di Antonio Saltini
L’uomo
ha sempre scrutato, ansiosamente, attorno a sé, eventi naturali e
vicende civili ricercando gli indizi che gli consentissero di
prevedere quali amici o nemici, quali prede o avversità avrebbe
incontrato domani.
Offrono la prova più antica di un’autentica dottrina per comprendere i segni premonitori del futuro le immense collezioni di ossa piatte reperite negli insediamenti del più antico Neolitico cinese, la cultura di Yang Shao, fiorita tra il Shansi e lo Shensi, portanti incisioni la cui lettura, per quanto non agevole, ne attesterebbe la natura di vaticini.
I dotti cinesi hanno sempre proclamato la continuità della civiltà del Celeste impero dal primo villaggio neolitico all’ultimo titolare di un potere imperiale dissolto. I grafiti su una scapola corrisponderebbero già alle regole della futura scrittura cinese. Non disponendo delle conoscenze per confermare, né per confutare il convincimento mi arresto all’annotazione che siamo cinquemila anni avanti Cristo.
Offrono la prova più antica di un’autentica dottrina per comprendere i segni premonitori del futuro le immense collezioni di ossa piatte reperite negli insediamenti del più antico Neolitico cinese, la cultura di Yang Shao, fiorita tra il Shansi e lo Shensi, portanti incisioni la cui lettura, per quanto non agevole, ne attesterebbe la natura di vaticini.
I dotti cinesi hanno sempre proclamato la continuità della civiltà del Celeste impero dal primo villaggio neolitico all’ultimo titolare di un potere imperiale dissolto. I grafiti su una scapola corrisponderebbero già alle regole della futura scrittura cinese. Non disponendo delle conoscenze per confermare, né per confutare il convincimento mi arresto all’annotazione che siamo cinquemila anni avanti Cristo.
Offre
una messe di prove della medesima ricerca degli indizi da cui
desumere quanto avverrà la storia dell’Occidente: quattromila anni
dopo le scapole incise di Yang Shao la guerra di Troia ha inizio col
vaticinio dell’indovino che condanna a morte la figlia innocente di
Agamennone. Varcato l’Adriatico constatiamo che tra gli elementi di
civiltà di cui Roma si appropria soggiogando gli Etruschi i
conquistatori dimostrano un apprezzamento particolare per l’arte
degli aruspici, maestri a leggere il futuro nei contorcimenti delle
viscere di un animale sacrificato e nel volo degli uccelli. Se,
installato l’augure nella propria specola, compare, nel cielo,
un’aquila che ghermisce una gru, che si libera dagli artigli e
fugge, il popolo intero trema, attendendo attonito che il vate
spieghi il significato del portento.
Il
testo che ci fornisce le conoscenze più dettagliate sul rilievo
civile della “scienza” del futuro nei popoli antichi è la
Bibbia. Metà della grande raccolta è costituita da libri profetici,
ma esula dall’oggetto di questa conversazione commentare gli
annunci dell’avvento di Cristo. Usando il testo come semplice fonte
storica possiamo fissare l’attenzione sulle vicende di due giovani
ebrei, che, in possesso di doti divinatorie, misurano la propria
scienza con le esigenze di due dei maggiori sovrani del tempo, il
Faraone e il signore di Babilonia, Nabucodonosor. Il primo episodio
ci riferisce l’ansiosa ricerca del sovrano di un vate in grado di
interpretare due sogni inquietanti: quello delle spighe ricolme
divorate dalle spighe riarse, quello delle vacche grasse sbranate
dalle macilente. Reperito in Giuseppe il veggente in grado di
rivelare il mistero, consegnandogli il proprio anello il Faraone
dimostra quale potere fosse assegnato ad un vate verace.
Il
secondo episodio ci fornisce dettagli di precipuo interesse: il
sovrano di Babilonia ha, in sogno, una visione orrenda, si ridesta,
atterrito, senza ricordare quanto ha sognato, che pretende sia un
mago a rivelargli. Convoca quindi, maghi, arioli, pitonesse,
indovini, riferisce il testo testimoniando che gli interpreti del
futuro erano divisi, nella società babilonese, in una pluralità di
“scuole” o professioni, ciascuna delle quali si serviva di
strumenti peculiari per assolvere alle finalità che le accomuna.
Non è meno significativo rilevare che quando la composita schiera di
“maestri” si dimostra incapace di assolvere al mandato viene,
globalmente, condannata a morte, e che è Daniele, erede genuino di
Giuseppe, a salvare magi e pitonesse dichiarandosi in grado di
appagare il desiderio del sovrano.
Non
è meno significativo dei rilievi che suggeriscono le storie dei due
veggenti quanto propongono i versi con cui Salomone, l’erede di
entrambi, riferisce del dono della profezia che gli è stato concesso
dall’Onnipotente:
“Ipse enim dedit
mihi horum, quae sunt, scientiam
veram,
ut sciam dispositionem orbis terrarum et virtutes elementorum,
initium et consummationem et medietatem temporum,
vicissitudinum permutationes et commutationes temporum,
anni cursus et stellarum dispositiones,
naturas animalium et iras bestiarum,vim spirituum et cogitationes hominum,differentias virgultorum et virtutes radicum.”
ut sciam dispositionem orbis terrarum et virtutes elementorum,
initium et consummationem et medietatem temporum,
vicissitudinum permutationes et commutationes temporum,
anni cursus et stellarum dispositiones,
naturas animalium et iras bestiarum,vim spirituum et cogitationes hominum,differentias virgultorum et virtutes radicum.”
Il
veggente e l’altare
La
storia antica è pervasa, quindi, dal desiderio di conoscere il
futuro, un compito affidato a classi di vati che usano strumenti
peculiari di comunicazione con la realtà ultrasensibile cui chiedono
di sapere l’evoluzione delle vicende umane. Le pratiche diverse
presuppongono, in ogni caso, un interlocutore al di là della realtà
sensibile, una potenza ultraterrena che può essere immaginata
malvagia, come molti dei demoni interpellati da aruspici e maghi, o
benevola, come l’Onnipotente che Salomone ringrazia del dono
ricevuto.
Non
costituisce compito di chi tratteggia questo schizzo argomentare se e
come sia possibile che l’uomo comunichi con le potenze del Cielo o
degli Inferi. Credo peraltro gli competa rilevare la fondatezza
dimostrata da più di un vaticinio famoso, quale quello della Pizia
di Delfo che, riferisce Erodoto, assicurò gli Atenesi che avrebbero
avuto ragione dello straripante esercito persiano riparandosi dietro
le proprie “mura di legno”, o la serie senza fine di santi
monaci e monache che, incontrando un cardinale gli predis- sero la
tiara, che al conclave successivo il prelato avrebbe realmente posto
sul capo.
Ricordata
la millenaria ricerca di contatto con l’ultraterreno si può
rilevare che tra il Quattrocento ed il Settecento si impone su ogni
procedura diversa per la comprensione del futuro l’astrologia,
pratica di antica origine persiana, ampiamente praticata a Roma, dal
Cinquecento considerara autentica scienza, e come tale onorata dai
dotti che esperiscono il tentativo di comporre le prime intuizioni
della scienza moderna con i canoni della magia antica, figure che
dominano tanto il Cinquecento quanto il secolo successivo: ricordiamo
Telesio, Bruno, Campanella. E Galilei, conteso autore di oroscopi.
Sulla
confutazione delle fondamenta scientifiche dell’astrologia non si
può non ricordare la magistrale dimostrazione di Sant’Agostino,
ricalcata, nel Quattrocento, da Pico della Mirandola, confermata, sul
piano astrofisico, da Antonino Zichichi. Nè Agostino, né Pico né
Zichichi hanno prosciugato, peraltro, il fiume di proventi che si
riversa nella borsa di astrologhi di fama maggiore e minore, un fiume
che scorre beneficando, altrettanto generoso, cartomanti, chiromanti,
medium e cultori di magia nera, un coacervo di categorie di cui
nessuna crisi economica minaccia le fortune, le cui prestazioni non
sono soggette a ricevuta fiscale, né possono essere detratte dalle
tasse da chi alla chiromante chieda di restituirgli, quando crolla la
borsa, la fortuna in affari.
Tra
scienza e speculazione filosofica: Littré e Pasteur
Se
il prestigio dell’astrologia quale vera scienza conosce il proprio
apice tra Cinquecento e Seicento, la filosofia moderna genera una
nuova dottrina per la previsione “scientifica” del futuro nei
decenni di più appassionante dilatazione delle conoscenze fisiche,
chimiche e biologiche, i decenni a metà dell’Ottocento. Sedotto
dall’assoluta certezza conquistata dall’esperimento scientifico,
che ripetuto cento volte deve produrre il medesimo risultato,
considerando l’ineluttabilità dell’errore umano, in novantotto
prove, Auguste Comte proclama che l’uomo sarebbe, come tutti gli
esseri naturali, soggetto a leggi inviolabili che ne determinerebbero
il comportamento sociale e le scelte morali: le sue opzioni sarebbero
prevedibili, quindi, come quelle del lupo di fronte all’agnello o
della zebra alla vista del leone lontano. Traduce la dottrina di
Comte nel primo sommario della storia umana affrontata come
espressione di inderogabili norme di comportamento sociale Emile
Littré, il più dotto erudito della Francia dell’età di Balzac e
Hugo.
La
Francia di Balzac è anche la Francia di Pasteur, riconosciuto
dall’intero mondo civile quale fondatore di due scienze nuove, la
microbiologia e la biochimica, e come tale oggetto di considerazione
universale. La Francia deve accogliere il figlio illustre nel proprio
Parnaso, l’Académie de France, ma sul suo ingresso l’Académie è
in conflitto con la propria anima, l’anima della maggioranza che si
riconosce nel materialismo di Comte. Consapevole che a Pasteur sia
dovuto un ingresso trionfale, non vuole concedere il trionfo a uno
studioso che nell’Istitut di cui è fondatore ha preteso la
costruzione di una cappella dove ritirarsi, tra una conferenza e la
redazione della memoria sull’ultima scoperta, davanti al
Crocefisso. La tradizione del consesso stabilisce che i seggi, il cui
numero è fisso, vengano rioccupati alla morte di chi vi fosse
seduto, e che competa al nuovo occupante pronunciare l’elogio del
predecessore. Contando sulla regola, la presidenza attende la morte
di Littré e assegna al grande scienziato il seggio dell’erudito,
convinta di imporre al fervente cattolico di pronunciare il
panegirico del teorico della storia umana concepita come successione
di reazioni chimiche.
Il
calcolo rivela, peraltro, la propria ingenuità: fisico e biologo,
Pasteur sa guardare alle vicende umane dall’altezza dei giganti:
accettando la sfida sceglie un argomento che sa sconvolgerà l’anima
dell’uditorio, costringerà la Francia ad una difficile riflessione
sui propri convincimenti. Si è conclusa, da pochi mesi, la guerra
franco-prussiana che ha umiliato le ambizioni nazionali di supremazia
culturale, economica, scientifica. Il cuore di tutti i francesi è
stato ferito dagli obici che i cannoni tedeschi hanno diretto alla
periferia della Ville Lumière. Pasteur elogia la vastità degli
studi di Littré, l’originalità delle sue indagini, ma ricorda
che, da storico facendosi augure, Littré ha supposto che la
situazione politica della metà del secolo assicurasse la continuità,
nei decenni successivi, del progresso economico e civile in una lunga
stagione di pace. L’orrore di Sedan ha dimostrato che la previsione
“scientifica” era mera illusione. Le scienze fisiche e biologiche
sono espressione di una conoscenza essenzialmente diversa dalle
scienze umane. Gli uomini sono entità libere, non si comportano come
i reagenti di laboratorio, pretendere di estrapolare la certezza
delle discipline fisiche alla sfera storica o a quella sociale è
prova di sicumera.
Pronunciata dal più autorevole
degli scienziati viventi, l’allocuzione investe l’uditorio di
storici, letterati e giuristi come i colpi di un maglio su un
castello di latta: chi ha immaginato di costringere la scienza
sperimentale a inchinarsi alle certezze degli studi storicistici vede
le certezze dell’indagine filologica, sociologica ed economica
ridimensionate a ipotesi e opinioni, che possono essere più o meno
solidamente fondate, che restano elementi di una sfera diversa da
quella della conoscenza sperimentale.
Ricordata
la demolizione, da parte del più insigne alfiere delle scienze della
natura dell’Ottocento, delle illusioni di impiego delle conoscenze
storiche per la previsione del futuro, si può sottolineare la
coincidenza dei caposaldi concettuali del materialismo di Comte con
quello di Marx, una coincidenza che consente di estendere al secondo
i rilievi proposti per il primo. Chi abbia vissuto, insieme al
relatore, gli anni Cinquanta, ricorda l’insistenza con cui la
pubblicistica marxista proclamava il convincimento che nell’Unione
Sovietica fosse in corso la costruzione di una società fondata su
oggettivi presupposti scientifici. Il disegno della società
“scientifica” in costruzione nei paesi socialisti godette dei
certificati di autenticità suggellati da pensatori illustri fino
agli anni precedenti il tracollo sovietico. Chi ricordi il crollo del
regime moscovita ricorda come la disgregazione imponesse
l’impressione che si dissolvesse una delle costruzioni politiche
più precarie tra quante ne avesse registrate la storia, un colosso
assimilabile a Roma agonizzante o all’Impero ottomano negli ultimi
decenni dell’interminabile crepuscolo.
Popolazione,
risorse naturali, tecnologia
Lasciata
Parigi e superando, nel nostro itinerario, un altro secolo,
individuiamo un’esperienza di precipuo rilievo sull’impiego delle
conoscenze, in questo caso scientifiche, per prevedere eventi futuri,
nell’indagine che il Club di Roma (qui) affida al Massachusetts Institute
of Technology pubblicandone i risultati nei rapporti diffusi,
rispettivamente, nel 1972 e nel 1973. Oggetto dell’indagine due
fenomeni contrapposti, il consumo delle risorse essenziali,
minerarie, energetiche, agricole, la produzione di rifiuti, da parte
di un’umanità in crescita inarrestabile, che, se da un lato
procede verso l’esaurimento degli elementi essenziali alla propria
sussistenza, dall’altro ricolma l’ambiente di reflui che
renderanno la Terra sempre più ostile alla vita, tanto quella
vegetale quanto quella animale, quella, insieme, delle società
umane. Sul terreno metodologico l’indagine propone una
significativa novità nella sfera delle conoscenze umane potendo il
Mit impiegare, nell’esecuzione, i nuovi calcolatori, capaci di
governare centinaia di equazioni con altrettante variabili, mediante
le quali stimare ogni possibile interazione tra le due classi di
variabili considerate.
Lo
sviluppo dell’indagine è oltremodo complesso: se ne possono
enucleare i risultati nel rilievo, proposto dagli estensori dei
rapporti, che il consumo delle risorse primarie avrebbe assunto,
negli anni Sessanta, il carattere dei processi esponenziali, e nella
previsione che, sviluppandosi esponenzialmente, gli stessi consumi
avrebbero condotto ai primi segni di esaurimento di risorse
essenziali nei lustri successivi al Duemila. Dato l’andamento
esponenziale dei processi indagati, il rapporto sottolinea che
ripetendo l’insieme dei calcoli sulla base della supposizione di
disponibilità di risorse doppie di quella note, l’umanita si
sarebbe scontrata con la penuria delle risorse pochi lustri dopo la
data calcolata sulla base delle disponibilità conosciute.
Commentare
i due rapporti dopo quaranta anni, oltre la soglia prevista, quindi,
per i primi segni di esaurimento delle risorse terrestri, non è
compito agevole. Non potendo mancare, assunto l’impegno, di
proporre una valutazione, reputo che la crisi mondiale di cui siamo
spettatori dal 2007, una crisi innescata, sappiamo, da fenomeni
finanziari, imponga di riconoscere, nei propri sviluppi, connotati
peculiari di una crisi da scarsità di risorse. Credo si possa
affermare, infatti, che il petrolio, il cui mercato si era
comportato, fino al 2007, come il mercato di un bene di disponibilità
praticamente illimitata, abbia assunto i caratteri del mercato di un
bene finito, i cui detentori misurano la durata futura delle
disponibilità considerandole destinate ad esaurirsi e decidendo i
prezzi nella consapevolezza che riducendo il prelievo oggi lo si
prolungherà domani, quando i prezzi saranno aumentati
proporzionalmente.
Credo
che i connotati della crisi mondiale quale crisi di disponibilità di
risorse finite sia identificabile in un fenomeno che nessun
economista aveva immaginato: la sostanziale fungibilità dell’energia
e degli alimenti. Gli economisti non conoscono la storia, ignorano
che per millenni i contadini dell’Europa e dell’Asia hanno
rinunciato ad un terzo della produzione delle terre arabili perchè
su quel terzo doveva essere prodotta avena, il carburante per le
macchine da guerra del tempo, i cavalli. Quando il cavallo fu
sostituito dal carro armato, che consumava benzina, l’agricoltura
europea “liberò” dalle colture di “carburante” milioni di
ettari, una circostanza determinante nel contenimento del prezzo
degli alimenti che ha costituito connotato essenziale della civiltà
industriale del Ventesimo secolo.
Nessun
economista avrebbe potuto prevedere, perciò, il fenomeno simmetrico,
che si è imposto, inesorabilmente, quando il dollaro americano,
svalutato da quarant’anni di imprese militari pagate emettendo
bonds
con l’effige di George Washington, ha perduto l’antico potere di
scambio con l’oro giallo e quello nero. Contro i 35 dollari per
oncia concordati dalle banche centrali fino al 1968, all’inizio
della presidenza di George Bush jr. (2000) l’oncia d’oro costava
200 dollari, alla fine del mandato 540, Il petrolio era volato da 50
dollari alla punta di 147. Il mais che gli Stati Uniti vendevano, al
termine della guerra, a 30 centesimi il bushel,
ne valeva, dopo cinquant’anni, 60, in termini reali un prezzo
inferiore. Il dollaro aveva perduto il valore antico, e non lo poteva
riacquistare, il mais aveva conservato il prezzo antico, ma lo poteva
mutare, siccome gli Stati Uniti, primo esportatore mondiale, erano in
grado di ridurre le quantità esportate facendo salire il prezzo fino
al livello che giudicassero più conveniente. Se il dollaro non era
più in grado di acquistare petrolio in termini convenienti, l’entità
delle rese del mais nel Corn Belt era tale da renderne conveniente, a
quei prezzi, la conversione in etanolo, la conversione del cibo,
cioé, in energia. Se pure il Massachusetts Institue of Technology
non avesse previsto che la carenza di energia si sarebbe convertita
in carenza di cibo, la naturale fungibilità tra le due classi di
risorse ha operato perchè la crisi della prima delle risorse
terrestri che ha mostrato il comportamento del bene finito si
traducesse in penuria di cibo. La previsione che le risorse terrestri
avrebbero mostrato dopo il Duemila i primi segni di carenza,
l’assunto del rapporto, pare essersi avverata per l’operare di
una variabile che il rapporto non prevedeva, implicita, peraltro, e
operante in perfetta coerenza alle leggi del Sistema-Terra descritto
dall’insieme delle equazioni definite dagli specialisti del Mit.
Una vicenda
personale
Tra
la pubblicazione del primo e quella del secondo rapporto del Club di
Roma l’autore di questa lectio
si laureava in Scienze agrarie e trovava il primo lavoro nella
redazione di un antico, seppure non più scintillante, settimanale
agricolo. Nel ’73 gli acquisti operati dall’Unione Sovietica per
assicurare la tranquillità sociale sconvolgevano il mercato dei
cereali: tra i primi incarichi assegnati al neoredattore c’era la
cronaca del saccheggio di tre forni, a Napoli, da parte della folla
in rivolta per il timore della carestia. Chi si era laureato leggendo
con curiosità i rapporti del Mit, tanto lontani dall’insegnamento
del professore di economia agraria, si procurava tutta la
pubblicistica sulla crisi, i suoi precedenti, le conseguenze
prevedibili. Tra le conseguenze della crisi a Washington un Olimpo di
istituzioni statunitensi e internazionali creava un organismo per lo
studio delle relazioni tra la popolazione del Pianeta e le risorse a
sua disposizione, il Worldwatch Institute, che nell’ottobre del
1975 pubblicava, come proprio manifesto, un volumetto di 44 pagine
del titolo The
Politics and Responsability of the North American Breadbasket.
Firmava il testo Lester R. Brown, presidente dell’Istituto.
La
crisi dei mercati internazionali provocata dagli acquisti sovietici
sarebbe stata presto dimenticata, i mercati sarebbero stati
ingombrati, per tre decenni, dai surplus degli Stati Uniti e da
quelli della Comunità Europea, impegnati ad attribuirsi la
responsabilità della sorvabbondanza planetaria. Mentre i
responsabili politici delle sponde opposte dell’Atlantico si
scambiavano accuse sull’affondamento dei mercati cerealicoli, il
professor Brown avrebbe continuato a produrre dati sulla penuria
prossima ventura, una penuria inevitabile, dimostravano le sue
analisi, perché gli incrementi che registravano, ancora, le
produzioni, sfruttavano le ultime risorse di suoli, di acque, di
minerali fosforici e, soprattutto, il potenziale residuo di piante
che, coltivate senza manipolazioni dalla Rivoluzione neolitica
all’alba del Novecento, dalla seconda data erano state ricombinate
fino a ottenerne la produzione massima che fossero, naturalmente, in
grado di fornire. Ma le potenzialità genetiche avevano, secondo
Brown, un limite, e a quel limite le creature delle società
sementiere si stavano avvicinando inesorabilmente.
Nel 1980 l’autore du questa
memoria era invitato, ufficialmente, a visitare l’agricoltura
americana, a Washington trascorreva un’ora nella sede del
Worldwatch Institute. Ridendo, un funzionario del Department of
Agriculture gli chiedeva cosa avesse appreso nell’appendice
ufficiosa della Cia. Saputo che il professor Brown era il grande
alchimista che combinava i dati dei satelliti, i rapporti degli
addetti agricoli delle ambasciate Usa, il migliore corpo di agronomi
operante sul planisfero, per distillare la strategia con cui il
Dipartimento di Stato avrebbe impiegato la fame come strumento di
egemonia planetaria, chi legge avrebbe accentuato, da allora,
l’attenzione per gli scritti di Brown e dei collaboratori. Le mie
letture si sarebbero tradotte in una serie di studi sui problemi
della produzione planetaria di alimenti che, pubblicati su qualche
foglio agricolo, tutti i lettori avrebbero abbandonato alla terza
riga siccome erano smentiti da quanto proclamavano, in coro,
economisti, uomini politici, leader dell’informazione, certi che la
tecnologia agricola avesse conseguito, coniugandosi alla chimica e
alla genetica, capacità illimitate, che l’unico problema della
politica agraria consistesse nel contenere le produzioni, che il
proposito di moltiplicarle costituisse espressione di attitudini
ipocondriache che imponevano le cure dello psicologo.
Le stesse letture avrebbero
preso corpo anche in un romanzo di fantapolitica che prevedeva come
fato inevitabile, nel 2057, lo scontro atomico tra Stati Uniti e Cina
per il controllo delle ultime risorse agrarie. Il romanzo, stampato
nel 1996, non ha mai avuto lettori. L’autore è stato perseguitato,
peraltro, per dieci anni, dalla domanda pietosa: “Perché
scrivi cose tanto lontane dalla realtà da non interessare,
palesemente, nessuno?”,
che si è convertita, da tre anni, nella domanda opposta ”Come
hai fatto a immaginare, nel 1996, che il Mondo era diretto alla
penuria, quando il solo problema erano i surplus?”
Cito le domande opposte perché
forniscono la misura delle conoscenze e della percettività
internazionale della classe politica nazionale e del ceto che le è
più intimamente legato, quello giornalistico. Se il più modesto dei
cronisti agricoli era in grado di conoscere quali fossero le fonti
del professor Brown e chi fossero i destinatati dei suoi rapporti, i
successivi ministri dell’agricoltura, e la folla di direttori di
giornali che hanno ispirato, negli ultimi decenni, la propria visione
dell’agricoltura agli aforismi di un gastronomo, che meritava gli
applausi dei cultori di specialità salumiere e di vini d’annata,
ma ignorava l’entità della produzione cerealicola americana e
cinese, uomini politici e giornalisti italiani hanno dato prova di
una conoscenza degli equilibri alimentari planetari che non può non
allarmare chi si preoccupi della sicurezza futura del pane
quotidiano.
Adam Smith
smentisce Columella
Ho
raccontato del futuro convertitosi in presente nel nuovo Millennio
assumendo quale oggetto di osservazione i cereali, l’elemento
chiave per la sazietà o la fame degli abitanti del Pianeta. La
circostanza odierna ci riunisce, però, a festeggiare la stampa di un
volume sulla vite, sarà la vite, quindi, il tema che concluderà
questa lettura. Per riflettere sul tema della previsione del futuro
per la vite ed il suo nettare è obbligo inderogabile ricordare, come
caposaldo di ogni argomentazione, le pagine sulla viticoltura del
fondatore della scienza economica, Adam Smith, che dopo avere
formulato la legge secondo la quale la rendita di tutte le terre
coltivate è determinata dal rendimento della coltura che produce il
cibo più comune, rileva che i grandi agronomi hanno sempre vantato i
redditi delle colture specializzate, al primo posto la vite. Primo,
per prestigio, Columella avrebbe affermato che coltivata con tecniche
adeguate la vite avrebbe assicurato redditi impossibili tanto ai
cereali quanto ai prodotti dell’allevamento. La prerogativa della
vite di assicurare redditi più elevati delle colture concorrenti
costituirebbe un’illusione, dichiara Smith, siccome i maggiori
guadagni del vigneto producono, sistematicamente l’ampliamento
delle superfici vitate, che, inevitabilmente, arrivano a produrre più
vino di quanto il mercato possa assorbire, condannando i proprietari
ad accettare redditi inferiori a quelli dei cereali o a espinatare le
vigne. Solo ad una condizione il vigneto può conservare, ribadisce,
la propria superiorità di ricavi, quando la legge impedisca ai
vigneti di espandersi oltre limiti fissati d’autorià, una misura
che fu assunta da Domiziano, vietando ogni nuovo vigneto nell’Orbe
romano, nel 92, che è stata ripetuta, in Francia, con un’ordinanza
reale, nel 1731.
Non
credo che il commento alla pagina del capolavoro dell’economia di
tutti i tempi imponga argomentazioni defatiganti: la viticoltura sta
vivendo, entro i confini dell’Unione europea, una stagione felice,
ma tutti sappiamo l’entità dei contributi per l’espianto che la
situazione felice ha imposto. Non conosco i segreti del mercato
internazionale del vino, ma reputo sia palese che l’equilibrio
ottenuto, espiantando centinana di migliaia di ettari, dall’Unione
europea, abbia favorito, con il generale, parallelo innalzameno della
qualità, un’offerta che si è proposta sui mercati internazionali
con grande capacità di attrazione. Ma il planisfero è vasto, in
paesi dove la vite non era stata mai coltivata sono stati piantati
migliaia di ettari, che producono vini eccellenti e che possono
divenire decine, o centinaia di migliaia. Gli spostamenti del
baricentro della produzione di vini di successo nel Mediterraneo
antico possono suggerire un’idea delle possibilità degli
spostamenti sul planisfero del Terzo millennio. In questi termini la
storia, e concludo l’itinerario logico di questa lettura, può
essere magistra
vitae: non perchè
sia solita ripetersi, ma perchè ci invita a osservare, con
un’attenzione che non può mai assopirsi, l’orizzonte del tempo
per cogliere il primo segno del fenomeno nuovo che sovvertirà
l’assetto che ci è consueto, e che siamo propensi a reputare
permanente. Sia in termini politici quanto in termini economici chi
del prendere corpo di equilibri nuovi intuisca i segni premonitori in
quegli equilibri potrà protrarre libertà e prosperità, chi degli
assetti prossimi non percepisca l’avvento non è improbabile debba
piegarsi, domani, al ruolo amaro del soccombente.
Interessante il dossier di Focus che nell'ultimo numero fa il punto su una futura missione su Marte: sapevate che Marte ha un terzo della gravità terrestre, che la temperatura media è di circa –60 °C e che le radiazioni assorbite durante il viaggio corrispondono a una Tac ogni 6 giorni?
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