sabato 8 novembre 2014

Decrescere e ‘mangiare lentamente’. Perché Latouche e Petrini sono in sintonia

di Nicola Iannello*

 



«Si può dire che il movimento Slow Food
rappresenti il versante culinario del progetto della decrescita»
Corsi e percorsi della decrescita,
Torino, Bollati Boringhieri, 2011, p. 158.

Fotogramma tratto dal film documentario Terra Madre di E. Olmi

















Nelle cose che accadono c’è sempre una logica. Non è quindi un caso che due proposte “culturali” nate in modo indipendente come l’idea della decrescita di Serge Latouche e Slow Food di Carlo Petrini si siano poi trovate a braccetto. Si tratta infatti di due ‘movimenti’ dalle forti connotazioni antimoderne e anticapitalistiche, che fanno appello a suggestivi richiami alla società preindustriale per muovere critiche al tempo presente. Il punto d’incontro è nell’esaltazione del mondo agricolo, ovviamente quello biologico, tradizionale. Da un punto di vista economico-sociale, quello che colpisce nella decrescita di Latouche è la centralità della figura del contadino
Nella società auspicata dall’economista francese, infatti, il 20-30% della popolazione (contro il 3-5% attuale) dovrà essere impiegata in lavori agricoli, soprattutto nella forma del coltivatore diretto. Totale è il rifiuto dell’agricoltura industriale, responsabile di ogni nefandezza: «Lo sappiamo da tempo: i metodi scandalosi della produzione agricola intensiva hanno tolto ogni sapore ai cibi e trasformato certi alimenti in prodotti tossici. I membri di Slow Food, armati di robuste convinzioni ecologiche, sono schierati contro l’alimentazione industriale e l’uniformazione culturale indotte dalla globalizzazione (non si parla forse di cocacolonizzazione o ancora di macdonaldizzazione, ovvero di una colonizzazione culturale orchestrata dalle grandi aziende transnazionali?), e invece si battono per la salvaguardia della biodiversità, per la sovranità alimentare e per il rispetto delle differenze culturali» (Il tempo della decrescita. Introduzione alla frugalità felice, Milano, Eleuthera, 2011, p. 79).


Latouche arriva ad auspicare – con una certa coerenza, occorre dirlo – il crollo della produttività del settore agricolo, altrimenti una quota così importante della popolazione non potrebbe trovarvi impiego. A pensarci bene, si tratta di un tentativo di ribaltare il corso della modernità, che è consistita proprio nel sottrarre una parte sempre crescente di lavoratori alla cura dei campi e all’allevamento. La società agricola vedeva impegnato in queste attività tra l’85 e il 90% della popolazione, mentre oggi in alcuni paesi come gli Stati Uniti si è arrivati a meno del 2%, proprio grazie a un aumento esponenziale della resa dei terreni e del lavoro umano, che permette di sostenere un numero di essere umani letteralmente inimmaginabile un paio di generazioni fa. Predicando una drastica riduzione di consumi e produzione, Latouche è convinto che il ritorno all’agricoltura contadina permetterà di vivere lavorando due ore al giorno, per un livello di vita definito frugale o conviviale: è lo scenario della decrescita serena, che a detta dello studioso francese non coincide con la crescita negativa, come una dieta scelta consapevolmente è diversa dal morire di fame. Alle spalle di questa teoria, sta una visione della natura come una madre benigina, disposta a nutrire il genere umano senza che questi sia costretto ad alcuno sforzo particolare. Come sarà possibile, in una società come quella della decrescita, mantenere una lunga aspettativa di vita e bassi tassi di mortalità infantile non è dato sapere. Minacce ben più gravi incombono sulla nostra specie, a detta di Latouche, che sposa le battaglia di Petrini; a Slow Food, infatti, «aderiscono in tutto il mondo centomila produttori, agricoltori, artigiani e pescatori che lottano contro l’omogeneizzazione dei prodotti alimentari, per ritrovare il gusto e i sapori» (Il tempo della decrescita, p. 63).

Il tema dei sapori di una volta fa scadere la discussione dal livello scientifico a quello dei ricordi personali, in cui tutti rimpiangiamo i piatti della nostra infanzia ed esclamiamo “come faceva le torte mia nonna...”. La realtà del presente andrebbe affrontata con altri strumenti concettuali. Pensare che l’autoproduzione e una non meglio specificata sovranità alimentare possano essere adeguati per risolvere i problemi dell’umanità del terzo millennio più che ridicolo è irresponsabile.



*Nicola Iannello è giornalista Rai.
      E' autore di numerosi saggi.                                                        

Curriculum Vitae




Trailer del documentario Terra Madre di Ermanno Olmi. Il film è stato proposto in una edizione  di Terra Madre (progetto concepito da Slow Food), nel film si esalta il mondo contadino mostrando la sua maniera di vivere la terra e la natura. 












1 commento:

  1. Un commento sintetico ma abbastanza esaustivo del problema...almeno per iniziare la discussione. Purtroppo sono convinto che ragionare in termini scientifici con questi signori non sia impossibile ma inutile (senza voler parafrasare alcuno...)
    Enrico Fravili

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