di Antonio Saltini
2ª parte
Saggezza orientale e abbandono alle forze naturali
Presenta una singolare sineresi di rigetto della scienza sperimentale e di
impiego dei canoni della più rigorosa sperimentazione agronomica, in una
commistione singolare di scienza e di filosofia, la dottrina di Masanobu
Fukuoka, il ricercatore giapponese che dopo avere operato in un laboratorio
di fitopatologia a fianco di un maestro famoso decide, a seguito di un
mancamento-illuminazione, di abbandonare la scienza per tornare a coltivare il
podere del padre, sul quale definirà, in lunghi anni di ricerca, un sistema di
coltura che riduce, fino quasi ad eliminarli, gli interventi agronomici,
aratura, zappature, sarchiature, ed esclude completamente quelli chimici, il
sistema che propone, nel 1975,
in un volumetto destinato a suscitare interesse nei sei
continenti, nella traduzione italiana La rivoluzione dello stelo di paglia.
I mancamenti-illuminazione hanno svolto un ruolo ingente nella storia
spirituale e politica dell’umanità: fu a seguito di un oscuramento della
presenza cosciente, e di un’escursione nel mondo soprasensibile, che Gauthama Siddartha concepì la dottrina di
ascesi che avrebbe orientato la storia spirituale delle due nazioni più popolose
del Globo, fu dopo un evento similare che Maometto concepì la religione la cui
carica guerriera avrebbe modifica l’assetto geopolitico di due continenti, che
René Descartes intuì i principi della filosofia che avrebbe segnato, con la
nascita del pensiero moderno, il fato dell’Occidente.
Per prossimità geografica, nella storia delle estasi decisive per la storia
umana quella di Fukuoka fu più vicina a quella di Budda che a quelle degli
altri grandi del pensiero e della mistica. Riavutosi dall’obnubilamento, il
ricercatore giapponese comprende di avere acquisito una verità capitale: l’uomo
sarebbe incapace di comprendere la natura, la scienza sperimentale, una forma
di conoscenza tipicamente occidentale, adottata dalla cultura asiatica
nonostante l’incompatibilità con la propria tradizione filosofica, non
offrirebbe quella chiave di comprensione del mondo naturale che pretenderebbe
di assicurare, le pratiche tecnologiche derivate, per sfruttare le risorse
naturali, dalla scienza occidentale, costituirebbero violazione imperdonabile
dell’ordine del Cosmo. Tornato al podere paterno “ai piedi della montagna” si
dedica alla ricerca di metodi di coltivazione in cui siano i vegetali e gli
animali a produrre, con il grado minore di interferenze umane, le derrate necessarie
ai bisogni alimentari.
Mosso da un’intuizione filosofica, ma dotato del bagaglio della più
efficiente sperimentazione agronomica, Fukuoka congegna un insieme di pratiche
di sorprendente efficacia e di evidente produttività, pratiche disegnate in modo
precipuo per le specie coltivate e per le condizioni climatiche dell’ambiente
giapponese, quindi di difficilissima estrapolazione in ambienti diversi, ove a
realizzarne la traduzione non siano sperimentatori dotati delle stesse capacità
tecniche del maestro, che, rigettando la scienza europea, ha conservato le
capacità sperimentali acquisite in un’istituzione di sperimentazione agraria di
inequivocabile matrice occidentale.
Rilevata l’originalità delle procedure agronomiche del saggio nipponico non
si può non notare che le ragioni scientifiche che Fukuoka adduce a spiegarne
l’efficacia, ragioni che enuncia in coerenza alle proprie intuizioni
filosofiche, non sono in grado di sostenere il confronto con concetti di cui la
storia dell’agricoltura ha fornito la dimostrazione inoppugnabile. Il maestro
orientale proclama, infatti, la possibilità di realizzare il massimo di
produttività con le interferenze più modeste con le forze della natura, e
addita nella lavorazione del suolo, in specie nell’aratura, l’esempio degli
interventi umani superflui, ove non dannosi, un’asserzione in contrasto con un
postulato essenziale della storia dell’agricoltura e della stessa civiltà, la
constatazione che l’introduzione dell’agricoltura, che comporta una
manipolazione delle risorse drasticamente più radicale della raccolta dei
frutti spontanei, fu realizzata dall’uomo, in età neolitica, al fine,
pienamente conseguito, di ricavare dalla terra una quantità di alimenti
maggiore di quella che essa offriva spontaneamente, e che la lavorazione del
suolo, in Medio Oriente l’aratura, costituì la prima, e fondamentale, di tutte
le pratiche agricole, lo strumento cardinale per ripristinare la fecondità dei
campi esaurita dopo una serie di raccolti.
L’azienda agricola organismo biologico
Nel novero dei maestri impegnati a offrire le coordinate conoscitive per
apprestare pratiche agronomiche che possano prescindere dagli strumenti della
chimica deve essere incluso un agronomo italiano, Francesco Garofalo, un
passato, anch’egli, di ricercatore nelle istituzioni della sperimentazione
agraria, quindi il ripudio dell’agricoltura tradizionale e la conversione ad
un’agronomia alternativa, la sperimentazione di nuovi metodi e un’appassionata
opera di proselitismo, svolta pubblicando la rivista Suolo e salute e
costituendo, con la medesima denominazione, il primo movimento italiano per
un’agricoltura senza fertilizzanti e senza antiparassitari di sintesi.
La dottrina agronomica di Garofalo costituisce, sostanzialmente, la
riproposizione delle idee che Alfonso Draghetti, direttore della Stazione
agraria di Modena tra gli anni Quaranta e gli anni Cinquanta, ha raccolto in un
volume che può essere considerato manifesto postumo della rivoluzione agraria
moderna, La fisiologia dell’azienda agraria. Nata in Inghilterra, a metà del
Seicento, all’affermarsi di una pratica che stabiliva legami indissolubili tra
le coltivazioni e gli allevamenti attraverso le colture foraggere, demandate
della duplice funzione di migliorare la fertilità dei campi grazie alle peculiari
proprietà biologiche e attraverso la disponibilità di letame che assicuravano
come sottoprodotto delle derrate zootecniche, la nuova agricoltura fondata su
quell’integrazione consentiva un incremento dei rendimenti cerealicoli tale da
moltiplicare la produzione di frumento e orzo nonostante i due cereali fossero
seminati su superfici minori, assicurava, mediante l’abbondanza di foraggi
durante l’intero arco dell’anno, la produzione di derrate animali che l’azienda
poteva dirigere ai nuovi mercati urbani, in Inghilterra famelici di burro, di
carne di agnello e di maiale.
Sospinta, in Inghilterra, dal contributo di decine di agronomi, ciascuno
impegnato a confrontare i risultati di cento esperienze empiriche,
l’agricoltura delle rotazioni trovava il proprio alfiere in Arthur Young, protagonista, nell’ultimo scorcio del Settecento, di
un’irrefrenabile serie di viaggi tra le contee del Paese, nelle quali
verificava la sostituzione delle nuove pratiche a quelle della tradizione.
Animato dallo spirito empirico tipico della cultura britannica, Young era
incapace di ricavare dalla miriade di esperienze registrate nelle proprie
relazioni una teoria organica delle rotazioni, la meta che perseguiva il suo
continuatore tedesco, Albrecht Thaer, che, animato dalla venerazione per
il maestro britannico, ma in possesso delle attitudini peculiari della cultura
germanica, sistematica e teorizzante, pubblicava, tra il 1809 e il 1812, i
quattro libri delle Grundsätze der rationellen Landwirtschaft, il
capolavoro teorico con cui la scienza agronomica identificava gli obiettivi
della rivoluzione agraria moderna, ne enucleava i principi, ne analizzava le
procedure.
Thaer formulava la propria dottrina prima che le conoscenze chimiche
permettessero di misurare gli scambi di sostanze fertilizzanti tra la stalla e
i campi, le asportazioni delle colture cerealicole, gli apporti di quelle
foraggere: maturate, nella prima metà dell’Ottocento, quelle conoscenze,
affrontavano l’esame quantitativo di quegli scambi i dioscuri della
sperimentazione inglese negli anni del primato economico, manifatturiero e
scientifico della Gran Bretagna, Henry Gilbert e John Lawes, i protagonisti
dell’epopea sperimentale della Stazione di Rothamsted, sede del più famoso
piano di indagini sulle rotazioni della storia dell’agronomia.
Dopo avere protratto per un cinquantennio, sui medesimi appezzamenti, le
stesse colture in successione continua e, su altri appezzamenti, le medesime
colture in rotazione, i due agronomi inglesi potevano definire con misure
rigorose, in un volume pubblicato nel 1895, le quantità di ogni elemento
chimico asportate da ciascuna coltura per ogni diverso livello di produzione,
quelle degli elementi chimici restituiti al suolo mediante il letame,
componendo, per ogni rotazione, la sommatoria algebrica degli apporti chimici
effettuati mediante i fertilizzanti, dei contributi positivi dovuti alla
fissazione di azoto da parte delle leguminose, delle asportazioni operate dalle
colture, delle sottrazioni prodotte dalle piogge, dell’asportazione che
consegue la vendita delle derrate. Nel volume che enucleava i risultati di
cinquant’anni di ricerche, i dioscuri della sperimentazione britannica
enucleavano il significato del proprio lavoro suggerendo di considerare
l’azienda agricola autentico organismo vivente, che si alimenta delle risorse
del terreno e degli apporti fertilizzanti, rinnovando la fertilità da cui ne
dipende la vitalità nel processo circolare tra le colture foraggere, la stalla,
la concimaia, le colture cerealicole.
E’ l’idea dell’azienda-organismo, che Alfonso Draghetti fa propria a metà
del Novecento, quando si manifestano i primi segni delle trasformazioni
economiche che ridurrà drasticamente, nelle campagne europee, la molteplicità e
la complessità delle rotazioni a favore della più radicale semplificazione
culturale, elidendo, con le rotazioni, quella complementarità tra colture e
allevamenti che ha costituito il cardine della rivoluzione agraria. Sospinge la
storica trasformazione il trionfo dell’economia industriale, che, elevando il
costo della manodopera, e comprimendo il valore delle derrate agricole nei
confronti di quelle industriali, impone la meccanizzazione di tutti i processi
produttivi, rendendo economicamente impossibile il mantenimento di una piccola
stalla in ogni azienda, costringendo le aziende che non si specializzino
nell’allevamento, convertendosi in allevamenti industriali, a rinunciare al
bestiame, quindi al letame.
Alfonso Draghetti è sperimentatore valente: ha verificato la consistenza
della propria dottrina realizzando un piano sperimentale di ammirevole
coerenza. Scelta un’azienda dal suolo depauperato dal protrarsi delle pratiche
di rapina di un affittuario privo di scrupoli contrattuali e di accortezza
agronomica, vi ha introdotto la migliore rotazione padana, ricavandone la
dimostrazione che riducendo la superficie destinata ai cereali e dilatando
quella destinata alla medica la nuova disponibilità di letame ripristina un
livello di fertilità che consente di produrre una quantità maggiore di cereali
su una superficie ampiamente inferiore, e permette di aggiungere al reddito dei
cereali i nuovi ingenti ricavi della stalla. Da un piano sperimentale di
ammirevole eloquenza la conferma della validità del teorema capitale della
rivoluzione agraria moderna.
Sperimentatore accorto, il direttore della Stazione agronomica di Modena non
è, tuttavia, maestro di storia delle teorie agronomiche, e la modestia delle
cognizioni storiche gli consente di presumere l’originalità di una concezione
le cui formulazioni hanno ricolmato, nel corso dell’Ottocento le biblioteche
agronomiche. Convinto di proporre una dottrina originale, espone le proprie
idee in forma immaginifica, nel volume il cui titolo suggerisce l’idea che
l’azienda agricola sia essere vivente, analizzando i flussi di sostanze
nutritive tra i campi, il fienile, il letamaio ed i prodotti immessi sul mercato
come la circolazione del sangue e dei principi chimici tra l’apparato
digestivo, il cuore e gli organi diversi del corpo. Ma descrivere l’azienda
agricola come entità vivente equivale ad impiegare la metafora più suggestiva
per gli spiriti inquieti alla ricerca di una pratica agraria che operi in
perfetta sintonia con i processi naturali. Quale concezione agronomica potrebbe
proporre, a chi vagheggia un’agricoltura “biologica”, credenziali più sicure di
quella che propone di stabilire tra i campi, la stalla e i granai un processo
che ricalcherebbe perfettamente il meccanismo di digestione-circolazione che si
realizza in tutti i viventi?
Nella scelta di Francesco Garofalo di ricalcare Draghetti la scelta coerente
di connettere la pratica agraria nuova alla più solida tradizione della
rivoluzione agraria: una scelta di indiscutibile dignità scientifica. Primo,
tuttavia, tra i teorici italiani dell’agricoltura alternativa Garofalo non vede
le proprie idee diffondersi in relazione al dilatarsi delle istanze di una
produzione alimentare liberata dai fantasmi della chimica: tra gli adepti del
rinnovamento agronomico il numero più significativo è costituito, infatti, da
neoagricoltori di matrice urbana, del tutto incapaci di cimentarsi
nell’allevamento del bestiame, il cui governo richiede attitudini che è
difficile acquisire in assenza della dimestichezza sviluppata durante
l’adolescenza. I neofiti dell’agricoltura alternativa indirizzano le proprie
energie, ed i mezzi economici di cui possano disporre, alla realizzazione di
colture cerealicole, orticole e alla viticoltura. Incredulo e amareggiato,
Garofalo vede la propria dottrina, di cui, dotato di buona cultura agronomica,
misura le ascendenze scientifiche, respinta a favore di una pratica priva di
ogni fondamento teorico,vede il sodalizio che ha fondato, il più antico dei
cenacoli della nuova agricoltura, disertato a favore di una miriade di tribù
diverse, che in chiassosa contrapposizione contendono le adesioni degli adepti
del credo fondato sull’abiura della chimica, che si impegnano a beneficare, con
una chiassosa azione politica, di copiosi sussidi pubblici.
Arrestare l’apocalisse agricola
Tra le scuole dell’agricoltura alternativa affermatesi in Europa titoli di
particolare prestigio vanta quella fondata da Raoul Lemaire, un docente di
discipline agronomiche che matura, all’alba degli anni Sessanta, il rifiuto
delle tecniche dell’agricoltura moderna facendosi alfiere del ritorno alle
pratiche della tradizione. Contribuisce a trasformare le intuizioni del maestro
in metodologia agronomica organica il primo collaboratore di Lemaire, anch’egli
docente di materie agrarie, Jean Boucher. Codifica in un libro di successo,
all’alba degli anni Settanta, la dottrina dei dioscuri dell’agricoltura
“biologica” francese il più brillante dei discepoli, Antoine Ayrault de Saint
Hénis.
Il volume di Saint Hénis, Guide pratique de culture biologique, non è solo
il manuale che illustra una nuova tecnica agronomica, è il manifesto per la
creazione di un movimento che si opponga alla trasformazione dell’agricoltura
francese nel sistema tecnologico e mercantile di cui alla fine degli anni
Sessanta si intravede già chiaramente la fisionomia. Di quel manifesto sarebbe
difficile comprendere il significato ignorando la solidità delle tradizioni del
mondo rurale francese, da secoli fiero della propria cultura, una cultura non
meno carica di valenze spirituali che di conoscenze tecniche, ignorando,
insieme, l’orgoglio con cui quel mondo rurale è impegnato, dagli anni Sessanta,
a rinnovare pratiche agronomiche e strutture commerciali, sospinto
dall’ambizione di imporre l’agricoltura dell’Esagono come la più possente
macchina produttiva del quadro europeo.
Ma la conversione che Nation ha intrapreso nel segno della grandeur agricole
rivestirebbe, per Lemaire e Boucher, i caratteri dell’autentica catastrofe. Di
fronte a un contesto rurale in cui valori e tradizioni della paysannerie sono
rigettati con la trasformazione degli antichi fermiers in imprenditori che
usano macchine poderose e calcolano il profitto di ogni coltura, i due docenti
francesi, genuini spiriti tradizionalisti, sono assaliti dall’orrore: assistono
con raccapriccio all’allargamento senza limiti delle aziende, all’abbandono
della campagna da parte degli agricoltori che quell’allargamento non riescono
ad operare, alla dilatazione degli appezzamenti, osservano con sgomento la
sostituzione dell’antica molteplicità di produzioni aziendali con una sola, al
massimo due colture, l’abbandono delle antiche sementi per le nuove varietà
ibride, la selezione di bestiame sempre più produttivo, il trionfo della chimica,
che riversa sui campi quantità crescenti di fertilizzanti e antiparassitari. I
traguardi che i ministri dell’agricoltura, i tecnici e i responsabili sindacali
menzionano come prove del successo di una strategia di progresso sono, per i
due paladini del passato rurale, le prove della deluge che avanza inesorabile.
Alfiere appassionato del pensiero dei maestri, nel proprio volume Saint
Hénis proclama, a dimostrazione dei danni del progresso, che le nuove procedure
avrebbero diffuso nei campi piante tanto sensibili ai parassiti che le
produzioni non risulterebbero superiori a quelle delle varietà tradizionali,
sostiene che la maggiore produzione non assicurerebbe agli agricoltori alcun
vantaggio economico, siccome le spese per macchine e fertilizzanti fagociterebbero
ogni maggiore ricavo, denuncia l’infierire, tra gli animali allevati secondo i
nuovi criteri, di malattie incontrollabili Sono tre asserzioni frutto,
palesemente, di incubi millenaristici, in evidente contrasto con la realtà di
un sistema agricolo che ha consentito ad un numero senza misura minore di
agricoltori di assicurare ai cittadini francesi uno dei tenori alimentari più
ricchi al mondo, dirigendo sui mercati internazionali un flusso di
esportazioni, cereali, latticini, vini e frutta, che costituisce per il Paese
fonte preziosa di valuta.
Seppure dichiari che il cardine del metodo dei maestri consiste
essenzialmente nel ritorno alle pratiche della tradizione, l’apostolo della
filosofia rurale di Lemaire e Boucher si impegna ad attribuire a quella
filosofia un blasone scientifico dichiarando che i fondamenti della dottrina
dei due agronomi risalirebbero al pensiero di Pasteur, il fondatore della
microbiologia moderna, i cui scritti il tenore delle citazioni rivela che Saint
Hénis non ha mai letto. Padre dei vaccini impiegati per combattere le più gravi
malattie infettive degli animali, Pasteur deve essere ritenuto il fondatore
dell’allevamento moderno basato sugli strumenti della veterinaria, la
tecnologia che provoca l’orrore dei due agronomi francesi.
Alle idee di Pasteur, che cita senza avere mai letto (o compreso), Saint
Hénis aggiunge, nell’ideale elenco dei precedenti della dottrina che codifica,
la menzione della teoria dell’americano Louis Kervran, lo studioso che ha
sostenuto la capacità degli organismi animali di operare la conversione della
struttura molecolare degli elementi chimici, mutando il numero di protoni,
neutroni ed elettroni di un atomo così da realizzare la trasformazione di un
elemento in elemento diverso, un’autentica scissione atomica, un’ipotesi la cui
dimostrazione sconvolgerebbe l’edificio della fisica moderna, che Saint Hénis
dichiara inoppugnabilmente provata dallo studioso americano, e che assume tra
le fondamenta teoriche della costruzione di Lemaire e Boucher.
Piuttosto che a Pasteur, che di fertilità del suolo e di rotazioni agrarie
non ebbe mai ad occuparsi, sarebbe più pertinente identificare il predecessore
di Lemaire e Boucher in Thaer, il precursore ideale di Draghetti e di ogni
teoria agronomica che fissi il proprio caposaldo nelle rotazioni, che non si sa
decidere se Saint Henis non citi perché ne ignori l’opera o perché un autore
francese non riconoscerà mai i titoli di precursore delle proprie idee ad uno
scienziato tedesco, preferendo la citazione impropria di un connazionale a
quella pertinente di un autore straniero.
Sul piano agronomico Lemaire e Boucher ricalcano, dopo quindici decenni, le
orme del grande tedesco propugnando la stessa integrazione perorata da Thaer
della coltura dei cereali e dell’allevamento, le cui esigenze di foraggio
propongono di soddisfare, come il predecessore, con la coltura di una
molteplicità di specie foraggere, fonti di fertilità sulla duplice strada degli
apporti diretti di azoto al suolo, da parte delle leguminose, e di quelli
indiretti che si realizzano dopo la trasformazione, nella stalla, dei foraggi
in letame. Alla ricca gamma delle colture foraggere che suggeriscono ricalcando
il precursore che ignorano, i paladini francesi dell’agricoltura alternativa
associano il suggerimento dell’impiego del litotamnio, un’alga tradizionalmente
impiegata come fertilizzante dai contadini bretoni, cui i due autori
attribuiscono proprietà prodigiose sulla fertilità, sulla salute del bestiame,
sulle qualità biologiche delle derrate prodotte per il consumo umano, di cui
Lemaire avrebbe intrapreso il commercio in modo egualmente benefico per i
propri conti bancari.
Un’annotazione finale, a commento del volume di Saint Hénis, non può non
imporre la reiterazione, da parte dell’autore, dell’attribuzione, al primo dei
due maestri, del titolo di disinteressato apostolo della verità in un mondo
scientifico pervaso dall’errore, una reiterazione che ripropone una
constatazione che la storia delle scienze ripresenta in più di uno dei propri
capitoli: chi proclami il possesso esclusivo della verità, denunciando l’errore
di chi professi ogni convincimento diverso, è, assai spesso, salvo il caso dei
titani che hanno mutato, incompresi, il corso del pensiero umano, lo
pseudoscienziato, se non l’imbonitore, che denigrando gli avversari cerca
diffondere i propri sogni e le proprie chimere, offrendo, a chi voglia provarne
il potere, sementi e preparati che ne incorporino le virtù taumaturgiche.
Nessun commento:
Posta un commento