martedì 14 ottobre 2014

Agricoltura biologica: scienza o superstizione?


 di   Antonio Saltini 


1ª parte 



                                                          
    Una relazione inquieta

L’agricoltura moderna è creatura della scienza, o, più propriamente, di un articolato novero di scienze: se è vero, infatti, che il suo pilastro fondamentale, la metodologia delle rotazioni, viene fissato, durante una irripetibile stagione di esperienze empiriche, dagli agronomi inglesi del Settecento, senza il supporto di alcuna nozione di fisiologia vegetale e di chimica del suolo, è altrettanto vero che essa inizia il cammino verso i più straordinari successi produttivi quando, all’alba dell’Ottocento,Thèodore de Saussure  spiega il meccanismo della nutrizione vegetale, un complesso insieme di scambi chimici tra sostanze aeriformi e sostanze in soluzione acquosa, una scoperta che sarà integrata, nei decenni successivi, da quelle sulle esigenze chimiche delle specie agrarie, le conquiste che suggellano  Justus Liebig, Henry Gilbert, John Lawes e George Ville, quindi dalla scoperta dell’attività dei microbi, il legato degli studi di Louis Pasteur,  che traspone sul terreno della pedologia un emulo russo del biologo francese, Serghiei Nicolaevič Winogradsky. Contesto tecnologico costituente la traduzione applicativa di un compendio molteplice di discipline scientifiche, l’agronomia moderna attinge elementi capitali dalla genetica, dall’entomologia, dall’idraulica, dalla fisica, dall’economia.


Corpus di cognizioni polimorfo, quindi, tanto da poter essere considerato eclettico, l’insieme delle conoscenze in cui si sostanzia l’agronomia moderna dimostra la coerenza di edificio unitario a chi ne consideri la corrispondenza alla finalità essenziale, l’apprestamento degli strumenti per consentire alle società umane lo sfruttamento razionale delle risorse impiegate per produrre alimenti, bevande, fibre vegetali e, in alcune società, forza di traino. Sfruttare razionalmente le risorse naturali per produrre derrate agrarie è la finalità che accomuna l’opera degli agronomi operanti sui sei continenti, cui l’identità degli obiettivi operativi consente di verificare, ad ogni occasione di incontro, una comunanza capace di tradursi nel dialogo più fecondo nonostante le differenze di cultura e la diversità dei percorsi formativi seguiti nelle istituzioni scientifiche di paesi appartenenti a aree di civiltà diversa.
Verificata la coerenza, nella molteplicità dei volti che propone, del contesto scientifico che sostiene l’agricoltura moderna, chi osservi le espressioni dell’agricoltura “biologica”, una locuzione che in termini epistemologici propone la più arbitraria trasposizione lessicale, e voglia identificarne le relazioni con la scienza agronomica nata dalla scoperta di De Saussure e sviluppatasi fino all’applicazione delle ultime acquisizioni della genetica, non può non essere colto, ai primi sondaggi, dal disorientamento: le dottrine, o, per usare un termine più espressivo della realtà, le motivazioni che quanti pratichino forme di cultura “biologica” propongono a spiegazione del proprio operare sono molteplici e contraddittorie, tanto da rendere impossibile, realizzata la loro analisi, l’enucleazione di principi ispiratori che possano compararsi a quelli dell’agronomia “ortodossa”.
Approfondendo l’indagine al di là delle incongruenze tra i messaggi diversi del mondo “biologico” è possibile, peraltro, individuare una serie di istanze che ne accomuna le dottrine, definendo il contesto delle pulsioni che hanno sospinto scuole dalle ispirazioni inconciliabili ad esprimere verso l’agronomia classica atteggiamenti coincidenti. Il contesto policromo delle scuole “biologiche” ha modificato, peraltro, dalle origini, i propri atteggiamenti nei confronti della scienza secondo una successione di opzioni che ha indotte correnti diverse a toccare, nonostante le differenze di ispirazione, tappe analoghe, le tappe che consentono di scrivere una storia univoca delle relazioni tra l’agricoltura “biologica” e la scienza, una storia che è obbligato a ripercorrere lo storico delle conoscenze agrarie che si chieda se le dottrine dell’agricoltura “biologica” costituiscano l’avanguardia dell’agronomia di domani o rappresentino che una devianza del progresso scientifico destinata a decadere, nell’arco di alcuni anni, come tutte le mode dell’abbigliamento, dello spettacolo, dell’opinione.

Sulle orme della scienza

I primi impulsi alla creazione di un’agricoltura alternativa a quella fondata sulle conquiste naturalistiche e tecnologiche dell’Ottocento sono gli stimoli alimentati, nel terzo quarto del Novecento, dall’allarme lanciato da voci della scienza sui pericoli incombenti sugli equilibri naturali del Pianeta ove proseguisse lo sfruttamento indiscriminato delle risorse sospinto dall’economia moderna. Le società umane pretendono una crescita incessante delle attività economiche, ma sviluppo incessante significa impiego sempre più intenso di risorse fisiche limitate, significa, soprattutto, immissione nell’ambiente naturale di quantità crescenti di rifiuti, in specie i composti creati dalla chimica sintetizzando molecole prive di analogie in natura, che alterano i processi fisiologici degli organismi viventi, il cui metabolismo non può reagire alle nuove molecole, che i batteri, demandati, in natura, di ridurre i composti organici agli elementi primitivi, non sono, generalmente, in grado di degradare.
La prima tra le voci della scienza che denunciano i rischi di un impiego della chimica realizzato senza valutarne le conseguenze sugli equilibri naturali è quella della biologa americana Rachel Carson che nel 1962 pubblica un libro la cui tesi è enucleata in un titolo suggestivo, Silent spring, la primavera privata del canto degli uccelli, a conseguenza, secondo Carson, dell’impiego indiscriminato degli insetticidi di sintesi, primo tra tutti il d.d.t., negli anni Sessanta ampiamente diffuso per la straordinaria efficacia contro parassiti esiziali dell’uomo e delle colture, un’efficacia dovuta anche alla stabilità della molecola, che gli agenti naturali non sono in gradi di decomporre che molto lentamente, la ragione della sua facile traslocazione in paesi e in mari lontani migliaia di chilometri dai luoghi di irrorazione.
La seconda voce a proclamare i pericoli dello sviluppo economico fondato sulla manipolazione, da parte dell’uomo, delle materie prime con la loro trasformazione in composti inesistenti in natura è quella di Barry Commoner, ancora un biologo, che nel 1972 pubblica The closing circle, il testo in cui stigmatizza l’incessante ricerca, da parte dell’industria chimica, di sostanze con cui sostituire i composti di impiego tradizionale: i detergenti che eliminano il sapone, la plastica che elimina il legno, le fibre polimeriche che eliminano cotone e lino. Per Commoner la sostituzione non recherebbe alcun vantaggio al consumatore, che ricavava le medesime utilità dalle sostanze tradizionali, ma consentirebbe la moltiplicazione degli utili dei produttori, per il ricercatore americano la sola motivazione della sostituzione.
La pubblicazione dei volumi della Carson e di Commoner apre la stagione di una pubblicistica che in pochi anni occuperà scaffali interi nelle biblioteche scientifiche. Su quegli scaffali possiamo identificare la terza delle voci che ripropongono l’allarme sul pericolo di alterazione degli equilibri naturali, quello che un vocabolo di successo repentino definisce l’allarme “ecologico”, nel Club di Roma, un sodalizio di personalità della scienza, della politica, della cultura, che incarica il prestigioso Massachusetts Institute of Technology di due studi successivi, il primo, The limits of growth, pubblicato nel 1972, il secondo, Toward global equilibrium, pubblicato l’anno successivo. Oltre all’autorevolezza del sodalizio e all’originalità dei procedimenti impiegati dall’istituto americano, le procedure di calcolo fondate sulla dinamica dei sistemi rese possibili dall’impiego dei nuovi calcolatori, contribuisce alla risonanza del messaggio del Club di Roma l’eloquenza della metafora che l’estensore del rapporto, Dennis Meadows propone, nel primo dei due volumi, per illustrare la meccanica dei processi esponenziali, quali la crescita della popolazione o quella della produzione industriale
E’ la metafora della crescita di una pianta acquatica che si riproduca raddoppiando di entità ogni giorno, che si stabilisca in un lago dove si sviluppi, progressivamente, nel tempo. Supponendo che non venga assunta alcuna misura per arrestarne la proliferazione quanto tempo resterà per evitare la completa occlusione del lago, chiede lo studioso americano ai lettori, quando la pianta avrà occupato metà della sua superficie? I lettori che abbiano colto la dinamica del fenomeno saranno sorpresi di constatare che non mancherà che un giorno solo. Identificando nella proliferazione della pianta letale l’insieme dei processi che, innescati dall’uomo, stanno alterando gli equilibri del Pianeta, la metafora esprime con efficacia la previsione che quando quei processi avranno prodotto, incontrollati, le proprie alterazioni, superando la soglia delle possibilità del controllo, l’umanità potrebbe non disporre più del tempo per ristabilire una convivenza con le risorse naturali capace di perdurare nel tempo.
Si possono aggiungere all’elenco dei testi che dimostrano che i rapporti tra l’uomo e le risorse naturali hanno assunto i caratteri di uno sfruttamento tanto radicale da minacciare la persistenza delle stesse risorse per le generazioni future gli studi di David Pimentel sul bilancio energetico delle principali colture agrarie. Fondata sull’impiego del petrolio per azionare trattori di potenza sempre maggiore, e per la produzione, dopo la conversione in energia elettrica, dei fertilizzanti nitrici, la moderna tecnologia di coltivazione produce, su ogni unità di superficie, una quantità di calorie ingente, ma ampiamente inferiore a quella impiegata nelle pratiche colturali. Il bilancio capovolge i rapporti tra calorie impiegate e calorie prodotte dalle pratiche agrarie tradizionali, che impiegavano un’entità di energia, erogata dall’uomo e dagli animali, largamente inferiore all’energia alimentare che producevano.

Contro la scienza della tradizione, per una scienza nuova
L’allarme per l’eventualità di un’alterazione irreversibile delle risorse da cui dipende l’alimentazione delle società umane impone ai cultori di agronomia una revisione profonda delle modalità del proprio impegno. L’umanità è uscita dal secondo conflitto mondiale nell’angustia di gravi insufficienze delle produzioni agricole: registravano carenze di produzione i paesi d’Europa, di cui la guerra aveva disarticolato l’apparato produttivo, carenze altrettanto gravi affiggevano i paesi asiatici e africani, di cui il riassetto del quadro geopolitica seguito al conflitto assicurava l’indipendenza, al cui avvento coincideva un incontenibile aumento dei tassi di crescita demografica. All’incremento demografico non corrispondeva l’accrescimento della produttività di sistemi agricoli condizionati dagli antichi obiettivi coloniali, orientati, cioè, anziché al soddisfacimento dei bisogni locali, alla produzione di derrate destinate a soddisfare bisogni europei.
Di fronte alla penuria l’imperativo che ha guidato l’azione degli agronomi operanti a tutte le latitudini è stato l’accrescimento delle produzioni, e l’imperativo di aumentare le produzioni ha indotto a trascurare gli effetti negativi dell’impiego di fertilizzanti, antiparassitari e diserbanti di sintesi, effetti che, ancora poco noti, negli anni di introduzione dei nuovi strumenti chimici apparivano secondari rispetto agli straordinari risultati produttivi che il loro impiego rendeva possibili dovunque venissero introdotti. Alla constatazione dei danni provocati dall’impiego delle molecole antiparassitarie si unisce quella dei rischi delle nuove creature della meccanica, la cui potenza crescente impone dimensioni sempre maggiori degli appezzamenti, quindi l’eliminazione di siepi, fossi e capezzagne, con il rischio di favorire, sui campi ricavati nelle pendici, l’erosione del suolo da parte delle acque, nelle grandi pianure quella provocata dal vento.
Il nuovo imperativo di convertire i criteri di impiego dei mezzi chimici e meccanici produce un notevole disorientamento tra i cultori delle conoscenze agronomiche, i più lungimiranti tra i quali percepiscono, fino dalla metà degli anni Settanta, l’urgenza di riorientare le procedure agronomiche secondo le coordinate di una nuova filosofia produttiva, di avviare, cioè, una nuova rivoluzione agraria, la terza della storia moderna, una rivoluzione che conservi l’obiettivo di aumentare le produzioni, irrinunciabile di fronte ai tassi di incremento della popolazione mondiale, ma che a quell’obiettivo saldi il proposito di tutelare l’integrità delle risorse naturali, perseguendolo nel rispetto dell’imperativo di lasciare in eredità alle generazioni future risorse agrarie ancora vitali, capaci perciò di soddisfarne i bisogni.
E’ negli anni della difficile conversione dei cardini concettuali dell’agronomia che si verifica la divaricazione tra la scienza ortodossa e i movimenti che propugnano metodologie agricole fondate sul rifiuto radicale dei mezzi chimici, quindi della tradizione agronomica che li ha adottati. Mentre, cioè, una schiera crescente di cultori di agronomia e delle discipline complementari operanti nelle università e nei centri sperimentali percepisce l’esigenza di approfondire gli studi chimici, biologici, fisiologici, per verificare quali composti chimici possano risultare dannosi ai sistemi naturali, quali nuovi composti, dagli effetti meno nocivi, si possano introdurre, quali metodologie di impiego adottare per ridurre gli effetti negativi, nasce un movimento, che annovera la maggioranza dei proseliti tra giovani estranei all’ambiente agricolo e privi di conoscenze agronomiche, che pretende il bando incondizionato di tutti gli strumenti della chimica, la fondazione di una nuova agricoltura che conti sull’impiego esclusivo di mezzi naturali, quell’agricoltura che usando un anodino vocabolo del lessico scientifico con un palese intento polemico i fautori definiscono “biologica”.
Da propugnatori di un’agricoltura che rinunci ai mezzi della chimica e riduca le dimensioni dei mezzi meccanici, i fautori del nuovo credo agronomico diverranno, nello spazio di pochi anni, non meno intransigenti antagonisti dell’impiego delle sementi costituite dalla genetica, prima, più confusamente, di quelle ottenute mediante le metodologie tradizionali di incrocio e selezione, poi, più categoricamente, di quelle ottenute mediante i procedimenti della microbiologia molecolare, quindi con l’intervento diretto sul patrimonio genetico, un intervento in cui i cultori dell’agricoltura alternativa denunceranno il pericolo più grave per l’integrità fisica dell’umanità. Mentre, peraltro, le prove dei danni dell’impiego della chimica in agricoltura sono palesi, riconosciute dagli studiosi di qualunque ispirazione, e la scienza agronomica è impegnata a contenerne gli effetti nocivi, seppure nella consapevolezza che la società umana richiede una quantità di derrate alimentare che sarebbe impensabile produrre senza sussidi chimici, a provare i pericoli delle sementi selezionate dalla nuova genetica gli oppositori continueranno ad immaginare gli argomenti più fantasiosi, privi del supporto di qualunque prova sperimentale.
Dalla constatazione che i mezzi chimici e meccanici impiegati, con intensità crescente, dalla conclusione del secondo conflitto mondiale per accrescere le produzioni, determinano effetti dannosi sugli equilibri naturali, l’emergere, quindi, di due atteggiamenti contrapposti: da una parte il proposito di approfondire gli studi chimici e biologici affinché l’impiego agrario dei mezzi della chimica si realizzi senza produrre conseguenze nocive sull’ambiente, dall’altro la pretesa di proscrivere, con un bando categorico e incondizionato, l’impiego di qualunque molecola di sintesi in qualsiasi fase della produzione agricola. Mentre, peraltro, l’accoglimento degli imperativi di tutela delle risorse naturali non costituisce, per il contesto delle scienze agrarie, che l’adeguamento delle conoscenze tradizionali ad istanze nuove, quindi l’aggiornamento di una concezione della produzione agricola che dalle origini, nel Settecento, non ha cessato di rinnovare, di fronte a stimoli e scoperte nuove, il proprio ordito, il rigetto incondizionato della chimica impone a chi lo propugna l’onere di giustificare il rifiuto con argomenti di dignità scientifica, contrapponendo alla scienza agronomica ortodossa una dottrina alternativa. Per avanzare le proprie pretese come istanze scientifiche, e non come mere suggestioni d’opinione, il nuovo movimento è costretto a cimentarsi sul terreno teorico, un’esigenza che si impegna a soddisfare, nel corso degli anni Settanta, un novero numeroso di maestri, le cui ipotesi, in radicale dissonanza, rifrangono il movimento per un’agricoltura alternativa in una pluralità di scuole, che la passione dispiegata nel sostegno della propria dottrina, non di rado fondata su argomenti metascientifici, rende più proprio definire con il termine di sette.
 




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