di Nicola Iannello*
«Si può dire che il
movimento Slow Food
rappresenti il versante
culinario del progetto della decrescita»
Serge Latouche, Come si esce
dalla società dei consumi.
Corsi e
percorsi della decrescita,
Torino, Bollati Boringhieri,
2011, p. 158.
Fotogramma tratto dal film documentario Terra Madre di E. Olmi |
Nelle cose che accadono c’è sempre una logica. Non è quindi un caso che due proposte “culturali” nate in modo indipendente come l’idea della decrescita di Serge Latouche e Slow Food di Carlo Petrini si siano poi trovate a braccetto. Si tratta infatti di due ‘movimenti’ dalle forti connotazioni antimoderne e anticapitalistiche, che fanno appello a suggestivi richiami alla società preindustriale per muovere critiche al tempo presente. Il punto d’incontro è nell’esaltazione del mondo agricolo, ovviamente quello biologico, tradizionale. Da un punto di vista economico-sociale, quello che colpisce nella decrescita di Latouche è la centralità della figura del contadino.
Nella
società auspicata dall’economista francese, infatti, il 20-30% della popolazione
(contro il 3-5% attuale) dovrà essere impiegata in lavori agricoli, soprattutto
nella forma del coltivatore diretto. Totale è il rifiuto dell’agricoltura
industriale, responsabile di ogni nefandezza: «Lo sappiamo da tempo: i metodi
scandalosi della produzione agricola intensiva hanno tolto ogni sapore ai cibi
e trasformato certi alimenti in prodotti tossici. I membri di Slow Food, armati
di robuste convinzioni ecologiche, sono schierati contro l’alimentazione
industriale e l’uniformazione culturale indotte dalla globalizzazione (non si
parla forse di cocacolonizzazione o
ancora di macdonaldizzazione, ovvero
di una colonizzazione culturale orchestrata dalle grandi aziende
transnazionali?), e invece si battono per la salvaguardia della biodiversità,
per la sovranità alimentare e per il rispetto delle differenze culturali» (Il
tempo della decrescita. Introduzione alla frugalità felice, Milano,
Eleuthera, 2011, p. 79).
Latouche arriva ad auspicare – con una certa coerenza,
occorre dirlo – il crollo della produttività del settore agricolo, altrimenti
una quota così importante della popolazione non potrebbe trovarvi impiego. A
pensarci bene, si tratta di un tentativo di ribaltare il corso della modernità,
che è consistita proprio nel sottrarre una parte sempre crescente di lavoratori
alla cura dei campi e all’allevamento. La società agricola vedeva impegnato in
queste attività tra l’85 e il 90% della popolazione, mentre oggi in alcuni
paesi come gli Stati Uniti si è arrivati a meno del 2%, proprio grazie a un
aumento esponenziale della resa dei terreni e del lavoro umano, che permette di
sostenere un numero di essere umani letteralmente inimmaginabile un paio di
generazioni fa. Predicando una drastica riduzione di consumi e produzione,
Latouche è convinto che il ritorno all’agricoltura contadina permetterà di
vivere lavorando due ore al giorno, per un livello di vita definito frugale o
conviviale: è lo scenario della decrescita serena, che a detta dello studioso
francese non coincide con la crescita negativa, come una dieta scelta
consapevolmente è diversa dal morire di fame. Alle spalle di questa teoria, sta
una visione della natura come una madre benigina, disposta a nutrire il genere
umano senza che questi sia costretto ad alcuno sforzo particolare. Come sarà
possibile, in una società come quella della decrescita, mantenere una lunga
aspettativa di vita e bassi tassi di mortalità infantile non è dato sapere.
Minacce ben più gravi incombono sulla nostra specie, a detta di Latouche, che
sposa le battaglia di Petrini; a Slow Food, infatti, «aderiscono in tutto il
mondo centomila produttori, agricoltori, artigiani e pescatori che lottano
contro l’omogeneizzazione dei prodotti alimentari, per ritrovare il gusto e i
sapori» (Il tempo della decrescita, p. 63).
Il tema dei sapori di una volta fa scadere la discussione
dal livello scientifico a quello dei ricordi personali, in cui tutti
rimpiangiamo i piatti della nostra infanzia ed esclamiamo “come faceva le torte
mia nonna...”. La realtà del presente andrebbe affrontata con altri strumenti
concettuali. Pensare che l’autoproduzione e una non meglio specificata
sovranità alimentare possano essere adeguati per risolvere i problemi
dell’umanità del terzo millennio più che ridicolo è irresponsabile.
Un commento sintetico ma abbastanza esaustivo del problema...almeno per iniziare la discussione. Purtroppo sono convinto che ragionare in termini scientifici con questi signori non sia impossibile ma inutile (senza voler parafrasare alcuno...)
RispondiEliminaEnrico Fravili