martedì 9 settembre 2014

Ogni popolo ha i suoi “maiali”

 di Angelo Troi


Mangiare cane è pericoloso, scrive il dr. Agostino Macrì, dal suo Osservatorio su Settimana Veterinaria (n. 868 2/4/14), una rivista di informazione tra le più attente e indipendenti nel panorama nazionale di settore.

L'articolo approfondisce con misura e rigore scientifico un tema goloso nelle “bufale” del web. Infatti il cane è animale da compagnia -per definizione- nella moderna cultura Europea ed USA.


Tanto che alcune trasmissioni televisive hanno avuto l'intuizione di forzare l'audience utilizzando cagnolini scodinzolanti e sempre diversi in studio; le operazioni delle Forze dell'Ordine che coinvolgono cani destano interesse più di altre e, nel marketing di certa politica, compaiono inedite cino-promesse-elettorali. Tanta empatia eleva un gradino più in alto di altri animali il miglior amico dell'uomo (occidentale). Nella nostra cultura non ci sarebbe grande utilità nel mettere davanti alle telecamere dei maiali. Eppure per miliardi di persone, fedeli di importanti religioni, tra le più diffuse sul Pianeta, il cane è animale “impuro” esattamente come il maiale, mentre all'opposto, per altri miliardi di persone (il dr. Macrì cita Estremo Oriente e parti dell'Africa), la cinofagia è del tutto normale: il cane è un pochino quello che per noi è il maiale. Per molti popoli le fonti di proteine sono diverse, altrettanto distanti dai nostri gusti: cavallette, vespe, grilli ecc. secondo Panorama.

Il sentire occidentale in questo campo è correlato anche alle difficoltà degli Inuit. Gli Inuit sono un insieme di popolazioni del circolo polare Artico. Le loro abitudini alimentari hanno destato interesse della comunità scientifica internazionale per la notevole longevità, legata al consumo di carne. Come nella nostra cultura rurale l'animale da carne è tradizionalmente il maiale, gli Inuit traggono sostentamento dalla caccia alle foche, specie non a rischio di estinzione, ma divenuta vessillo di molte battaglie ideologiche. Il divieto internazionale di commercializzare i prodotti dell'unica economia possibile per gli Inuit, rappresenterebbe per molti osservatori una ragione di estinzione delle popolazioni: quello che potrebbe essere definito etimologicamente dal greco γένοϚ (popolazione), unito al verbo latino caedĕre (uccidere).
Qui si apre dunque un capitolo delicato. Non abbiamo né i dati scientifici, né la presunzione intellettuale per un'analisi esaustiva. Autorevoli filosofi o esperti in bio-etica potrebbero derimere con competenza la materia, se volessero alzare il loro sguardo oltre l'onicectomia dei gatti (peraltro -stavolta- consigliata negli USA ed aborrita in Europa!). Ci limitiamo a far osservare che finché l'Occidente-allargato deterrà il monopolio incontrastato dell'arma mediatica e pubblicitaria, riuscirà ad imporre pacificamente i propri “credo” sui restanti 5 miliardi della popolazione mondiale. Se invece inizieranno a pesare maggiormente in termini di risorse, sviluppo e capacità produttiva, i nuovi mercati potrebbero ingiungere le loro rispettive (e rispettabili almeno quanto le nostre) culture diverse. Una sfida per la sanità e la società globalizzata.


Angelo Troi  Segretario Nazionale - SIVeLP Sindacato Veterinari Liberi Professionisti

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