di Antonio Saltini e con Francesco Salamini
La seconda tessera del mosaico su cinquant’anni di agricoltura e di ricerca agraria in Italia fissa le vicende della genetica. La propone Francesco Salamini, protagonista di una straordinaria avventura nel cuore della scienza internazionale, di cui usa il ricordo per misurare la desolazione del quadro scientifico nazionale, il quadro di un paese che, avendo rinunciato, senza alcuna remora, ad un futuro scientifico pare avere rinunciato, con cinica coerenza, al proprio avvenire civile, economico, culturale.
Da un passato onorevole, progressivamente al nulla
Il
secondo dei testimoni che incontro di cinquant’anni di evoluzione
dell’agricoltura italiana, per confrontarne il passato e il
presente, e cercare gli indizi per comprenderne il futuro, è
Francesco Salamini, senza possibilità di dubbi il più illustre
genetista italiano, per dieci anni direttore, a Bergamo, della
Stazione di maiscoltura dell’Istituto nazionale di cerealicoltura,
per due mandati successivi, corrispondenti a anni, direttore del
Laboratorio di biologia molecolare del tedesco Istituto Max Planck,
una delle più prestigiosi istituzioni scientifiche del Globo. Tema
della conversazione il ruolo della genetica nella parabola
dell’agricoltura nazionale.
Abbiamo
lasciato alle spalle la guerra vantando un’eredità non priva di
lasciti rilevanti, esordisce Salamini. Quanto aveva fatto Nazareno Strampelli era stato di rilievo cospicuo: creare frumenti di
produttività elevata per le condizioni italiane non era stato
obiettivo agevole: la aveva realizzato, aveva vinto la Battaglia del
grano. Aveva lasciato allievi che avrebbero continuato a selezionare
frumenti: Forlani, Maliani, Dionigi. Pirovano aveva costituito uve
per quel tempo straordinarie. Nel dopoguerra Luigi Fenaroli aggiornò
rapidamente la cultura genetica nazionale rendendola capace di
misurarsi con gli ibridi di mais: i nostri genetisti si cimentarono
nella costituzione di una pluralità di ibridi vitrei, che avrebbero
dovuto servire a fare polenta, che gli italiani non avrebbero più
mangiato. L’istituto avrebbe, peraltro, informato con precisione
gli agricoltori del valore obiettivo, alle latitudini diverse della
Penisola, delle proposte dell’industria sementiera americana.
Negli
orizzonti entro i quali l’agricoltura italiana definiva la propria
nuova fisionomia le esigenze della selezione stavano, peraltro,
radicalmente mutando: Strampelli aveva costituito frumenti per
condizioni colturali povere, Norman Borlaug aveva diffuso sull’intero
Pianeta frumenti creati con una visione nuova: frumenti che avrebbero
valorizzato tutti gli inputs
tecnici, congegnati, cioè, per realizzare, nella sinergia tra
genetica e pratiche agronomiche, quindi disponibilità di acqua,
fertilizzanti e diserbanti, le produzioni più elevate. Il
mutamento di prospettive si imponeva per il frumento, si imponeva,
soprattutto per il mais, per il quale era l’acqua, essenzialmente,
a valorizzare le potenzialità genetiche. L’agronomia italiana
avrebbe assecondato la genetica americana.
Se
non abbiamo vantato, mentre l’agricoltura italiana continuava a
superare i traguardi raggiunti, un centro di selezione vegetale di
prestigio internazionale, la produzione di sementi non era esclusa da
un quadro complessivo pervaso dal dinamismo, sottolinea Salamini:
alla Casaccia Gian Tommaso Scarascia Mugnozza (qui) e (qui) costituiva il Creso,
per quegli anni un successo significativo, gli agricoltori italiani
riproducevano, ogni anno, 15.000 ettari di mais ibridi per conto dei
produttori americani, in regioni diverse si producevano sementi di
orticole e di barbabietola. La Federconsorzi filtrava la domanda
nazionale di frumento da seme, di cui governava oltre il cinquanta
per cento, valorizzando le creature dei costitutori italiani: chi ha
voluto la fine dell’organismo ha deciso che la nostra dipendenza
dal seme estero fosse completa. Oggi in Italia dominano i frumenti
francesi, allora assolutamente sconosciuti.
Il
costo della dipendenza
I
termini della dipendenza nazionale dall’industria sementiera
internazionale sono particolarmente visibili nel mais, sottolinea
Salamini: le società statunitensi ci vendevano, una volta, le
proprie costituzioni migliori, che grazie alla corrispondenza
climatica della Pianura Padana con il cuore del Corn Belt esprimevano
sui migliori terreni lombardi e veneti il massimo delle potenzialità:
fu grazie ai mais delle società americane che in cinquant’anni
la produzione media nazionale volò dai 24 quintali per ettaro ai
100, e dal leggendario Lorena della Pioneer continuò ad aggiungere,
ogni anno, un quintale alla produzione media. Oggi, proibite in
Italia le costituzioni create dalla manipolazione genetica, le stesse
società ci vendono sementi ottenute sottraendo i nuovi geni alle
ultime stars
del
catalogo, che mancano, palesemente del perfetto equilibrio delle
piante vendute agli agricoltori americani, stars
dalle
ali tarpate alle quali gli agricoltori italiani, che con il mais non
guadagnano più, non erogano le attenzioni, che significavano mezzi
tecnici costosi, che impiegavano negli anni d’oro. Il mais che
coltiviamo risulta, quindi, duplicemente, menomato, con un
pregiudizio evidente per la produzione nazionale: il mais era la
grande coltura per quale eravamo autosufficienti, l’unica coltura
per cui producevamo quanto ci era necessario, per la duplice strada
del rifiuto delle nuove costituzioni e delle minori cure colturali
l’autosufficienza rischia di dissolversi. Per le orticole, un
settore di grande rilievo, seppure progressivamente cedente,
dell’agricoltura nazionale, la nostra dipendenza sementiera,
aggiunge Salamini, è una dipendenza completa.
La
genetica italiana nel confronto internazionale
Quali
sono stati e quali sono attualmente, chiedo a Salamini, i rapporti
tra la scienza italiana, nella sfera genetica, e quella
internazionale? Il progressivo dissolversi, sul terreno produttivo,
di qualunque intraprendenza genetica, ha avuto il proprio riscontro
inevitabile, riconosce il mio interlocutore, nel ruolo internazionale
dei genetisti italiani. Nel teatro internazionale hanno svolto un
ruolo, nei decenni che abbiamo lasciato alle spalle, Salamini stesso
e Scarascia Mugnozza, Salamini giungendo ad un posto nel Consiglio di
uno dei più prestigiosi istituti
del CGIAR, quindi all’apice della ricerca mondiale, dove venne
designato, peraltro, dal Governo tedesco, non da quello italiano,
Scarascia Mugnozza ha rappresentato l’Italia in una pluralità di
consessi, dove lo ha incluso il Ministero degli esteri per il diritto
di ogni paese che contribuisca ai fondi della ricerca internazionale
di inserire propri rappresentanti negli organismi che utilizzano i
medesimi fondi. Ma negli organismi in cui sia rappresentato anche
degnamente, un paese dove non esiste più ricerca genetica non ha
nulla, sentenzia amaro il mio interlocutore, da proporre. La presenza
di un paese che non pratica la ricerca non può essere rilevante nei
consessi in cui si decide la strategia della ricerca agraria per le
grandi aree del Pianeta.
Quindi
non esiste più, chiedo a Salamini, nelle università e negli
istituti sperimentali italiani, un laboratorio che operi per la
costituzione di piante più produttive per l’agricoltura nazionale?
In Italia la costituzione vegetale non esiste più, conferma
Francesco Salamini, nella sfera pubblica e in quella privata. Tra le
due i compiti sono, peraltro, radicalmente mutati: nei laboratori
pubblici oggi si indagano le condizioni preliminari, genetiche,
biologiche, fitopatologiche, climatiche, per creare piante nuove, nei
laboratori delle università italiane si studia la genomica, con
risultati apprezzabili per il frumento, la vite, le specie
fruttifere, ma dalla genomica dovrebbero promanare inputs
per la costituzione, dai laboratori delle nostre venticinque
università non esce nulla che possa convertirsi in una pianta
nuova, siccome la costituzione in questo Paese si è dissolta. E’
vero che gli standard sono, ormai, internazionali, che solo una
società multinazionale può operare, oggi, nel mondo delle sementi,
e non esiste una multinazionale italiana del seme: quanto avevamo di
più simile a una multinazionale era la Federconsorzi, ma se ne è
voluto il naufragio.
Non
esiste più, quindi, una genetica applicata italiana,e senza
genetica applicata l’agricoltura italiana non potrà più crescere,
non potrà superare la crisi che la attanaglia. Per produrre inputs
da
convertire in nuove piante venticinque università, con le relative
sedi distaccate, ribadisce Salamini, non servono a nulla, e
tragicamente la rassegnazione, o l’indifferenza, che hanno si sono
impadronite della coscienza nazionale non possono rianimare
un’agricoltura che appare, ormai, preda della paralisi, non possono
accendere le energie giovanili necessarie ad affrontare le sfide
imposte da questa crisi che coinvolge tutte le sfere della vita
economica, quindi di quella civile.
Francesco
Salamini è convinto che l’agricoltura del futuro dovrà fondarsi
su piante annuali convertite in piane poliennali, il frutto di una
radicale rivoluzione biologica che consentirebbe di ridurre i costi
di impianto di tutte le colture di pieno campo e amplierebbe a
dismisura i periodi durante i quali le piante disporrebbero di un
apparato vegetativo in grado di convertire energia solare in composti
organici: un obiettivo dalle immense difficoltà, per affrontare il
quale occorrerebbero energie finanziarie, scientifiche, ed autentico
entusiasmo, che animasse tutti i giovani impegnati nella ricerca. Ma
in un paese che pare preda di un cinico fatalismo l’entusiasmo è
sentimento di cui l’anima collettiva sembra divenuta incapace, un
sentimento che le ultime generazioni di italiani non hanno mai
conosciuto e non saprebbero provare. Ma se non sapranno accendersi di
entusiasmo, conclude, appassionandosi, il mio interlocutore, se non
immagineranno risposte adeguate alla sfida che li investe
direttamente, i nostri figli non avranno futuro diversa da quello di
guide nei musei, un impiego onorevole in un paese che vanta i cimeli
di un grande passato, che ha accettato di non avere alcun futuro.
È stato professore di Botanica e fisiologia presso la Facoltà di Agraria dell'Università di Piacenza e Direttore della Sezione Maiscultura di Bergamo dell'Istituto sperimentale per la Cerealicoltura di Roma. È stato dal 1985 al 2002 il direttore dipartimento di Miglioramento genetico e fisiologia delle piante della Max-Planck-Gesellschaft zur Förderung der Wissenschaften, di Colonia che è la più importante istituzione europea del settore. Tornato in Italia è coordinatore nazionale del "Piano Nazionale per la Biotecnologia Vegetale" del Ministero dell'agricoltura. È dottore honoris causa dell'Università di Bologna e Chairman del Comitato Scientifico del Parco Tecnologico Padano. Collabora come esperto scientifico alla realizzazione dell'Expo 2015 confermato poi nel Comitato scientifico. Nel 2007 è stato insignito della benemerenza civica dal sindaco di Castelnuovo Bocca d'Adda.
L'11 settembre 2009 è stato nominato dalla Giunta provinciale di Trento Presidente dell'Istituto Agrario di San Michele all'Adige.
Il 26 guigno 2014 il professore Salamini, è intervenuto come relatore,
alla presenza del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in occasione della cerimonia di
chiusura dell'anno accademico 2013-2014 dell’Accademia dei Lincei.
La relazione dal titolo: “Innovazione in agricoltura, sviluppo rurale e ambiente" è scaricabile dal sito del Quirinale (qui).
PS: "La ricerca senza genetisti è un'agricoltura senza futuro", l'ex uomo politico e presidente della Fondazione Diritti Genetici, Mario Capanna, a proposito di OGM...
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