di Antonio Saltini e con Dario Casati
La
terza sequenza delle vicende dell’agricoltura italiana dagli anni
Sessanta al nuovo Millennio è il saggio scenico di ministri,
funzionari, rappresentanti confederali italiani a Bruxelles, un
saggio che ci ha veduti rispettare con devota fedeltà il ruolo
scelto alle origini del sodalizio comunitario, quello di rispettose,
e disinteressate, comparse. A rievocarne gli attori e lo stile è un
osservatore che ha sempre seduto in prima fila a scrutare le vicende
comunitarie, Dario Casati, docente di economia e politica agraria.
Realizzo
la terza delle conversazioni che mi sono proposto su quarant’anni
di agricoltura italiana affrontando un tema cruciale: le forme, i
propositi, i risultati della partecipazione italiana alla politica
agricola comunitaria, vicenda storica, ormai, nel duplice significato
che può attribuirsi al termine, considerando la politica agricola un
continuum
di
scelte e realizzazioni che ha espresso la valenza degli eventi che
condizionano la vita economica e civile di popoli e paesi durante
l’arco di generazioni successive, qualificandola, insieme,
circostanza che avuto il proprio inizio ed è giunta al proprio
termine, siccome la strategia che i firmatari del patto di Roma
immaginarono per il governo dell’agricoltura è stata tanto
radicalmente alterata da costituire, oggi, fantasma politico in cui
non è riconoscibile il progetto delle origini. Enuclea la storia
della parte giocata, nella vicenda, dall’Italia, Dario Casati,
docente di economia e politica agraria, prorettore dell’Università
di Milano, osservatore qualificato degli eventi di Bruxelles da
quando a Bruxelles realizzò, neolaureato, uno stage
di
sei mesi a contatto con i primi protagonisti del sodalizio
comunitario, fruendo del confronto quotidiano con direttori generali
e alti funzionari, con lo stesso Mansholt, verificando, presente ai
primi consigli dei ministri, lo stile ed il peso dei rappresentanti
italiani, stile e peso che avrebbero imposto il cliché d’obbligo,
in una patetica, interminabile ripetizione, a tutti i successori.
Carbone,
acciaio e forza lavoro
La
Comunità, l’istituzione che per anni avremmo chiamato il Mec,(qui)
esordisce Casati, fu fondata da tre grandi paesi, da due paesi
minori, dalle dimensioni di una regione italiani, e da una
città-stato, il Lussemburgo. Tra i tre paesi maggiori la Francia
apportava alla dotazione comune l’acciaio, la Germania il carbone,
noi entrammo con l’impressione di essere accettati perché potevamo
offrire emigranti: i minatori per le miniere di carbone e gli operai
per gli altoforni. Siamo entrati con un forte complesso di
inferiorità, saremmo divenuti, nei lustri successivi, una potenza
industriale: il nostro atteggiamento non sarebbe mai mutato.
Se i nostri uomini politici degli anni Sessanta a Bruxelles non andavano volentieri siccome immaginavano di doverci andare col cappello in mano, i successori non ci sarebbero andati con uno spirito diverso perché verso la Comunità avevano ereditato un sentimento profondo di estraneità, un radicato disinteresse: eravamo entrati nel sodalizio come soci di minoranza, gli eventi di Bruxelles non avrebbero mai acquistato autentico rilievo a Roma, dove quanto avveniva a Bruxelles non avrebbe mai condizionato la vita politica. Per un parlamentare italiano andare a Bruxelles avrebbe sempre significato assentarsi dal teatro delle scelte essenziali, assentarsi rischiando di mancare al momento in cui giocare le proprie carte. Si possono ricordare, a proposito, episodi emblematici: Emilio Colombo avrebbe preteso la conclusione del primo consiglio dei ministri, il 13 gennaio 1962, accettando le imposizioni francesi, compromettendo la resistenza della Germania, decisa a negoziare ancora, rinunciando a qualunque richiesta italiana, a compensazione dei vantaggi ottenuti dalla Francia, perché il giorno successivo si sarebbe aperto, a Roma, il congresso della Democrazia cristiana, dove, era noto, gli assenti non avrebbero potuto prenotarsi per qualche poltrona di prestigio. Franco Maria Malfatti,(qui) il primo, per decenni l’unico, presidente italiano della Commissione, abbandona, a metà, il mandato per correre in Italia a partecipare alla campagna elettorale. L’unico successore, Prodi, non avrebbe illuminato trent’anni senza un giorno di gloria.
Se i nostri uomini politici degli anni Sessanta a Bruxelles non andavano volentieri siccome immaginavano di doverci andare col cappello in mano, i successori non ci sarebbero andati con uno spirito diverso perché verso la Comunità avevano ereditato un sentimento profondo di estraneità, un radicato disinteresse: eravamo entrati nel sodalizio come soci di minoranza, gli eventi di Bruxelles non avrebbero mai acquistato autentico rilievo a Roma, dove quanto avveniva a Bruxelles non avrebbe mai condizionato la vita politica. Per un parlamentare italiano andare a Bruxelles avrebbe sempre significato assentarsi dal teatro delle scelte essenziali, assentarsi rischiando di mancare al momento in cui giocare le proprie carte. Si possono ricordare, a proposito, episodi emblematici: Emilio Colombo avrebbe preteso la conclusione del primo consiglio dei ministri, il 13 gennaio 1962, accettando le imposizioni francesi, compromettendo la resistenza della Germania, decisa a negoziare ancora, rinunciando a qualunque richiesta italiana, a compensazione dei vantaggi ottenuti dalla Francia, perché il giorno successivo si sarebbe aperto, a Roma, il congresso della Democrazia cristiana, dove, era noto, gli assenti non avrebbero potuto prenotarsi per qualche poltrona di prestigio. Franco Maria Malfatti,(qui) il primo, per decenni l’unico, presidente italiano della Commissione, abbandona, a metà, il mandato per correre in Italia a partecipare alla campagna elettorale. L’unico successore, Prodi, non avrebbe illuminato trent’anni senza un giorno di gloria.
Il
rifiuto morale di reputarci parti alla pari del sodalizio ha un
riscontro eloquente nel ruolo e nel prestigio del personale italiano
in servizio alla Commissione: ai concorsi per le prime assunzioni,
mentre Germania, Francia e Olanda negoziano con durezza ogni
direzione generale, i nostri ministri reputano un vanto collocare
centinaia di uscieri e fattorini, i figli dei minatori italiani in
Belgio, che potevamo candidare a quel ruolo perché capivano il
francese: il precedente glorioso dello stormo di telefoniste
abruzzesi che si sarebbero insediate nel cuore delle comunicazioni
comunitarie al seguito di Lorenzo Natali, intemerato paladino
dell’emancipazione femminile tra le donne dei propri monti. E da
allora i governanti di Roma si sarebbero sempre signorilmente
astenuti dalle negoziazioni per direzioni e vicedirezioni generali,
gli italiani che avrebbero vinto un concorso nella burocrazia
comunitaria per fare carriera avrebbero dovuto offrire la propria
devozione al superiore tedesco o belga, e, simmetricamente, nessun
italiano che avesse realizzato, a Bruxelles, una carriera
scintillante, avrebbe mai potuto avvalersene per guadagnare, a Roma,
un ruolo ministeriale di primo piano. Come i medici che hanno
operato, in America, nella clinica di un Nobel, e, tornati a Firenze,
o a Bologna, sono stati paralizzati dalla diffidenza con cui i
colleghi hanno impedito che potessero realizzare, utilizzando l’
esperienze americana, una clinica di standard internazionale.
“Voglio
solo sapere se dire si o no!”
Del
ruolo di comparsa dell’Italia nel sodalizio comunitario Dario
Casati ha goduto dell’amaro privilegio di essere, all’alba del
sodalizio, testimone diretto: vinto, appena laureato, il concorso
bandito dalla Commissione per uno stage
di sei mesi a contatto con la prima burocrazia comunitaria, ricorda
con commozione l’attenzione che ai giovani del gruppo dedicava il
primo presidente della Commissione, Sicco Mansholt,(qui) un uomo assurto
al mito tra gli artefici del consorzio di nazioni nato per restituire
ai popoli d’Europa, dopo l’orrore del secondo conflitto mondiale,
la fiducia reciproca, la certezza del progresso, per conquistare
all’Europa, antica dominatrice coloniale del Pianeta, il ruolo
nuovo di potenza impegnata alla cooperazione per il benessere della
collettività internazionale. Di Mansholt ricorda, con emozione
particolare, l’invito a confrontare le idee, all’alba
(letteralmente, dato l’uso di protrarre i dibattiti durante la
notte) delle riunioni dei ministri, le proprie idee con i
giornalisti: avendo espresso a rappresentanti della stampa
valutazioni che non corrispondevano a quelle del portavoce del
Consiglio, lo stesso funzionario avrebbe preteso che il Presidente
della Commissione smentisse il neolaureato italiano che esprimeva
opinioni che non era autorizzato a manifestare. Dopo avere
ufficialmente dichiarato che il partecipante ad uno stage
non poteva formulare valutazioni che potessero essere attribuite alla
Commissione, Mansholt lo avrebbe convocato per invitarlo a
proseguire, sostituendo un ristorante alla sala stampa, i contatti
con i giornalisti.
Del
ruolo italiano a Bruxelles Casati avrebbe compreso l’essenza
osservando forme e modi del confronto di Restivo, uno dei primi
ministri dell’agricoltura di Roma a partecipare all’agone
comunitario, con i colleghi: dopo avere proposto i dati su una
produzione chiave dell’agricoltura italiana il ministro italiano
veniva platealmente smentito dal collega olandese, che spiegava che
l’addetto agricolo dell’ambasciata olandese a Roma disponeva di
dati più aggiornati di quelli forniti a Sua Eccellenza dal
Ministero. Quando, in uno degli intervalli di rito della riunione,
il Ministro si ritirava nel ridotto della delegazione italiana per
valutare, con i collaboratori, il procedere della trattativa, Casati,
presente, assisteva al patetico sforzo di direttori e vicedirettori
ministeriali per spiegare a Sua Eccellenza le connessioni di dati e
proposte: irritato dalla complessità del problema il Ministro
avrebbe tacitato i collaboratori ordinando, ultimativo. “Voi
dovete solo dirmi se devo dire si o devo dire no. Tutto il resto non
interessa. Voglio sapere se il nostro deve essere un si o un no!”
L’ignoranza
orgogliosamente difesa da sua eccellenza Restivo su un dossier che
Casati non ricorda se riguardasse polli, pomodori o mozzarelle, non
costituiva, mi spiega, che il corollario dell’assoluta
indifferenza, per il Governo nazionale, verso qualunque provvedimento
in corso di elaborazione a Bruxelles. La politica comunitaria ha
conosciuto grandi, drammatiche svolte, mi ricorda: ognuna è stata
preparata da documenti che dalla bozza stilata da un ufficio della
Commissione conoscevano, durante uno, due anni di elaborazione,
modifiche molteplici, spesso radicali, dopo l’incontro tra ministri
francesi e tedeschi, o la colazione dei medesimi ministri con il
responsabile agricolo della Commissione. All’iter dei documenti che
hanno segnato le tappe della politica agricola comune l’Italia è
sempre stata assente: i nostri ministri, ribadisce Casati, “si
accorgevano” del documento quando veniva diffusa la versione
definitiva, quando, cioè, sul testo si erano espressi i ministri
francesi e tedeschi, quando, quindi, “il gioco era fatto”. Se
quei documenti disconoscevano, o, addirittura, colpivano interessi
italiani, l’Italia avrebbe espresso la propria opposizione,
un’opposizione che, siccome si manifestava su una scelte già
concordata dai propri partner, era inevitabilmente, isolata, che si
sarebbe tradotta in un conato negoziale privo di possibilità di
successo.
All’evoluzione
della politica della Comunità l’Italia, conclude amaro Casati, non
ha prestato una sola idea, non ha mai offerto un contributo di
rilievo per il prendere corpo di un documento destinato a segnare una
svolta. Al ruolo di comparsa scelto alle origini del sodalizio
abbiamo assolto, con cinica fedeltà, fino alla fine. La prossima
grande svolta, la scelta delle linee che dovrebbero orientare la
politica agraria dell’Unione nel nuovo Millennio, sarà, ancora,
una svolta che ci sarà imposta e che accetteremo supinamente, senza
avere prestato alcun contributo alla sua elaborazione. Il numero dei
soci è mutato: nonostante possiamo vantare, di fronte ai nuovi
adepti del Nord e dell’Est, il titolo di soci fondatori,
rispettando lo spartito delle scelte antiche alla decisione in
discussione da mesi non abbiamo rivolto alcuna attenzione: non lo
abbiamo mai fatto, al disegno della politica agricola del Millennio
appena iniziato non presteremo il contributo di un paese la cui
classe politica possedesse una visione della direzione in cui si
vanno evolvendo i rapporti nel consorzio di paesi che debbono
condividere la gestione dell’unico globo sul quale coabitano.
Litigare
con gli amici: una strategia vincente
Ricordo
Giuseppe Medici definire, garbatamente ironico, l’amico Marcora “un
uomo dalle virtù risorgimentali”. In sintonia al giudizio del
grande maestro dell’economia agraria Dario Casati esamina gli
elementi che fecero del ministro Marcora (qui) la singolare eccezione dello
stile italiano a Bruxelles. Marcora capì, mi spiega, che per stare
nel gioco del Consiglio bisognava conoscere i colleghi e negoziare, e
con l’aereo ministeriale intessé la trama più intensa di contatti
personali, per capire e per farsi capire, così che quando, secondo
i turni di rito, gli spettò la presidenza del Consiglio, era amico
di tutti, conosceva quello che ciascuno pretendeva, sapeva quello che
a tutti avrebbe potuto chiedere. Aveva capito che stabiliti rapporti
personali si poteva litigare, e che litigando si poteva ottenere.
Litigare, sorride Casati, conoscendo i dossier:
del
ministro lombardo il prorettore dell’Università di Milano conserva
ricordi personali che menziona con affettuosa ironia, dalla
telefonata serale con cui il Ministro gli chiese chiarimenti su dati
che Casati aveva pubblicato e di cui “Albertino” Marcora voleva
comprendere il significato, ai numerosi convegni durante i quali
interrompeva la discussione e pretendeva che fosse lui a spiegare:
“Professurìn, glie lo spieghi mo
lei!”
Una
straordinaria capacità tattica, riconosce Casati, senza violare il
principio che obbligava l’Italia a ignorare qualunque orizzonte
strategico. Come stratega Marcora avrebbe proposto il “quadrifoglio”,
creatura illegittima di un’idea americana, nota il mio
interlocutore, che nessuna strategia avrebbe imposto all’anarchia
agraria italica. Solo Pandolfi, l’intelligenza del filosofo,
avrebbe tentato di elaborare un autentico disegno di strategia
agraria, Casati lo ricorda con devozione, annotando amaro che ci fu
chi reagì con drammatica tempestività, reputando che un piano del
Ministro incrinasse il proprio ruolo di unico arbitro
dell’agricoltura nazionale, e pretendendo di imporre il proprio
senza accettare obiezioni. Purtroppo, annota amaro, il contropiano di
Arcangelo Lobianco era la più colorita macedonia di idee eterogenee
raccolte in una settimana per anticipare, con una grandiosa
presentazione nell’hotel dei convegni politici decisivi, il piano
del Ministro. In termini di capacità negoziale, annota, con rigore
storico Casati, l’unico, tra i successori, che possa vantare di
avere creato un’alleanza attorno ad interessi italiani, nel caso la
necessità di concludere la tragicommedia delle quote latte, sarebbe
stato il ministro dell’agricoltura del premier
D’Alema, De Castro, riuscito nel portentoso proposito di unire i
grandi esportatori comunitari a difesa del diritto dell’Italia,
primo tra i paesi importatori, a produrre una quantità di latte meno
lontana al fabbisogno nazionale. Su piano della strategia
agropolitica, non uno solo dei responsabili successivi di via Venti
Settembre, conclude categorico, merita una menzione.
Malgrado
la politica delle tre teste, il progresso delle produzioni
Il
disinteresse del mondo politico per le decisioni di Bruxelles è
stato compensato, chiedo a Casati, dall’attenzione della cultura
economica e agraria, o all’indifferenza politica ha corrisposto
quella di docenti e commentatori? Evitiamo di parlare di
commentatori, mi invita, desolante, Casati: sulla competenza di
quanti hanno spiegato agli Italiani, dalle pagine dei giornali, cosa
significassero le scelte di Bruxelles, è decoroso evitare di
pronunciarsi. Ma anche per la scienza dobbiamo riconoscere che
l’ultimo cinquantennio non ha conosciuto un solo studioso che
potesse confrontarsi con Serpieri,(qui) Tassinari (qui) o Medici,(qui) che sapevano
ideare progetti quali la bonifica integrale o la riforma del
latifondo. Pensiamo alla valenza concettuale di quei disegni nel
quadro economico e civile in cui vennero concepiti, alla capacità di
immaginare, di prevedere, di prefigurare che presupponevano. La
cultura agraria ha seguito, nei decenni recenti, gli indirizzi della
politica, e, si deve aggiungere, delle organizzazioni sindacali,
accomunate, nonostante il luccichio personale di qualche presidenza,
dall’appiattimento su poche idee chiave, luoghi comuni o miti
sacrali, primo tra tutti quello della piccola proprietà
coltivatrice. Il Paese ha vissuto scontri epici, fino ad anni
recentissimi, per i canoni d’affitto o per le clausole con cui
tumulare la mezzadria. Ha impegnato risorse immense per mantenere un
apparato cooperativistico che i grandi partiti consideravano
complemento irrinunciabile. E’ stato spettatore, poi, delle
velleità e delle contraddizioni della politica regionale: le prime
amministrazioni regionali si misurarono con la scelta suprema se
accettare supinamente la versione delle decisioni di Bruxelles
suggellata da Roma o differenziarsi. In un primo momento vi furono
regioni che pretesero di distinguersi, di interpretare le decisioni
di Bruxelles con autonomia, poi, dopo che le interpretazioni
eterodosse furono impietosamente cassate, si è imposto il
conformismo, l’uniformità passiva che corrisponde alla tradizione
romana. Abbiamo sperimentato la politica agraria delle tre teste,
Bruxelles, Roma, Bologna, o Palermo, ma a imporsi è stata, alla
fine, la scelta della “non politica”. La Francia interpreta
Bruxelles secondo i propri interessi, a Roma vige l’interpretazione
letterale, con divieto di ogni uso di facoltà di giudizio autonomo.
Dopo le prime velleità, le regioni hanno seguito Roma, con ferma
passività .
Cinquant’anni
di ossequio supino alle scelte di Bruxelles sono cinquant’anni
senza politica agraria, rilevo: quali ne sono state le conseguenze,
per l’agricoltura italiana, chiedo al mio interlocutore. Nonostante
la “non politica”, nonostante la nostra agricoltura fosse
governata dall’Idra dalle tre teste, nessuna delle quali si
preoccupava delle sue esigenze reali, l ’agricoltura italiana è
progredita, dichiara Dario Casati, ha espresso una capacità di
rinnovamento straordinaria, per forza intrinseca, indipendente da
qualunque disegno, piano o programma. Seguo con attenzione la realtà
padana, dichiara, e a quella voglio arrestarmi: questa non è
l’agricoltura della piccola azienda, è una grande agricoltura
moderna. Prendiamo il riso. Aziende con una superficie risicola media
di cinquanta ettari non sono piccole aziende. E come il riso è la
cerealicoltura, è il latte lombardo. Non credo che tutta
l’agricoltura italiana sia altrettanto dinamica, ritengo che tutta
la collina, e gran parte del Mezzogiorno, conoscano difficoltà
cospicue, ma l’agricoltura di cui sono diretto osservatore esprime
un’autentica vitalità.
Sul futuro, domande inquietanti, nessuna risposta certa
Un’agricoltura vitale nonostante l’assenza cinquantennale di misure specifiche per la sua crescita e il suo sviluppo, rilevo il paradosso. Può apparire liberismo quintessenziale, riconosce Casati, ma bisogna sottolineare che l’effetto delle politiche di Bruxelles, anche se non contribuivamo alla loro definizione, non è stato insignificante, e nella cornice della politica comune questa agricoltura, ribadisco, ha saputo esprimere un autentico dinamismo, ha saputo crescere e progredire.
E
per il futuro, chiedo? Cosa possiamo attendere dal confronto sui
mercati mondiali senza più i baluardi della politica comune? Le
aziende vitali dovranno riconsiderare ancora, severamente, i propri
costi, e adeguare ai costi la propria operatività, ma sono
convinto, dichiara il mio interlocutore, che possano farlo, che siano
in grado di confrontarsi col mercato. A provarlo sono gli affitti
liberi: i canoni che conosco sono astronomici, canoni che nessuno
pagherebbe se dalla terra non guadagnasse.
Ma
reputi possibile, insisto, una produzione agricola vitale senza il
supporto di qualunque politica agraria? La produzione agricola
nazionale non può arrestarsi, risponde, inequivocabile, Dario
Casati: in Italia opera un’industria alimentare imponente, e
l’industria alimentare è obbligata, per ragioni logistiche, a
effettuare parte cospicua degli approvvigionamenti nelle regioni in
cui opera, soprattutto per le produzioni che vantano qualità
riconosciute. I nostri pastifici debbono ricorrere, per mantenere
alta la qualità, anche al frumento di importazione, ma una parte
cospicua hanno comunque convenienza ad acquistarla nelle regioni in
cui sono dislocati, o in quelle finitime. Il principio vale, tanto
più, per l’industria lattiera e per quella delle conserve
alimentari: la nostra produzione di conserve di pomodoro costituisce
un contesto economico formidabile: acquista anche pomodori cinesi, e
la cosa stupisce e suscita reazioni, ma quanto è il pomodoro che
continua ad acquistare in Italia? Tanto: una tradizione secolare
fissava l’area padana del pomodoro tra Parma e Piacenza, oggi il
pomodoro trionfa a Lodi, e chi ha provato il pomodoro a Lodi, e
continua a seminarlo ogni primavera, dimostra che con quella coltura
guadagna, che il pomodoro costituisce una soluzione economicamente
positiva.
Le
aziende delle aree vitali possono confrontarsi col mercato,
riconosco, ma quale può essere il futuro dei consumi? La strategia
per la sicurezza alimentare varata, nel 1958, a Stresa, è stata
cancellata per sempre, siamo tributari ai mercati mondiali di
quantità crescenti di derrate essenziali, siccome produciamo una
quota sempre minore del fabbisogno nazionale. A quali prezzi dovrà
comprare il cibo la famiglia italiana quando sul mercato mondiale
Cina e India avranno espresso la propria fame di carne, di latticini,
di birra? I nostri acquisti sono compensati, finanziariamente, dalle
esportazioni, rileva Casati: beni di valore unitario elevato contro
derrate di base. Il nostro rifiuto di accettare i mais di nuova
generazione ci ha reso dipendenti per una commodity
per la quale godevamo di una felice autosufficienza: importiamo un
quarto del mais che impieghiamo, che ci costa l’equivalente di
tutti i prodotti i.g.p. che esportiamo, un prezzo elevato. Ma su ciò
che possa significare la nuova capacità di acquisto di derrate
alimentari dell’Asia esistono prospezioni che si fondano su quanto
è accaduto in passato, che solitamente non si ripete. Immaginare che
ogni abitante dell’Asia aumenti il consumo di carne di venti chili
e moltiplicare quei venti chili per ricavare la quantità di mais
necessario a produrre tanta carne conduce a cifre astronomiche, ma
non sappiamo quanto mais possa produrre la stessa Asia, e sono troppe
le variabili incerte per tentare prospezioni che possano essere
attendibili. Personalmente ritengo che, nonostante le incognite,
certamente numerose e difficili, l’agricoltura italiana continuerà
a produrre, e il consumatore italiano potrà continuare ad acquistare
il proprio cibo senza drammatiche rinunce a consumi diversi.
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