di Antonio Saltini
3ª parte
Processo alla chimica: i capi d’accusa
Se il rigetto della chimica che accomuna gli alfieri delle agricolture
“alternative” non costituisce, generalmente, che espressione di un orrore
incapace, per la mancanza di competenze scientifiche, di articolarsi in
argomentazioni quantitative, propone l’eccezione più significativa il volume
con cui offre il proprio contributo alla fondazione della nuova agricoltura
Claude Aubert, un agronomo dalle significative esperienze applicative, critico
di notevole acume di tutta la pubblicistica chimica nella sfera agraria, autore
di un volume, L’agriculture biologique, cui la lucidità espositiva ha
assicurato il successo testimoniato dalla pluralità delle edizioni.
A differenza dei proclami contro la chimica della maggioranza dei paladini di un’agricoltura nuova, comunemente meri saggi di retorica antiscientifica, il volume di Aubert propone contro la chimica un’autentica arringa, articolata in capi d’accusa consistenti ciascuno di una serie di argomentazioni fondate sui risultati di ricerche operate nei laboratori di un novero cospicuo di paesi. Nell’ordine, dopo un’introduzione sulla qualità biologica degli alimenti, il primo dei capitoli di quell’arringa raccoglie gli elementi di colpa a carico di antiparassitari, insetticidi e diserbanti, il secondo quelli a carico dei fertilizzanti, il terzo quelli a carico delle creature della nuova genetica vegetale, sementi di piante annuali e varietà di specie frutticole, e quelli a carico degli animali modificati dalle moderne metodologie di selezione.
Nel primo di quei capitoli l’agronomo francese illustra i risultati di una
ricerca condotta, nel proprio paese, sulla presenza di residui degli
insetticidi della famiglia dei clorurati organici, quindi il d.d.t. e le
molecole similari, nel latte delle mucche e in quello delle donne, risultati
senza dubbio inquietanti, siccome il latte umano sarebbe risultato contaminato
da un tenore di d.d.t. quarantacinque volte maggiore di quello reperito nel
latte vaccino, da percentuali maggiori a quelle degli animali, nonostante
l’inferiorità dei valori assoluti, di tutte le altre molecole della famiglia.
L’esito dell’indagine, oggi privo di interesse per la proscrizione, da un terzo di secolo, dell’impiego, nelle campagne europee, dei clorurati organici, avrebbe imposto di individuare la ragione per la quale sarebbe risultata maggiore la quantità di insetticidi nel latte delle donne, che ingeriscono cibi trattati con insetticidi solo indirettamente, che in quello delle mucche, alimentate con prodotti vegetali trattati direttamente: anziché ricercare, però, una spiegazione, dal risultato Aubert desume l’impossibilità di qualsiasi spiegazione plausibile. L’opzione rivela un proposito sottile: postulare quell’impossibilità equivale, infatti, a proclamare l’incapacità della chimica di seguire le traslocazioni degli insetticidi nella successione delle trasformazioni biologiche, un’incapacità, che, fosse irrefragabilmente dimostrata, imporrebbe, per cogenza scientifica, il bando di ogni molecola antiparassitaria. Fondato su dati analitici ineccepibili, il sillogismo contro la chimica è acuto e suadente, un sofisma dall’indiscutibile potere persuasivo.
Ma l’argomento più acuto con cui Aubert motiva la propria arringa è il
commento ai risultati dell’antica ricerca con cui due chimici dal nome russo
avrebbero dimostrato, operando, tra il 1925 e il 1940, in un laboratorio
svizzero, che le molecole organiche “artificiali”, nel caso studiato un
antiparassitario a base di mercurio, dotate di poteri tossici in dosi
quantificabili all’analisi, lo sarebbero egualmente a dosi omeopatiche, fino
alla trentesima diluizione decimale, un’entità al di là di ogni possibilità di
identificazione analitica. Gli antiparassitari manifesterebbero la propria
tossicità, quindi, a qualsiasi dose fossero ingeriti. L’asserzione propone un
argomento che imporrebbe il bando di qualunque molecola antiparassitaria: un
esperimento condotto negli anni Trenta da due chimici di perizia pure provata
non è sufficiente, peraltro, a smentire il caposaldo essenziale della
tossicologia, che stabilisce che è sempre la dose a determinare la tossicità di
una sostanza. Per ogni sostanza nociva la chimica stabilisce, cioè, la soglia
al di sotto della quale anche il veleno più potente può essere tollerato
dall’organismo. Aubert, che conosce bene il postulato, sostiene che esso
varrebbe solo per le molecole naturali, non per quelle la cui struttura sia
creazione dell’uomo.
Analizzata secondo la logica della scienza, l’asserzione si rivela il più brillante paradosso chimico. Come ogni paradosso, misurato nelle proprie conseguenze conduce a risultati assurdi: fosse fondato, l’umanità non sarebbe solo costretta, come postula Aubert, ad abbandonare l’impiego delle molecole antiparassitarie, dovrebbe rinunciare a tutti i prodotti della chimica, dalla benzina all’inchiostro tipografico, dai coloranti all’intera gamma dei medicinali, in assoluta maggioranza costituiti da molecole create in laboratorio. Non esiste, infatti, farmaco di cui, continuando ad accrescere la dose, non possa identificarsi la dose letale: ma se la sostanza tossica ad una dose elevata lo è altrettanto a dosi infinitesime, essendo probabilmente rare le molecole di sintesi per le quali non esista dose tossica, il consorzio umano non potrebbe trovare scampo che nel ritorno al regime di caccia e raccolta dell’età paleolitica.
Sono meno sottilmente seducenti le argomentazioni dell’agronomo francese
contro le sementi selezionate e contro le creature della genetica animale.
Contro le prime Aubert raccoglie una doviziosa messe di prove che dimostrano
che le varietà vegetali frutto della selezione più recente producono quantità
di sostanza secca percentualmente inferiori a quelle delle varietà
tradizionali, e che presentano tenori minori di aminoacidi essenziali e di
vitamine, un rilievo scontato, che perde ogni significato appena si rilevi che
tenori percentuali di sostanza secca, di aminoacidi e di vitamine, inferiori a
quelli delle piante tradizionali possono coniugarsi a rendimenti ettariali
tanto maggiori che le quantità di sostanza secca, di aminoacidi e vitamine prodotte
per unità di superficie risultino ampiamente maggiori. Lo straordinario balzo
dei consumi alimentari della popolazione europea, un balzo tanto quantitativo
quanto qualitativo, siccome consistente nell’uso di quantità superiori di
cereali, carne, latticini e ortaggi, e corrispondente a un ingente incremento
nell’ingestione di aminoacidi e di vitamine, non sarebbe stato possibile senza
l’incremento prodigioso dei rendimenti ettariali, che in Europa ha compensato
la crescita della popolazione e l’abbandono di superfici agrarie immense,
destinate alla riforestazione o convertite in autostrade, aeroporti, aree
industriali e residenziali.
Se l’appunto che Aubert dirige alle sementi ottenute con le nuove procedure di selezione, che l’autore francese rivolge soprattutto ai mais ibridi, di assicurare apporti insufficienti di elementi essenziali della dieta, prestava il fianco a obiezioni sensate alla data della redazione del testo francese, appare del tutto gratuito, se non addirittura banale, dopo tre decenni di progresso genetico, dopo che gli istituti che apprestano le sementi per i paesi dall’agricoltura più povera hanno dimostrato la possibilità di inserire nel genoma di specifici ceppi di mais, una pianta originariamente povera di aminoacidi essenziali e di microelementi metallici, gli enzimi che consentono l’accumulo, nella cariosside, degli aminoacidi e degli elementi metallici necessari a correggere la dieta della popolazione di regioni dove l’alimentazione presenti insufficienze letali dei medesimi elementi. Realizzando la soluzione di carenze che causano forme patologiche endemiche altrimenti irreparabili, a ragione dell’impossibilità della popolazione di acquistare alimenti diversi da quelli prodotti sulla propria terra, la genetica ha smentito categoricamente gli appunti di Aubert.
Ancora più semplicistici appaiono i rilievi dell’agronomo francese contro i
prodotti della selezione animale, quelle linee di polli, suini e bovini nel cui
organismo Aubert denuncia alterazioni biologiche tanto radicali da farne entità
incapaci di sopravvivere senza il costante ricorso alla veterinaria,
un’osservazione non priva di fondamento, siccome il perseguimento della
produttività più intensa induce gli allevatori a evitare agli animali il più
banale stato patologico, persino lo stato di sofferenza subclinico, ma che
viene proposta da Aubert supponendo la sanità degli animali di un tempo e la
salubrità dei loro prodotti. Una sanità, e una salubrità, che può proclamare
solo chi ignori i dati più sicuri della storia dell’allevamento, una storia di
epidemie, di malattie endemiche, di carni e latticini pullulanti di parassiti.
Tra pseudoscienza e stregoneria
Tra sette e tribù dei cultori di un’agricoltura alternativa a quella nata
dalla scienza moderna una menzione particolare impone quella i cui adepti
professano il credo predicato da Rudolf Steiner, il dotto tedesco che si proclamò fondatore di una filosofia nuova,
che definì “antroposofia”, che la materia dell’innumerabile messe di opuscoli e
saggi del vate impone di includere nell’antico, inesauribile fiume della
letteratura occultistica, teosofica, magica e cabalistica, un genere che
dall’inizio dell’arte della stampa ha ricolmato intere biblioteche, e le tasche
di stampatori e librai.
Nel proprio lucido, arguto volume sui fondatori delle più stravaganti
dottrine pseudoscientifiche degli ultimi cento anni Martin Gardner, matematico
e storico della scienza, ha tracciato un profilo di straordinaria penetrazione
dell’alfiere di una nuova dottrina scientifica, della logica delle sue
elucubrazioni, della premura di circondarsi di una scuola che è insieme setta
religiosa e azienda editoriale, impegnata a sfruttare la credulità di quanti
siano sedotti da un’idea che annulli le nozioni accumulate dalla conoscenza
umana dal tempo di Eraclito. Integra il profilo l’immancabile proclama
del profeta della nuova dottrina di essere perseguitato dalla scienza
accademica, che lo escluderebbe, per invidia, dai propri ranghi. L’esclusione
pare accendere l’estro del genio incompreso, che si rimette al giudizio dei
posteri, che non potranno che rigettare le conoscenze accumulate da Bacone a Boyle, da Pasteur ad Einstein, per professare la dottrina
enunciata dal maestro ignorato dai contemporanei.
Del fondatore di una dottrina e della setta che la professi descritto da Gardner, Steiner è rappresentante emblematico: sorprende, quindi, che lo studioso americano non lo abbia incluso nel proprio elenco di geni scientifici incompresi. L’omissione appare tanto più singolare siccome Gardner sottolinea il ruolo storico, tra i padri della pseudoscienza, di Wolfgang Goethe, poeta sommo, autore di una teoria dei colori frutto di elucubrazioni prive del supporto di qualsiasi indagine sperimentale, come rileva il pullulare di teorie pseudoscientifiche che precedette e accompagnò, in Germania, il trionfo del Nazismo, i cui gerarchi, Adolf Hitler per primo, professavano dottrine antropologiche aberranti, le dottrine “scientifiche” che portarono alle camere a gas, che più di uno dei gregari componeva alla familiarità con pratiche occulte, numerosi ai più inverosimili regimi vegetariani, motivati da incredibili elucubrazioni biologiche. Fu in quel clima che Steiner enunciò la propria dottrina, che proclamò costituire il completamento dell’opera scientifica di Goethe, e fu nella temperie pseudoscientifica in cui prosperarono i germogli della futura vertigine nazista che il veggente germanico raccolse i propri seguaci e dettò quel prontuario per una nuova agricoltura, l’agricoltura “biodinamica”, che ne avrebbe fatto, dimenticate le opere sull’iniziazione spiritica e gli incontri con Satana, il maestro di una delle più colorite tra le dottrine agricole “alternative”.
Per chi conosca la storia della scienza occidentale, per chi abbia
analizzato, soprattutto, le ipotesi fisiche e astronomiche con cui i maestri
del sapere greco, latino e medievale immaginarono che i poteri degli astri
determinassero tempi ed entità delle produzioni della terra, la dottrina
agraria di Steiner costituisce il più variopinto caleidoscopio di elucubrazioni
originali, frutto dell’immaginazione più feconda, e di concezioni remote, confusamente
combinate e costrette al più disordinato sincretismo. Basti ricordare che
l’astrologia agraria che i georgici greci avevano tratto dai testi astronomici
persiani identificava il fattore chiave delle influenze astrali sulle funzioni
biologiche nel movimento dei pianeti, che Virgilio attribuisce una funzione
preminente alle costellazioni dello Zodiaco, che sulle fondamenta di
un’ingegnosa interpretazione di Aristotele i dotti medievali attribuirono il
ruolo essenziale alla luna, nella quale additarono la mediatrice degli influssi
di tutte le stelle e di tutti i pianeti. Tra le dottrine astrologiche del
passato Steiner non sceglie lucidamente, mescola confusamente. Proclama che la
fertilità della terra sarebbe funzione delle influenze astrali che la permeano,
e si premura di insegnare all’agricoltore come procedere perché i suoi campi
assorbano la maggiore quantità di energia cosmica, convertendosi in autentici
accumulatori di forze siderali.
L’influenza degli astri sui corpi terrestri si dirigerebbe con maggiore o minore intensità, secondo Steiner, sui minerali, sui vegetali, sugli animali, ordinati, secondo l’occultista tedesco, in una gerarchia continua, nella quale alcuni minerali sarebbero tanto vicini ai vegetali, e alcuni vegetali tanto prossimi agli animali, che tra un sasso e un uomo sussisterebbe una successione continua di esseri intermedi. Attraverso le più ardite elucubrazioni pseudofisiche e pseudobiologiche dalla propria idea della gerarchia del mondo naturale Steiner desume la possibilità di catturare gli influssi astrali in parti di organismi animali ripieni delle parti di speciali vegetali.
Una vescica di cervo ripiena di certi fiori sarebbe il più funzionale
accumulatore di influssi cosmici, un’efficacia analoga presenterebbe un cranio
di bovino ricolmo di certe cortecce. Interrati in autunno, gli accumulatori
astrali di Steiner raccoglierebbero, durante l’inverno, il periodo di stasi
della vita, benefici raggi cosmici, che l’agricoltore potrebbe distribuire nei
suoi campi estraendo dal suolo, in primavera, i resti animali interrati e
cospargendo sui campi il prezioso putridume, tanto meno costoso, in tempi di
rincari quotidiani del greggio, del solfato di ammonio o del perfosfato di
calcio.
Per soddisfare esigenze diverse delle piante l’agricoltore potrebbe
raccogliere i raggi stellari in una tinozza d’acqua pura in cui dovrà versare,
al lume delle stelle, sabbia, il più inerte dei minerali, anch’essa tanto meno
costosa dell’urea e del nitrato di calcio, agitando con un ramaiolo acconcio.
La mescolanza di acqua e polvere di stelle manifesterebbe sulle piante i poteri
più straordinari. I procedimenti escogitati dal veggente germanico per
accrescere, dirigendovi il flusso degli astri, la fecondità della terra, non si
esauriscono nelle procedure menzionate: le pratiche menzionate impongono,
peraltro, l’obbedienza all’invito degli antichi saggi: Sed de hoc satis, ne
plus debito in re obscena laboremus.
Steiner non era agronomo, era un maestro di occultismo avventuratosi sul
terreno agrario per soddisfare la curiosità di alcuni adepti impegnati in
attività agricole. I postulati della sua dottrina sarebbero stati coordinati ad
autentiche conoscenze agronomiche da un discepolo dalle competenze più
pertinenti, Ehrenfried Pfeiffer, una vasta esperienza di conduzione di aziende
agrarie su entrambe le sponde dell’Atlantico, che in un libro baciato da un
successo scintillante e duraturo, La fecondità della terra, avrebbe integrato
la dottrina del maestro componendovi due elementi ugualmente significativi, il
primo di carattere etico e storico, il secondo di carattere più propriamente
scientifico.
Il primo consiste nell’enfatica contrapposizione tra una visione del mondo rurale preindustriale permeata di armonia, saggezza ed equilibrio, e l’immagine delle campagne moderne agitate dal demone del profitto, la forza oscura che infrangerebbe ogni ordine morale, sociale, economico. Si dissolvono, nella visione neobucolica di Pfeiffer, gli spettri che i testi meglio documentati sulla storia delle campagne europee attestano avere imposto la propria signoria al mondo contadino, prepotenza dei feudatari ed esosità della fiscalità regia, epidemie dell’uomo e del bestiame, analfabetismo e soggezione all’usura, risplende, nella visione onirica, l’armonia di un mondo in possesso delle sicurezze fondamentali per un’esistenza dignitosa e gratificante, le sicurezze che avrebbe infranto l’irrompere, nell’idillio rurale, degli imperativi del profitto. Il primo dei quali, l’incentivo a produrre di più, avrebbe innescato quelli correlati: la necessità di acquistare più macchine, sementi e concimi, scatenando una rincorsa tra spese e ricavi che avrebbe sottratto al coltivatore ogni certezza antica, ogni sicurezza, ogni tranquillità.
Il secondo dei motivi ispiratori di Pfeiffer, quello più propriamente
scientifico, è l’adesione alla moderna dottrina del suolo, la dottrina fondata
da un grande scienziato russo, Vassily Vassilievič Dokutchaev, e sviluppata da
una vasta schiera di discepoli russi, statunitensi, britannici. Chiave della
dottrina di Dokutchaev, la concezione del suolo come essere vivente,
costituendo ogni terreno la risultante di un processo vitale consistente delle
interazioni tra la roccia madre, peculiare secondo la collocazione geografica,
gli agenti del clima, specifici di ogni ambiente, i viventi vegetali, quelli
animali.
Originato da una combinazione peculiare di fattori pedogenetici, ogni
terreno presenterebbe, al momento della conversione, da parte dell’uomo, in
suolo coltivato, caratteristiche chimiche e biologiche peculiari: quelle
caratteristiche costituiscono i cardini della sua fertilità, che, trasformato
il terreno vergine in arativo, l’uomo dovrebbe conservare quale condizione
perché il suo sfruttamento possa protrarsi nel tempo. Alla costante
rigenerazione della fertilità che si verifica, naturalmente, nei suoli vergini,
l’agricoltore deve sostituire, quindi, un novero di operazioni capaci di conservare
il capitale naturale di cui si è appropriato. L’agricoltura moderna, fondata
sull’impiego dei fertilizzanti, costituirebbe la violazione più palese
dell’imperativo alla conservazione della vitalità della terra, che le sue
procedure destinerebbero alla sterilità.
Per provvedere alla rigenerazione sistematica della fertilità, proscritte le
pratiche agrarie di adozione recente, Pfeiffer suggerisce una metodologia che
corrisponde, fondamentalmente, ai canoni dell’agronomia classica, fondata sulla
rotazione e sull’allevamento, la metodologia che ha conosciuto, abbiamo
rilevato, il proprio codificatore in Albrecht Thaer, integrata dall’impiego dei
preziosi preparati di Steiner, mesenteri animali e foglie di tarassaco, di cui
Pfeiffer riconosce gli effetti prodigiosi nella conservazione del patrimonio di
fertilità del suolo.
Rifondare la filosofia dell’Occidente
Nella storia dei tentativi di definire fondamenta scientifiche originali
sulle quali costruire l’edificio di una nuova agricoltura fissa una data significativa
la pubblicazione del volume che Miguel Altieri propone, nel 1987, negli Stati
Uniti, con il titolo di Agroecology, che un editore padovano traduce, nel 1991,
presentandolo, con le parole altisonanti del curatore, come “la bibbia e il
manuale della nuova agricoltura”, due titoli che il testo vanterebbe siccome
della nuova agricoltura proporrebbe, secondo il medesimo curatore, “i
fondamenti scientifici e filosofici”.
Per assicurare il conseguimento di obiettivi tanto ambiziosi l’autore ha
affidato i due capitoli iniziali ad una studiosa di letteratura agronomica,
Susanna Hecht, e ad un cultore di studi epistemologici, Richard Norgaard, che
negli stessi capitoli si producono in quello che, nella composita, e
solitamente ripetitiva, letteratura sull’agricoltura “alternativa”, deve
probabilmente considerarsi lo sforzo più impegnativo di fondare filosoficamente
i cardini dottrinali delle procedure di cui Artieri auspica la sostituzione
alle pratiche dell’agricoltura tradizionale dell’Occidente.
Enucleando l’essenza delle argomentazioni non del tutto lineari dei
coadiutori di Altieri verifichiamo che esse propongono due caposaldi, uno
infisso nel terreno della storia della scienza, uno in quello della storia
dell’agronomia. Il primo consiste nell’asserzione che la scienza occidentale,
la scienza di cui, ignorando Bacone e Galileo, Norgaard identifica il padre in
Newton, avrebbe convertito l’universo, totalità di elementi in cui ogni entità
fisica e chimica è correlata a tutte le altre, in macchina costituita da mille
meccanismi indipendenti, ciascuno, da tutti gli altri. Il secondo consiste
nell’identificazione della storia dell’agricoltura occidentale nella storia
della monocultura, una peculiarità che porrebbe l’agricoltura occidentale in
stridente contrasto con quella dei popoli primitivi, in primo luogo quelli
viventi nelle aree tropicali, che avrebbero elaborato cento sistemi colturali
diversi, associati dalla caratteristica comune di proporre contesti di piante
di grande varietà, cento combinazioni, in paesi, climi e suoli diversi, di
mille specie e varietà coltivate, accudite secondo procedimenti molteplici
quanto molteplici risulterebbero le associazioni di clima, terreno e specie
vegetali.
Impiegati congiuntamente, gli assiomi dell’analisi di Norgaard e Hecht spiegherebbero, innanzitutto, come l’agronomia occidentale, una disciplina figlia, anch’essa, della meccanica di Newton, avrebbe conseguito la capacità di realizzare, su un ettaro di terra, produzioni astronomiche di mais, grano o barbabietole, nell’assoluto disinteresse per tutte le conseguenze indirette di quella produzione. Quelle conseguenze, l’inquinamento delle falde, lo sterminio delle specie vegetali e degli insetti costituenti flora e fauna spontanea, sarebbero tanto gravi da indurre a prevedere l’impossibilità di protrarre oltre limiti temporali angusti uno sfruttamento tanto intensivo e innaturale delle risorse agrarie.
Essi spiegherebbero, in secondo luogo, il disprezzo dell’agronomia europea
per i sistemi agricoli dei popoli primitivi, ancora in larga misura praticati
nei paesi dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina, tutti frutto
dell’intelligente interazione tra l’azione dell’uomo, le costanti climatiche,
la natura dei suoli, le varietà coltivabili a disposizione, le specie spontanee,
vegetali e animali, viventi in competizione a quelle coltivate. Se Newton ha
fondato una visione inverosimile della realtà naturale, da quella visione
l’agronomia europea avrebbe ricavato le coordinate di una scienza letale, che
mostrerebbe la propria irrazionalità appena la si comparasse alle agricolture
dei popoli “selvaggi”, ispirate a perfetta razionalità naturalistica.
La conseguenza capitale della duplice constatazione sarebbe la necessità di
sostituire all’agronomia classica una nuova disciplina, l’agroecologia, una
scienza impegnata a considerare tutte le interazioni dell’attività agricola, in
ogni campo coltivato, con il clima, il suolo, i vegetali spontanei e gli
animali che competono con l’uomo per appropriarsi del prodotto. La nuova disciplina
dovrebbe considerare, ancora, i fattori culturali e sociali che condizionano
l’opera del coltivatore, quindi il patrimonio delle conoscenze tradizionali, i
rapporti di proprietà e di uso della terra, la disponibilità di capitali, un
insieme di fattori che l’agronomia occidentale non avrebbe mai considerato.
Le ragioni filosofiche addotte a dimostrare la necessità di fondare la nuova
auspicata scienza non possono non indurre a riflettere, ma la riflessione sui
due testi non può che confermare la schematicità della visione epistemologica
di Norgaard, la sostanziale ignoranza, da parte della Hecht, della storia
dell’agronomia europea. Il primo, infatti, epistemologo dalle propensioni
semplificatrici, pare immaginare che i padri della scienza occidentale ritenessero
realmente il mondo la sommatoria di mille fenomeni indipendenti. Né Galileo né
Bacone, né, aggiungiamo, Cartesio, erano tanto ingenui da pensare il mondo come
una macchina sospinta da cento impulsi indipendenti: proposero di considerarlo
tale per potere analizzare ogni fenomeno, isolandolo sperimentalmente, così da
identificarne il meccanismo, intuendo che la comprensione delle leggi che
regolano i fenomeni più semplici avrebbero permesso di mirare alla comprensione
dei fenomeni più complessi, quelli che metodologicamente possono considerarsi
la sommatoria di una molteplicità di fenomeni semplici, la cui legge consiste
nel risultato aritmetico dell’operatività di una pluralità di leggi diverse.
E’ in questa astrazione metodologica la ragione della diversità della scienza occidentale da tutte le concezioni scientifiche elaborate da popoli differenti alle latitudini diverse del tempo e del planisfero. La scelta metodologica dell’astrazione ha certamente determinato una visione semplificata del mondo naturale, ma la semplificazione ha mostrato una straordinaria proficuità pratica, e solo chi non conosca che in superficie la storia della filosofia occidentale può, scambiando il mezzo con il fine, dichiarare che la visione dell’universo del pensiero occidentale sia schematica e meccanica.
Anche la dinamica dei sistemi, la metodologia che mira a descrivere
l’interazione di serie di fenomeni di natura diversa, fisici, chimici,
biologici, è creatura genuina della scienza occidentale. Può meravigliare che
non sia stata escogitata da Newton, o da Leibniz, solo chi non percepisca che
per renderne possibile il concepimento, se non la concreta applicazione, era
necessaria una mole immensa di scoperte preliminari nelle sfere specifiche
dello scibile scientifico, di cui sarebbe stato impossibile comporre i
risultati prima che ciascuna avesse raggiunto, astraendo e isolando, il livello
di conoscenze che la scienza ha raggiunto a metà del Ventesimo secolo.
Ma ricondotta la dinamica dei sistemi alla matrice della scienza occidentale,
anche l’esigenza di escogitare una scienza nuova, l’agroecologia, che a
differenziare, epistemologicamente, dall’agronomia classica, sarebbe il ricorso
ai metodi della dinamica dei sistemi, con la considerazione di tutte le
interrelazioni della coltivazione con l’ambiente naturale, i vegetali spontanei
e gli animali parassiti, perde la propria cogenza. Conferma il rilievo la
lettura di qualunque testo agronomico dell’Ottocento, composizione di
cognizioni di chimica del terreno, di fisiologia vegetale, di climatologia, di
meccanica e di economia. Il procedere delle conoscenze ha prodotto come
risultato, che al manuale ottocentesco si sia sostituito il contesto di sei
manuali diversi. Ma qualunque corso di laurea in scienze agrarie impone allo studente
di studiare i sei volumi: licenziato da una facoltà decorosa nessun agronomo
può ignorare le conoscenze per associare le quali all’agronomia il nuovo
Galileo stabilisce la necessità di una scienza nuova.
Ma se il profilo della scienza occidentale di Norgaard è candidamente ingenuo, l’idea della storia dell’agronomia occidentale della Hecht non può che definirsi semplicistica. La storia dell’agronomia occidentale non è, infatti, la storia della monocultura, è la storia della rotazione, e dell’integrazione, attraverso la rotazione, delle colture e degli allevamenti. Può convertirla nella storia della monocultura solo chi ignori venti secoli di pensiero agronomico e, non conoscendo che gli scritti agronomici degli ultimi cinquant’anni, faccia di quegli scritti il pensiero agronomico dell’Occidente. Chi proclami che la storia dell’agronomia europea sarebbe la storia della monocultura, semplicemente ignora la storia dell’agronomia europea.
Può ascriversi, forse, ad attenuante della Hecth, la matrice statunitense:
l’agricoltura degli Stati Uniti precedette di cento anni quella europea
nell’opzione della monocultura, e in una facoltà agronomica americana ci si può
professare storici dell’agricoltura credendo che l’agronomia sia nata con la
monocultura. Così è stato dalla conquista del West. Ma il riconoscimento
dell’attenuante richiede una speciale benevolenza: chi si propone come studioso
di una disciplina, e argomenta delle differenze tra la concezione agraria
dell’Occidente e quelle dei popoli primitivi, non dovrebbe limitare le proprie
conoscenze dell’agronomia occidentale a quella del proprio paese negli ultimi
cento anni. Si deve scrivere cento, non si può neppure scrivere centocinquanta,
siccome la storia dell’agronomia americana dimostra che nel 1850, tributando un
successo clamoroso alle traduzioni del capolavoro di Liebig, gli agronomi
statunitensi si reputavano ancora partecipi della cultura agronomica europea:
gli agricoltori dell’Unione stavano già dimostrando le propensioni per la
monocultura, quelle propensioni che avrebbero dato corpo all’agricoltura
occidentale della seconda metà del Novecento, ma gli studiosi di agricoltura
non avevano ancora enucleato da quelle preferenze gli assiomi di un’agronomia
diversa da quella europea.
Avesse letto i capolavori della disciplina di cui si proclama cultrice, le opere agronomiche del Cinquecento, del Seicento e del Settecento, inglesi, italiane, tedesche, Susanna Hecht non avrebbe sostenuto la necessità di creare una scienza nuova per comprendere nella considerazione dell’agronomia i fattori economici e sociali che l’agronomia occidentale avrebbe sempre trascurato. Tutti gli alfieri della disciplina, dal fondatore dell’agronomia occidentale, il latino Columella, di cui non si può pretendere la conoscenza da parte di una studiosa americana, ai successori, Agostino Gallo, Olivier de Serres, Arthur Young, Albrecht Thaer e Adrien de Gasparin, hanno dedicato alle considerazioni sociali ed economiche un’attenzione non inferiore a quella rivolta ai fenomeni biologici. Nei decenni più recenti, nel contesto complessivo degli studi agrari l’economia è stata separata dall’agronomia, senza dubbio per quell’esigenza di distinguere le sfere di indagine che è, abbiamo annotato, peculiarità precipua della scienza occidentale, ma che conoscenze diverse siano disposte in tomi differenti non consente di supporre che chi ha scritto il manuale di agronomia non abbia letto quello di economia agraria. Altieri reputa la lettura di sei libri impegno sovrumano? Vuole tutta la scienza compendiata in un volume unico? Legga gli agronomi dell’Ottocento: sarà incantato dalla loro poliedricità. Non proclami la necessità di fondare una nuova scienza perché non ha il tempo per leggere sei libri. E per i propri problemi epistemologici cerchi persona più competente del professor Norgaard: qualunque bibliotecario competente gli offrirà un aiuto più pertinente.
Seppure abbia affidato ai due collaboratori il compito di fissare i
postulati essenziali, filosofici e storici, della scienza che intende fondare,
l’alfiere dell’Agroecologia non manca, nei capitoli che stila personalmente, di
aggiungere, agli argomenti che dimostrerebbero l’urgenza di edificare la nuova
disciplina, ragioni ulteriori, ragioni più specificamente agronomiche. Addita
la più significativa nella constatazione dell’insuccesso che sarebbe seguito al
trapianto delle pratiche dell’agronomia occidentale nei continenti dalle
tradizioni diverse. Dovunque fosse stata trapiantata, l’agronomia occidentale
non avrebbe prodotto che indebitamento dei contadini e sottoalimentazione.
L’asserzione suscita un appunto, il rilievo dell’arbitrarietà di denunciare il fallimento dell’agronomia occidentale nei continenti estranei alla civiltà europea senza considerare che Asia, Africa e America meridionale non hanno adottato, nell’ultimo secolo, solo l’agronomia europea, ma l’intero contesto della scienza dell’Occidente, quindi la medicina europea, con il suo potere di ridurre drasticamente, con vaccini e antibiotici, la mortalità umana, in specie quella infantile, la fisica e l’elettronica, quindi le fondamenta teoriche per produrre automobili e televisori, e la chimica, quindi la tecnologia per produrre fertilizzanti e materie plastiche. E con la scienza europea le società asiatiche, africane, latinoamericane, hanno adottato ragioni e parametri di vita europei, primo tra gli altri il ripudio dell’agricoltura di autoconsumo, e l’impulso alla produzione di grandi quantità di derrate per alimentare i mercati delle città, dilatatesi senza misura proprio a ragione dell’adeguamento ai moduli economici occidentali.
Che la diffusione del modello della civiltà occidentale, forse la più
radicale rivoluzione della storia, sia stata bene o male è arduo stabilire:
mutando i criteri, etici, politici, economici, secondo cui si tenti un
giudizio, esso può mutare radicalmente. Una risposta categorica può formulare
solo chi abbia il dono di convincimenti filosofici esenti da ogni dilemma. Non
conosce dilemmi Altieri, che professando il più accorato rimpianto per le
società dell’autoconsumo, pronuncia l’arringa più cruda contro l’agronomia
occidentale, l’agronomia che consente a tre agricoltori di alimentare
novantasette abitanti delle città. L’idillio, che vagheggia, della famiglia
indiana che vive, con il bufalo, dei prodotti di un fazzoletto di risaia, è
seducente, ma quale agroecologo dovrebbe considerare, secondo i canoni della
nuova scienza, gli elementi economici, giuridici, sociali dell’attività
agricola, e considerandoli dovrebbe riconoscere che la famiglia dell’idillio viveva
nella cieca soggezione ai notabili locali, nella schiavitù all’usura, alla
mortalità infantile a due cifre, alle epidemie ricorrenti di tifo, vaiolo,
colera. Si può ritenere che la soggezione al marajà e al vaiolo fosse ripagata
dall’assenza della schiavitù all’automobile e alla televisione, ma accetterebbe
di vivere, il professor Altieri, senza automobile e senza televisione?
La prova capitale del fallimento dell’agronomia occidentale sui continenti cui sarebbe stata tradizionalmente estranea sarebbe, secondo Altieri, l’insuccesso della Rivoluzione Verde, la diffusione delle sementi selezionate dall’americano Norman Bourlaug in Messico, a metà degli anni Sessanta, in Asia, soprattutto in India e in Cina, in Africa e in America meridionale. A dimostrare quell’insuccesso Altieri cita un profluvio di autorevoli studiosi che avrebbero dimostrato che quelle sementi non sarebbero risultate più produttive di quelle tradizionali, che si sarebbero dimostrate capaci di svilupparsi solo sui suoli migliori, che avrebbero favorito i coltivatori ricchi, in grado di acquistare motopompe e concimi, che sarebbero state investite da disastrose fitopatie, causa di apocalittici tracolli produttivi.
E’ indubitabile che tanta folla di studiosi non abbia denunciato fenomeni
immaginari: gli inconvenienti che elencano sono stati eventi gravi, hanno
provocato, in una regione o in un’altra, in un anno o in quello successivo,
situazioni di penuria e di crisi. Al di là, tuttavia, dell’obiettività dei
rilievi, sorprende come tale consesso di scienziati, e lo studioso che ne
riassume il pensiero, non abbiano operato la considerazione elementare che Cina
e India, le due e protagoniste della Rivoluzione Verde, contavano, prima del
suo inizio, una popolazione complessiva appena superiore al miliardo, che
viveva di una disponibilità alimentare, rispettivamente, di 1.636 e di 2.073
calorie quotidiane, che al termine della vicenda hanno ampiamente superato,
insieme, i due miliardi di abitanti, un terzo dell’umanità, e che quegli
abitanti possono contare, oggi, su disponibilità alimentari equivalenti,
rispettivamente, a 2.972 e a 2.466 calorie al giorno.
Si può serenamente sfidare il professor Altieri, e lo stuolo degli studiosi
di cui cita il pensiero, a dimostrare che l’immane mutamento di disponibilità è
stato dovuto a eventi diversi dalla Rivoluzione Verde. Non crede alla
veridicità delle cifre? L’abisso tra le serie di dati è tale che, fossero
errate le stime di tutti gli organismi internazionali, la genetica vegetale
moderna, elemento integrante dell’agronomia occidentale, matrice della
Rivoluzione Verde, avrebbe comunque prestato un contributo determinante
all’aumento delle produzioni che l’umanità ha preteso, negli ultimi
cinquant’anni, dai suoli coltivati su tutto il Pianeta.
Avrebbero potuto fornire un contributo equivalente i sistemi agricoli delle
popolazioni primitive, quelli che Altieri rimpiange tanto accoratamente? La
risposta non può che essere categoricamente negativa: ecologicamente
ammirevoli, forse perfetti, quei sistemi, frutto di sedimentazione millenaria,
non erano sprovveduti di capacità di evoluzione, ma i loro tempi di evoluzione
erano tempi secolari: alla triplicazione della produzione cerealicola che ha
accompagnato, fortunosamente quanto si voglia, il raddoppio della popolazione
umana negli ultimi cinquant’anni non avrebbero potuto prestare che un
contributo assolutamente marginale.
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