di Antonio Saltini
Proprio quando l’Italia ha compiuto il gesto supremo di nominarla
“ambasciatrice” dell’Expo è esplosa la risata globale (siamo un paese
di commedianti, non inventiamo più nulla, ma sappiamo suscitare
fischi e grida prima ancora di alzare il sipario (dell’Expo): Vandana
Shiva, la contadinotta indiana laureata in filosofia braminica che ha
avuto la presunzione di cambiare il proprio nome con quello della più
feroce divinità della Trimurti, e di vantare un’inesistente laurea in
fisica quantistica, non ha alcuna competenza in nessuna disciplina
fisico-naturalistica: da due decenni miete applausi internazionali (e
gestisce, con le fandonie, un budget milionario (in U. S. $) perché,
come proclamavano i saggi latini, “vulgus amat decipi”: la plebe ama
essere ingannata, e per essere gratificata da menzogne seducenti é
pronta a pagare qualunque biglietto.
Ma perché la maga potesse trionfare occorreva chi le preparasse il
terreno: dove si montano i baracconi il pubblico deve essere pronto,
spiritualmente, ad accoglierli. Perché le sue amenità fossero
accolte come verità rivelate era necessario che maestri del pensiero
le preparassero la platea convincendo l’opinione internazionale che
produrre cibo è mera banalità: se ne può sfornare quanto se ne
voglia, basta che chi ha fame abbia il borsellino ricolmo, e possa
pagare il conto.
L’elenco dei maîtres à penser che hanno selciato di rose il viale
dei trionfi della maga non è certamente breve: con un poco di
meticolosità lo si potrebbe, però, ricostruire. Il primo che si
impone alla mente è, per circostanze probabilmente non fortuite, un
figlio della medesima terra, il premio Nobel Amartya Sen, di cui
proponiamo la cronaca della laurea fiorentina honoris causa scritta
da Antonio Saltini nel 2001 (una data a distanza stellare dalle
polemiche attuali). Firenze! Per le fandonie sull’agricoltura sempre
Firenze, la patria della cultura naturalistica sulla cui purezza
vigila, indefesso, un sodalizio della levatura scientifica
dell’Accademia dei Georgofili! E’ palese, peraltro, che le
stravaganze di un premio Nobel non sono assimilabili alle
farneticazioni di una pitonessa, ma pare indiscutibile che in
entrambi si ritrovi l’aura di un wishful thinking che pare dote
tutta indiana, il gusto per quanto suggerisce la fantasia piuttosto
che per l’analisi dei dati fisici e biologici. Sarà il pensiero che
dominerà il Pianeta al tramonto, da tanti auspicato, della filosofia
sperimentale di Galileo, Bacone e Cartesio?
Ricevuto all’Università di Firenze per la consegna
della laurea honoris causa, il premio Nobel professor Amartya Sen
pronuncia l’allocuzione di rito enunciando la propria dottrina sul problema
dell’alimentazione del Pianeta. Produrre cibo non presenterebbe autentiche
difficoltà, secondo l’economista indiano: l’unico problema sarebbe assicurare
un reddito ai milioni di famiglie che il cibo non possono acquistare.
Disponendo di un reddito, non farebbero fatica a procurarselo. La tesi,
seducente, è in palese contrasto con i dati più recenti della Fao, che
dimostrano la crescente difficoltà a ottenere, dalle risorse già sfruttate, in
parte cospicua alterate, produzioni maggiori. Se il potere di acquisto dei
popoli poveri aumentasse, non è scontato che la loro domanda potrebbe essere
soddisfatta
Produzione di alimenti variabile indipendente
Ogni
titolo assicura i privilegi del grado: un principe palermitano poteva tenere il
cappello in testa davanti al viceré spagnolo, un membro di Montecitorio non
paga il biglietto del treno. Di un privilegio diverso, e non meno luminoso,
gode chi sia insignito del premio Nobel per l'economia, cui è assicurata la facoltà
di tenere una lettura accademica proponendo, con magistrale eleganza, una tesi
di assoluta ovvietà, per essere onorato dall'uditorio come il vate di verità
mai udite.
Ha imposto la constatazione il conferimento della laurea honoris
causa, da parte dell'Università di Firenze, al professor Amartya Sen,
indiano, presidente del più prestigioso college di Oxford, insignito del
supremo riconoscimento dell'Accademia di Stoccolma nel 1998, che nell’aula
magna fiorentina ha tenuto, secondo il rituale accademico, una lezione sulla
materia dei propri studi. Il tema: Food entitlement and agricultural
production, una locuzione di traduzione non agevole per la mancanza, in
italiano, di un vocabolo equivalente all'inglese entitlement, che si può
tradurre con "disponibilità" o con "capacità di disporre",
ma che ai due significati unisce la nota ulteriore di "situazione
economica". In sostanza, quindi, capacità di procurarsi il cibo e
produzione agricola.
La tesi del neolaureato professor Sen proclama, quindi,
che non sarebbe la sufficienza o l'insufficienza della produzione di alimenti a
determinare denutrizione e carestie che attanagliano, con frequenza drammatica,
regioni e paesi dell'Africa, dell'Asia e del Sudamerica, quanto, piuttosto, la
situazione economica complessiva delle famiglie che di denutrizione soffrono e
che sono vittime designate delle carestie. Un coltivatore il cui raccolto sia
distrutto da un'alluvione può essere incapace di nutrire la famiglia, ha
spiegato Sen, anche se le disponibilità alimentari del paese non siano,
complessivamente, insufficienti. La famiglia di un bracciante agricolo può
conoscere la fame se la produzione cui il capofamiglia dedicava il proprio
lavoro sia colpita da una crisi mercantile che non comprometta, tuttavia, il
raccolto delle derrate alimentari. E in una popolazione denutrita le donne
possono pagare il prezzo di una carestia più gravemente degli uomini perché le
regole sociali le collocano in uno stato inferiore, riducendo, rispetto agli
uomini, l'entitlement femminile per il cibo.
Produrre alimenti in misura adeguata alla domanda non
costituirebbe, sul Pianeta, problema insormontabile per il professor Sen, che
ha sottolineato che i tassi di incremento demografico, che spaventano quanti
affrontano il tema fissandosi sul differenziale tra crescita della popolazione
e accrescimento delle produzioni alimentari, si stanno riducendo in tutto il
Mondo, che quindi l'aumento del cibo supera l'aumento della popolazione,
un'asserzione che ha ripetuto proclamando che la crescita di alimenti pro
capite avrebbe conosciuto, negli ultimi decenni, valori costantemente positivi.
Tra filosofia indiana e logica cartesiana
L'essenza
dell’argomentazione si sostanzia in un rilievo sul quale sarebbe difficile
dissentire dall'illustre relatore: su tre continenti il problema capitale non è
tanto, o non solo, quello di produrre alimenti, il problema essenziale è
innescare un autentico sviluppo economico. In quei tre continenti oltre un
miliardo di uomini vive con un reddito inferiore o poco superiore ad un dollaro
al giorno: ci si può chiedere chi possa essere tanto ingenuo da ridurre le
necessità di quegli uomini alla più equa distribuzione di riso e fagioli. Oltre
a riso e fagioli quegli uomini chiedono case, acqua potabile, abiti e servizi
sociali, per disporre dei quali hanno bisogno, innanzitutto, di un lavoro
remunerativo. Lo sviluppo non è, cioè soltanto un problema di cibo, che pure è
il bene che soddisfa la prima delle esigenze, quella senza appagare la quale
l'assolvimento di ogni necessità diversa è inutile.
Tra i grandi meriti del professor Sen elencati nelle
motivazioni della laurea fiorentina spiccava la singolare circostanza di un
docente che ha espletao, contemporaneamente, nel più famoso college inglese, il
corso di lezioni in economia e quello in filosofia. La filosofia indiana gode
di una tradizione augusta: sono notorie, peraltro, le abissali differenze della
sua ispirazione da quella della filosofia occidentale, uno dei cui canoni, dal
tempo di San Tommaso dottore sottile, è l'imperativo a distinguere i problemi,
affrontandoli, separatamente, uno alla volta.
Adottando l'elementare precauzione, è chiaro che se
esiste, sul Pianeta, un problema generale dello sviluppo, esiste, più
specificamente, anche un problema della produzione di alimenti. E se pure fosse
coerente ai canoni della sapienza indiana affrontare i problemi nella loro
interezza, tutti insieme come le foglie di un cavolo, i buoni risultati del
pensiero occidentale inducono a non abbandonare l'antica precauzione di
distinguere quesito da quesito. Affrontare, con strumenti specifici, gli
interrogativi sulla produzione delle derrate agricole, indipendentemente dai
problemi generali dello sviluppo, non pare essere esercizio inutile, è,
probabilmente, procedura congruente. In particolare non è gratuito interrogarsi
sull'evoluzione, per il professor Sen marginale, dei rapporti tra il tasso di
crescita della popolazione ed il tasso di crescita delle produzioni alimentari.
Sempre piu lenti i progressi della produzione
Ma
interrogarsi su quei rapporti impone di rilevare che l'asserzione di Amartya
Sen che negli ultimi decenni si sarebbe registrato un incremento costante della
produzione di alimenti pro capite è in radicale contrasto con i dati del
rapporto predisposto dalla Fao, nel 1995, per il Summit mondiale
sull'alimentazione, nel quale si dimostra, con dovizia di dati, che negli anni
'60 la produzione alimentare aumentava del 3% all'anno, negli anni '70 del
2,3%, tra il 1980 e il 1992 è aumentata soltanto del 2%, e che successivamente
non avrebbe ritrovato lo slancio antico. Come conseguenza il divario tra tasso
di crescita della popolazione e tasso di aumento delle disponibilità alimentari
si sarebbe, recentemente, ridotto fino quali ad annullarsi.
I cereali, peraltro, base della dieta degli abitanti del
Pianeta, avrebbero conosciuto un rallentamento dell'impulso alla crescita
superiore a quello della produzione alimentare complessiva, tanto che la
produzione pro capite sarebbe passata dai 302 chilogrammi
registrati nel 1969-71 ai 342 ottenuti tra il 1984-86, per scendere,
successivamente, a 326 tra il 1990 e il 1992. Né successivamente si sarebbe
verificato un recupero. Il contrario di quanto postulato dal professor Sen, che
non ha precisato su quali dati fondassero le proprie asserzioni. Non reputa
attendibili i dati Fao? Non lo ha spiegato, né ha detto a quali dati diversi si
debba fare riferimento.
Se, con l'ossequio dovuto a un premio Nobel, la
considerazione per una laurea dell'Università di Firenze e il rispetto per la
filosofia indiana, si voglia obbedire all'antica massima di affrontare i
problemi uno per volta, e sul tema precipuo delle produzioni agricole
ascoltare, oltre ad un grande economista, un grande agronomo, chi scrive
suggerisce di prestare attenzione alle valutazioni del professor Timothy
Reeves, direttore del più importante istituto per la genetica dei cereali del
Mondo, uno degli specialisti che conoscono i campi seminati di tutti i
continenti, che suole ripetere che per sfamare il Pianeta bisognerà raddoppiare
le produzioni nei prossimi trenta anni, che le possibilità agronomiche
sussistono, ma che per sfruttare le opportunità della scienza occorrerebbe un
generale, coerente, impegno politico, ed un titanico sforzo finanziario, un
impegno ed uno sforzo che il professor Reeves reputa improbabile saranno
espletati dalla comunità internazionale. Anche perché v'è chi proclama,
autorevolmente, che accrescere i raccolti non costituirebbe problema che
imponga ansie soverchie.
Ho letto con attenzione l ' articolo del prof.saltini.
RispondiEliminaCome sempre molto illuminante !