’inventario più completo delle esperienze di agricoltura eterodossa
per di verificare il contributo che ciascuna può prestare a definire il quadro
dell’agricoltura del futuro, di cui lo stesso testo mira a delineare i
caratteri generali, raccogliendo le cento esperienze che considera entro una
cornice scientifica unitaria.
E’ il volume Alternative agriculture del National Research Council
degli Stati Uniti, un consesso scientifico di prestigio internazionale che ha
affidato l’indagine delle metodologie agronomiche estranee ai canoni ordinari
ad un comitato di agronomi, genetisti, biologi ed economisti, che nel 1989
hanno enucleato, nell’ampio volume, l’inventario delle esperienze innovative
identificate su tutto il territorio dell’Unione. Hanno definito quelle
esperienze esempi di “agricoltura alternativa”, un termine scelto rifiutando,
significativamente, quelli più ambiziosi di “agricoltura biologica”,
“biodinamica”, di “agroecologia”, una scelta in cui è trasparente il rigetto di
opzioni filosofiche che trascendano il terreno agronomico. Escluse, peraltro,
pretese filosofiche, il lavoro del comitato del National Research Council
rivela intenti di sintesi dalle palesi ambizioni scientifiche: al pragmatismo
filosofico si compone la lucidità dei propositi conoscitivi.
Negli ultimi tre quarti di secolo l’agricoltura americana ha conseguito,
riconoscono i membri del comitato, traguardi straordinari di produttività, ma
quei traguardi non sono stati realizzati senza costi, che debbono identificarsi
nell’inquinamento delle falde freatiche provocato da fertilizzanti e
antiparassitari, nei rischi alla salute di chi esegue i trattamenti
antiparassitari e di chi consumi prodotti trattati impropriamente, nel ricorso
sistematico e pervasivo ai farmaci negli allevamenti, un ricorso che può
condurre alla creazione di ceppi batterici resistenti, potenzialmente nocivi
non solo agli animali ma anche all’uomo Di fronte alle conseguenze nocive delle
pratiche moderne vi sono agricoltori che hanno reagito cercando di evitare, o
di limitare, l’impiego di fertilizzanti e antiparassitari nei propri campi e
nei propri frutteti, di antibiotici nelle proprie stalle. Quelle esperienze
hanno raggiunto un numero tanto consistente da imporre un’analisi che verifichi
quali contributi esse possano prestare, generalizzandone le pratiche, al
superamento dei problemi creati dalla tecnologia agraria moderna.
Le motivazioni ideali che sospingono i tentativi di agricoltura alternativa
compongono la gamma più varia: tra i protagonisti alcuni mirano all’esclusione
dei prodotti della chimica, altri ne operano riduzioni di entità diversa,
qualcuno si propone di preservare le peculiarità del suolo, qualcuno di ridurre
gli sprechi energetici. Il comitato non si è interessato delle motivazioni, ha
effettuato la verifica dell’efficacia produttiva delle scelte aziendali, ha
mirato ad illustrare, nel rapporto, soluzioni tecniche che si siano rivelate
funzionali, in ambienti geografici differenti, per colture diverse, in contesti
aziendali peculiari. Operando il proprio inventario ha verificato che gli
agricoltori che impiegano tecniche “alternative” rivelano spesso un’abilità
superiore a quella media, e grazie a quell’abilità realizzano risparmi, e
ottengono produzioni tali da ricavarne redditi eccellenti, la misura decisiva
della funzionalità di una pratica agronomica, il metro che impone di
considerare le aziende che la applicano aziende protese al futuro.
Da cento esperienze apparentemente disorganiche, la constatazione, quindi,
che esiste la possibilità di congegnare pratiche agricole più aderenti agli
equilibri naturali di quelle che esercita la maggioranza degli agricoltori
americani, una constatazione che dimostra l’operare, nel tessuto agrario degli
Stati Uniti, di stimoli vitali di rinnovamento, un rinnovamento verso
quell’agricoltura “sostenibile” di cui auspicano l’avvento tanto gli uomini di
scienza quanto i membri della collettività civile sensibili alle prospettive
dei rapporti tra l’uomo e le risorse naturali.
Nessuna professione di fede, quindi, nessun manifesto sul futuro
dell’agricoltura e del Pianeta: nello spirito di una profonda razionalità
scientifica l’analisi di esperienze che possono considerarsi precorrimenti di
un futuro che non potrà accettare, in nome dell’orrore per la chimica, la forma
più moderna di superstizione, la rinuncia alla produzione delle quantità di
derrate che pretende un consorzio umano che somma sei miliardi di membri, che
dovrà adeguare i propri mezzi adottando metodologie che assicurino che le
risorse del suolo, delle acque, delle specie animali e vegetali non siano
sacrificate agli imperativi, pure pressanti, del presente, siano usate
razionalmente affinché il loro impiego per appagare le esigenze di chi abita
oggi il Pianeta non pregiudichi la loro capacità di soddisfare i bisogni di chi
lo abiterà domani.
Agricoltura biologica: scienza o superstizione di Antonio Saltini
vedi anche:
prima parte
seconda parte
terza parte
Agricoltura biologica: scienza o superstizione di Antonio Saltini
vedi anche:
prima parte
seconda parte
terza parte
Bibliografia
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Antonio Saltini Docente di Storia dell'agricoltura all'Università di Milano, giornalista, storico delle scienze agrarie. Ha diretto la rivista mensile di agricoltura Genio Rurale ed è stato vicedirettore del settimanale, sempre di argomento agricolo, Terra e vita. E' autore della Storia delle Scienze Agrarie opera in 7 volumi. www.itempidellaterra.com (qui).
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