di Antonio Saltini
1ª parte
L’agricoltura moderna è creatura della scienza, o, più propriamente, di un
articolato novero di scienze: se è vero, infatti, che il suo pilastro
fondamentale, la metodologia delle rotazioni, viene fissato, durante una
irripetibile stagione di esperienze empiriche, dagli agronomi inglesi del
Settecento, senza il supporto di alcuna nozione di fisiologia vegetale e di
chimica del suolo, è altrettanto vero che essa inizia il cammino verso i più
straordinari successi produttivi quando, all’alba dell’Ottocento,Thèodore de Saussure
spiega il meccanismo della nutrizione vegetale, un complesso insieme di scambi
chimici tra sostanze aeriformi e sostanze in soluzione acquosa, una scoperta
che sarà integrata, nei decenni successivi, da quelle sulle esigenze chimiche
delle specie agrarie, le conquiste che suggellano Justus Liebig, Henry Gilbert, John Lawes e George Ville, quindi dalla scoperta dell’attività
dei microbi, il legato degli studi di Louis Pasteur, che traspone sul
terreno della pedologia un emulo russo del biologo francese, Serghiei
Nicolaevič Winogradsky. Contesto tecnologico costituente la traduzione
applicativa di un compendio molteplice di discipline scientifiche, l’agronomia
moderna attinge elementi capitali dalla genetica, dall’entomologia,
dall’idraulica, dalla fisica, dall’economia.
Corpus di cognizioni polimorfo, quindi, tanto da poter essere considerato
eclettico, l’insieme delle conoscenze in cui si sostanzia l’agronomia moderna
dimostra la coerenza di edificio unitario a chi ne consideri la corrispondenza
alla finalità essenziale, l’apprestamento degli strumenti per consentire alle
società umane lo sfruttamento razionale delle risorse impiegate per produrre
alimenti, bevande, fibre vegetali e, in alcune società, forza di traino.
Sfruttare razionalmente le risorse naturali per produrre derrate agrarie è la
finalità che accomuna l’opera degli agronomi operanti sui sei continenti, cui
l’identità degli obiettivi operativi consente di verificare, ad ogni occasione
di incontro, una comunanza capace di tradursi nel dialogo più fecondo
nonostante le differenze di cultura e la diversità dei percorsi formativi
seguiti nelle istituzioni scientifiche di paesi appartenenti a aree di civiltà
diversa.
Verificata la coerenza, nella molteplicità dei volti che propone, del
contesto scientifico che sostiene l’agricoltura moderna, chi osservi le
espressioni dell’agricoltura “biologica”, una locuzione che in termini epistemologici
propone la più arbitraria trasposizione lessicale, e voglia identificarne le
relazioni con la scienza agronomica nata dalla scoperta di De Saussure e
sviluppatasi fino all’applicazione delle ultime acquisizioni della genetica,
non può non essere colto, ai primi sondaggi, dal disorientamento: le dottrine,
o, per usare un termine più espressivo della realtà, le motivazioni che quanti
pratichino forme di cultura “biologica” propongono a spiegazione del proprio
operare sono molteplici e contraddittorie, tanto da rendere impossibile,
realizzata la loro analisi, l’enucleazione di principi ispiratori che possano
compararsi a quelli dell’agronomia “ortodossa”.
Approfondendo l’indagine al di là delle incongruenze tra i messaggi diversi
del mondo “biologico” è possibile, peraltro, individuare una serie di istanze
che ne accomuna le dottrine, definendo il contesto delle pulsioni che hanno
sospinto scuole dalle ispirazioni inconciliabili ad esprimere verso l’agronomia
classica atteggiamenti coincidenti. Il contesto policromo delle scuole
“biologiche” ha modificato, peraltro, dalle origini, i propri atteggiamenti nei
confronti della scienza secondo una successione di opzioni che ha indotte
correnti diverse a toccare, nonostante le differenze di ispirazione, tappe
analoghe, le tappe che consentono di scrivere una storia univoca delle
relazioni tra l’agricoltura “biologica” e la scienza, una storia che è
obbligato a ripercorrere lo storico delle conoscenze agrarie che si chieda se
le dottrine dell’agricoltura “biologica” costituiscano l’avanguardia
dell’agronomia di domani o rappresentino che una devianza del progresso
scientifico destinata a decadere, nell’arco di alcuni anni, come tutte le mode
dell’abbigliamento, dello spettacolo, dell’opinione.
Sulle orme della
scienza
I primi impulsi alla creazione di un’agricoltura alternativa a quella
fondata sulle conquiste naturalistiche e tecnologiche dell’Ottocento sono gli
stimoli alimentati, nel terzo quarto del Novecento, dall’allarme lanciato da
voci della scienza sui pericoli incombenti sugli equilibri naturali del Pianeta
ove proseguisse lo sfruttamento indiscriminato delle risorse sospinto
dall’economia moderna. Le società umane pretendono una crescita incessante
delle attività economiche, ma sviluppo incessante significa impiego sempre più
intenso di risorse fisiche limitate, significa, soprattutto, immissione
nell’ambiente naturale di quantità crescenti di rifiuti, in specie i composti
creati dalla chimica sintetizzando molecole prive di analogie in natura, che alterano
i processi fisiologici degli organismi viventi, il cui metabolismo non può
reagire alle nuove molecole, che i batteri, demandati, in natura, di ridurre i
composti organici agli elementi primitivi, non sono, generalmente, in grado di
degradare.
La prima tra le voci della scienza che denunciano i rischi di un impiego
della chimica realizzato senza valutarne le conseguenze sugli equilibri
naturali è quella della biologa americana Rachel Carson che nel 1962 pubblica un libro la cui tesi è enucleata in un titolo
suggestivo, Silent spring, la primavera privata del canto degli uccelli,
a conseguenza, secondo Carson, dell’impiego indiscriminato degli insetticidi di
sintesi, primo tra tutti il d.d.t., negli anni Sessanta ampiamente diffuso per
la straordinaria efficacia contro parassiti esiziali dell’uomo e delle colture,
un’efficacia dovuta anche alla stabilità della molecola, che gli agenti
naturali non sono in gradi di decomporre che molto lentamente, la ragione della
sua facile traslocazione in paesi e in mari lontani migliaia di chilometri dai
luoghi di irrorazione.
La seconda voce a proclamare i pericoli dello sviluppo economico fondato
sulla manipolazione, da parte dell’uomo, delle materie prime con la loro
trasformazione in composti inesistenti in natura è quella di Barry Commoner, ancora un biologo, che nel 1972 pubblica The closing circle,
il testo in cui stigmatizza l’incessante ricerca, da parte dell’industria
chimica, di sostanze con cui sostituire i composti di impiego tradizionale: i
detergenti che eliminano il sapone, la plastica che elimina il legno, le fibre
polimeriche che eliminano cotone e lino. Per Commoner la sostituzione non
recherebbe alcun vantaggio al consumatore, che ricavava le medesime utilità
dalle sostanze tradizionali, ma consentirebbe la moltiplicazione degli utili
dei produttori, per il ricercatore americano la sola motivazione della
sostituzione.
La pubblicazione dei volumi della Carson e di Commoner apre la stagione di
una pubblicistica che in pochi anni occuperà scaffali interi nelle biblioteche
scientifiche. Su quegli scaffali possiamo identificare la terza delle voci che
ripropongono l’allarme sul pericolo di alterazione degli equilibri naturali,
quello che un vocabolo di successo repentino definisce l’allarme “ecologico”,
nel Club di Roma, un sodalizio di personalità della scienza, della politica,
della cultura, che incarica il prestigioso Massachusetts Institute of
Technology di due studi successivi, il primo, The limits of growth,
pubblicato nel 1972, il secondo, Toward global equilibrium, pubblicato
l’anno successivo. Oltre all’autorevolezza del sodalizio e all’originalità dei
procedimenti impiegati dall’istituto americano, le procedure di calcolo fondate
sulla dinamica dei sistemi rese possibili dall’impiego dei nuovi calcolatori,
contribuisce alla risonanza del messaggio del Club di Roma l’eloquenza della
metafora che l’estensore del rapporto, Dennis Meadows propone, nel primo dei
due volumi, per illustrare la meccanica dei processi esponenziali, quali la
crescita della popolazione o quella della produzione industriale
E’ la metafora della crescita di una pianta acquatica che si riproduca
raddoppiando di entità ogni giorno, che si stabilisca in un lago dove si
sviluppi, progressivamente, nel tempo. Supponendo che non venga assunta alcuna
misura per arrestarne la proliferazione quanto tempo resterà per evitare la
completa occlusione del lago, chiede lo studioso americano ai lettori, quando
la pianta avrà occupato metà della sua superficie? I lettori che abbiano colto
la dinamica del fenomeno saranno sorpresi di constatare che non mancherà che un
giorno solo. Identificando nella proliferazione della pianta letale l’insieme
dei processi che, innescati dall’uomo, stanno alterando gli equilibri del
Pianeta, la metafora esprime con efficacia la previsione che quando quei
processi avranno prodotto, incontrollati, le proprie alterazioni, superando la
soglia delle possibilità del controllo, l’umanità potrebbe non disporre più del
tempo per ristabilire una convivenza con le risorse naturali capace di
perdurare nel tempo.
Si possono aggiungere all’elenco dei testi che dimostrano che i rapporti tra
l’uomo e le risorse naturali hanno assunto i caratteri di uno sfruttamento
tanto radicale da minacciare la persistenza delle stesse risorse per le
generazioni future gli studi di David Pimentel sul bilancio energetico delle
principali colture agrarie. Fondata sull’impiego del petrolio per azionare
trattori di potenza sempre maggiore, e per la produzione, dopo la conversione
in energia elettrica, dei fertilizzanti nitrici, la moderna tecnologia di
coltivazione produce, su ogni unità di superficie, una quantità di calorie
ingente, ma ampiamente inferiore a quella impiegata nelle pratiche colturali.
Il bilancio capovolge i rapporti tra calorie impiegate e calorie prodotte dalle
pratiche agrarie tradizionali, che impiegavano un’entità di energia, erogata
dall’uomo e dagli animali, largamente inferiore all’energia alimentare che
producevano.
Contro la scienza della tradizione, per una scienza
nuova
L’allarme per l’eventualità di un’alterazione irreversibile delle risorse da
cui dipende l’alimentazione delle società umane impone ai cultori di agronomia
una revisione profonda delle modalità del proprio impegno. L’umanità è uscita
dal secondo conflitto mondiale nell’angustia di gravi insufficienze delle
produzioni agricole: registravano carenze di produzione i paesi d’Europa, di
cui la guerra aveva disarticolato l’apparato produttivo, carenze altrettanto
gravi affiggevano i paesi asiatici e africani, di cui il riassetto del quadro
geopolitica seguito al conflitto assicurava l’indipendenza, al cui avvento
coincideva un incontenibile aumento dei tassi di crescita demografica.
All’incremento demografico non corrispondeva l’accrescimento della produttività
di sistemi agricoli condizionati dagli antichi obiettivi coloniali, orientati,
cioè, anziché al soddisfacimento dei bisogni locali, alla produzione di derrate
destinate a soddisfare bisogni europei.
Di fronte alla penuria l’imperativo che ha guidato l’azione degli agronomi
operanti a tutte le latitudini è stato l’accrescimento delle produzioni, e
l’imperativo di aumentare le produzioni ha indotto a trascurare gli effetti
negativi dell’impiego di fertilizzanti, antiparassitari e diserbanti di
sintesi, effetti che, ancora poco noti, negli anni di introduzione dei nuovi
strumenti chimici apparivano secondari rispetto agli straordinari risultati
produttivi che il loro impiego rendeva possibili dovunque venissero introdotti.
Alla constatazione dei danni provocati dall’impiego delle molecole
antiparassitarie si unisce quella dei rischi delle nuove creature della
meccanica, la cui potenza crescente impone dimensioni sempre maggiori degli
appezzamenti, quindi l’eliminazione di siepi, fossi e capezzagne, con il
rischio di favorire, sui campi ricavati nelle pendici, l’erosione del suolo da
parte delle acque, nelle grandi pianure quella provocata dal vento.
Il nuovo imperativo di convertire i criteri di impiego dei mezzi chimici e
meccanici produce un notevole disorientamento tra i cultori delle conoscenze
agronomiche, i più lungimiranti tra i quali percepiscono, fino dalla metà degli
anni Settanta, l’urgenza di riorientare le procedure agronomiche secondo le
coordinate di una nuova filosofia produttiva, di avviare, cioè, una nuova
rivoluzione agraria, la terza della storia moderna, una rivoluzione che
conservi l’obiettivo di aumentare le produzioni, irrinunciabile di fronte ai
tassi di incremento della popolazione mondiale, ma che a quell’obiettivo saldi
il proposito di tutelare l’integrità delle risorse naturali, perseguendolo nel
rispetto dell’imperativo di lasciare in eredità alle generazioni future risorse
agrarie ancora vitali, capaci perciò di soddisfarne i bisogni.
E’ negli anni della difficile conversione dei cardini concettuali
dell’agronomia che si verifica la divaricazione tra la scienza ortodossa e i
movimenti che propugnano metodologie agricole fondate sul rifiuto radicale dei
mezzi chimici, quindi della tradizione agronomica che li ha adottati. Mentre,
cioè, una schiera crescente di cultori di agronomia e delle discipline
complementari operanti nelle università e nei centri sperimentali percepisce
l’esigenza di approfondire gli studi chimici, biologici, fisiologici, per
verificare quali composti chimici possano risultare dannosi ai sistemi
naturali, quali nuovi composti, dagli effetti meno nocivi, si possano
introdurre, quali metodologie di impiego adottare per ridurre gli effetti
negativi, nasce un movimento, che annovera la maggioranza dei proseliti tra
giovani estranei all’ambiente agricolo e privi di conoscenze agronomiche, che
pretende il bando incondizionato di tutti gli strumenti della chimica, la
fondazione di una nuova agricoltura che conti sull’impiego esclusivo di mezzi
naturali, quell’agricoltura che usando un anodino vocabolo del lessico
scientifico con un palese intento polemico i fautori definiscono “biologica”.
Da propugnatori di un’agricoltura che rinunci ai mezzi della chimica e riduca
le dimensioni dei mezzi meccanici, i fautori del nuovo credo agronomico
diverranno, nello spazio di pochi anni, non meno intransigenti antagonisti
dell’impiego delle sementi costituite dalla genetica, prima, più confusamente,
di quelle ottenute mediante le metodologie tradizionali di incrocio e
selezione, poi, più categoricamente, di quelle ottenute mediante i procedimenti
della microbiologia molecolare, quindi con l’intervento diretto sul patrimonio
genetico, un intervento in cui i cultori dell’agricoltura alternativa
denunceranno il pericolo più grave per l’integrità fisica dell’umanità. Mentre,
peraltro, le prove dei danni dell’impiego della chimica in agricoltura sono
palesi, riconosciute dagli studiosi di qualunque ispirazione, e la scienza agronomica
è impegnata a contenerne gli effetti nocivi, seppure nella consapevolezza che
la società umana richiede una quantità di derrate alimentare che sarebbe
impensabile produrre senza sussidi chimici, a provare i pericoli delle sementi
selezionate dalla nuova genetica gli oppositori continueranno ad immaginare gli
argomenti più fantasiosi, privi del supporto di qualunque prova sperimentale.
Dalla constatazione che i mezzi chimici e meccanici impiegati, con intensità
crescente, dalla conclusione del secondo conflitto mondiale per accrescere le
produzioni, determinano effetti dannosi sugli equilibri naturali, l’emergere,
quindi, di due atteggiamenti contrapposti: da una parte il proposito di
approfondire gli studi chimici e biologici affinché l’impiego agrario dei mezzi
della chimica si realizzi senza produrre conseguenze nocive sull’ambiente,
dall’altro la pretesa di proscrivere, con un bando categorico e incondizionato,
l’impiego di qualunque molecola di sintesi in qualsiasi fase della produzione
agricola. Mentre, peraltro, l’accoglimento degli imperativi di tutela delle
risorse naturali non costituisce, per il contesto delle scienze agrarie, che
l’adeguamento delle conoscenze tradizionali ad istanze nuove, quindi
l’aggiornamento di una concezione della produzione agricola che dalle origini,
nel Settecento, non ha cessato di rinnovare, di fronte a stimoli e scoperte
nuove, il proprio ordito, il rigetto incondizionato della chimica impone a chi
lo propugna l’onere di giustificare il rifiuto con argomenti di dignità
scientifica, contrapponendo alla scienza agronomica ortodossa una dottrina
alternativa. Per avanzare le proprie pretese come istanze scientifiche, e non
come mere suggestioni d’opinione, il nuovo movimento è costretto a cimentarsi
sul terreno teorico, un’esigenza che si impegna a soddisfare, nel corso degli
anni Settanta, un novero numeroso di maestri, le cui ipotesi, in radicale
dissonanza, rifrangono il movimento per un’agricoltura alternativa in una
pluralità di scuole, che la passione dispiegata nel sostegno della propria
dottrina, non di rado fondata su argomenti metascientifici, rende più proprio
definire con il termine di sette.
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