giovedì 24 luglio 2014

L’ Agricoltura italiana tra torpore secolare, sviluppo travolgente e tramonto

di Antonio Saltini e con Tommaso Maggiore


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Foto di gruppo degli agronomi che hanno contribuito, con il proprio insegnamento e le proprie esperienze, alla prodigiosa crescita che l’agricoltura italiana ha realizzato nei cinquant’anni iniziati nel 1960. La scatta Tommaso Maggiore, per la molteplicità degli incarichi espletati conoscitore ineguagliato di studiosi, scuole, impegni sperimentali, che la propone quale prima tessera di un disegno che sarà completato dall’esame del contributo prestato, accanto all’agronomia, dalle discipline fondamentali che partecipano ad alimentare la crescita di qualunque agricoltura moderna.

 
Una riflessione comune sul futuro divenuto passato

Chi abbia seguito, per scelta personale o per la prepotenza delle circostanze, le vicende dell’agricoltura nazionale nei cinque decenni iniziati nel 1960, non può sottrarsi all’impressione di essere stato testimone di una vicenda assolutamente eccezionale, e storicamente irripetibile: ha assistito al radicale mutamento del volto agrario di un paese le cui terre erano coltivate, negli anni Sessanta, in parte cospicua nelle forme cantate dai versi di Virgilio, ne ha constatato la radicale metamorfosi, registrando la nascita ed il trionfo di una straordinaria molteplicità di comparti produttivi, che rapidamente conquistavano gli standard tecnologici più evoluti e si imponevano sui mercati nazionali e internazionali, assiste, da qualche anno, incredulo, al progressivo atrofizzarsi di settori capitali, alla dissoluzione del tessuto agrario di interi comprensori, nel singolare disinteresse della coscienza collettiva, nell’inerzia della classe politica, nel compiacimento di una cultura economica e di una  classe giornalistica che sui rapporti tra un paese e la propria agricoltura hanno diffuso convincimenti nei quali è arduo distinguere la futile banalità dall’interessata menzogna.
Oggetto, da qualche anno, di incredula osservazione, di riflessione, di qualche nota pubblicata su fogli diversi, lo scenario dell’agricoltura italiana al tornante del Terzo millennio si è convertito, per chi scrive, in oggetto di confronto con amici antichi quando un inatteso, e tardivo, incarico universitario ha ricreato una perduta frequenza di incontri. La conversazione comune ha condotto al proposito di suggellare cinque decenni di impegno nelle sfere diverse della cultura agronomica con una riflessione comune sulle strade percorse, nel lungo arco temporale, dall’agricoltura italiana, un proposito che, date le competenze degli amici coinvolti, si è profilato, dalle origini del progetto, tale da abbracciare le sfere capitali dell’attività agricola. Condotte con la cordialità di chi ha vissuto insieme una vicenda appassionante, le conversazioni hanno dimostrato di intonarsi spontaneamente a essenziali chiavi comuni: secondo le regole di ogni lavoro giornalistico la traduzione su queste pagine di incontri e confronti non impegna, peraltro, che l’estensore, non potendosi attribuire a ciascuno degli interlocutori che la paternità delle affermazioni che siano loro letteralmente riferite.

Ricercatori e ricerche nelle prime facoltà italiane
 
Il primo dei miei interlocutori è Tommaso Maggiore. Ragusano, settant’anni, Maggiore vanta una ricchezza di esperienze di cui pochi agronomi possono citare l’eguale: ha operato negli organismi della sperimentazione e in facoltà diverse, concludendo la propria avventura scientifica all’Università di Milano,  (qui) per la quale ha intrattenuto relazioni con una pluralità di organismi pubblici e privati, misurando l’essenza delle correlazioni tra la scienza universitaria e le espressioni diverse della società che di quella scienza dovrebbe avvalersi per assicurare il soddisfacimento delle proprie essenziali esigenze alimentari.
La cultura agronomica nazionale ha prestato un contributo significativo, esordisce Maggiore, al prodigioso sviluppo che l’agricoltura italiana ha realizzato tra gli anni Sessanta e la fine degli anni Ottanta: è stata in grado di farlo perché nei decenni precedenti si erano consolidate le scuole agronomiche create per affrontare i problemi delle cento agricolture d’Italia, un paese che nell’Ottocento registrava diversità di esigenze, di tradizioni, di colture tali da imporre la molteplicità dei centri di scienza, universitari e sperimentali, che le autorità politiche istituirono, progressivamente, misurandosi con le coazioni di disponibilità finanziarie sistematicamente insufficienti e la difficoltà di reperire gli specialisti cui affidare i nuovi istituti. 

Se un primum deve imporsi ad una rassegna delle scuole dell’Italia agronomica, svolgendosi la nostra conversazione a Milano non è immotivato muovere dalla facoltà fondata, nel 1870, nel capoluogo lombardo, da Gaetano Cantoni, uno dei due uomini che a metà dell’Ottocento si impegnarono a superare l’immenso abisso che separava la cultura agraria nazionale, immota nei pregiudizi del conte Filippo Re, dalla nuova cultura agronomica della Francia, dell’Inghilterra, della Germania, la cultura di De Gasparin, di Lawes, di Liebig. Cantoni moriva nel 1887, gli succedeva sulla cattedra di agronomia uno dei coadiutori di maggiore prestigio, Vittorio Alpe, alla direzione della Scuola un chimico agrario - agronomo con spiccate inclinazioni alla vita politica oltre che alla ricerca scientifica, Angelo Menozzi. Ad Alpe sarebbe succeduto, durante la seconda guerra mondiale Gasparini di provenienza fiorentina. Tra le personalità di precipua levatura scientifica che hanno professato il proprio insegnamento nelle aule della facoltà milanese si devono ricordare altresì l’economista Arrigo Serpieri, il fisiologo animale Usuelli, il microbiologo Carlo Arnaudi, allievo di Samarani, al quale deve attribuirsi il merito di avere diffuso nell’allevamento lombardo la tecnologia dell’insilamento, che, discepolo di Pasteur, fondava sull’acidificazione del foraggio mediante gli acidi organici prodotti dai batteri lattici. Il fienosilo di Samarani assicurava uno strumento efficace agli agricoltori lombardi, tra i quali la cultura agronomica aveva radicato un aforisma caratteristico della Rivoluzione agraria dell’Ottocento: più foraggio più bestiame, più bestiame più letame, più letame più grano.

Un impegno scientifico di precipua levatura avrebbe espletato, dall’alba del Novecento, nella terza delle facoltà d’agraria create nel Regno unificato, quella di Portici istituita l’anno successivo  a quella di Milano ma lungamente inattiva, Emanue,le de Cillis, cui deve attribuirsi un contributo preminente al superamento degli ordinamenti caratteristici, nel Mezzogiorno, della cerealicoltura avvicendata al maggese del latifondo feudale. Ad un impegno parallelo avrebbe assolto un altro agronomo meridionale, Pantanelli, direttore della Stazione sperimentale di Bari quindi fondatore della Facoltà di agraria (qui) e primo docente di agronomia nel capoluogo pugliese. Accanto a De Cillis si sarebbero formati Jannaccone, che avrebbe portato l’insegnamento dell’agronomia, nel 1950, nella nuova facoltà di agraria di Catania, e Raffaele Barbieri, che avrebbe onorato la disciplina insegnando prima alla facoltà di Sassari, quindi, nuovamente a, Portici.
Si sarebbe interrotto, dopo gli esordi luminosi, il magistero agronomico nella prima delle facoltà agrarie italiane, quella fondata, a Pisa,(qui) da Cosimo Ridolfi nel 1844, che dopo il primo allievo dell’agronomo toscano, il messinese Pietro Cuppari, dopo il trapanese Girolamo Caruso ed il breve magistero di Italo Giglioli, forse l’unico agronomo di cultura internazionale operante in Italia negli ultimi lustri dell’Ottocento, non registra figure di rilievo fino ad Avanzi, che nel secondo dopoguerra si circonda di un gruppo di allievi, Ranieri Favilli, Benevenuti, Moschini, Massantini e Tesi, che insieme a Tognoni e Graifenberg daranno vita ad una dinamica scuola per la nuova orticoltura industriale, e con Bonari, ancora oggi attivo a Pisa, condurranno studi originali sugli ordinamenti colturali.

Tra le più antiche facoltà del Paese, in quella di Perugia,(qui) fondata nel 1896, introduce lo studio dell’agronomia Alessandro Vivenza, costitutore vegetale, studioso di foraggicoltura, che prepara alcuni allievi destinati a magisteri brillanti, primi tra gli altri Grimaldi, che lascerà Perugia per Palermo, e Crogioni. Richiamato a Perugia, Grimaldi lascerà la cattedra a Francesco Bonciarelli, che vi salirà giovanissimo dopo una significativa esperienza presso l’Inra francese, mentre a Palermo, dove la Facoltà è nata nel 1941, lascerà la cattedra a Zanini, reduce, durante le bonifiche del Ventennio, dal ruolo di agronomo sperimentatore alla Bonifica Pontina, quindi, istituite le regioni a statuto speciale, da quello di direttore dell’Ente di sviluppo della Sicilia. Crogioni salirà in cattedra, quindi, a Torino, dove gli succederanno Sasso, Luppi, quindi Andrea Cavallero.

Irrigazione e studio dei nuovi ordinamenti

A Bologna, fondata (qui) nel 1901, quarta tra le facoltà d’agraria del Paese, l’insegnamento dell’agronomia inizia i propri fasti quando la cattedra è affidata a Todaro, alle spalle una proficua esperienza nel settore sementiero alla Stazione agraria di Modena, dove ha costituito il primo laboratorio moderno per l’analisi delle sementi e, come costitutore, ha assolto all’impegnativo ruolo di unico competitore dell’astro nazionale di Nazareno Strampelli. Per conto del Ministero dell’agricoltura ha creato, quindi, a Bologna, l’Istituto di allevamento vegetale, dove ha lasciato, come direttore, l’allievo Bonvicini , costitutore di importanti varietà di frumento, orzo, sorgo e pomodoro. Sulla cattedra bolognese gli succederà Mancini, che vanterà tra gli allievi Remigio Baldoni, una delle intelligenze più vivaci dell’agronomia nazionale negli anni Sessanta e Settanta. Tra gli allievi di Todaro si può ricordare Crescini, che il maestro avrebbe voluto sviluppasse i propri interessi di miglioratore vegetale, inviandolo, a questo scopo, a specializzarsi in Germania. Tornato in Italia Crescini avrebbe trascurato, invece, il miglioramento genetico, e, dopo avere insegnato a Torino avrebbe occupato la cattedra di Milano fino alla tragica scomparsa.

A Bari Pantanelli ha apprezzato le doti di un assistente dalle origini milanesi , Luigi Cavazza, che invia a perfezionare le conoscenze sulla fisica del terreno in California. Tornato a Bari Cavazza presterà un contributo determinante allo sviluppo dell’irrigazione nelle regioni meridionali , operando, quale consulente della Cassa per il Mezzogiorno, per l’imponente estendimento delle reti irrigue che, progettato negli anni Sessanta, sarà realizzato nei successivi anni Settanta. Sul terreno scientifico Cavazza si impone come lo scienziato italiano più aggiornato alle nuove metodologie di indagine dell’agronomia internazionale, come docente forma, a Bari, un vivace nucleo di allievi che ne proseguiranno l’opera non solo sul terreno dell’irrigazione e dell’agronomia generale, come Angelo Caliandro, ma anche nelle coltivazioni erbacee, come Vittorio Marzi, nell’orticoltura , come Bianco, nella foraggicoltura. Lasciata Bari Cavazza insegnerà a Bologna.

Negli anni dell’insegnamento barese di Cavazza opera per alcuni anni nella medesima facoltà Remigio Baldoni. Marchigiano, laureato a Perugia, assistente a Bologna, quindi professore di agronomia a Padova, vinta la cattedra si trasferisce a Bari per ritornare a Padova, quindi di nuovo a Bologna. Spostandosi a latitudini tanto diverse, ed in ambienti dalle peculiarità climatiche ed agronomiche tanto dissimili, Baldoni vi imposta studi di lunga durata sugli avvicendamenti colturali, di cui le esigenze economiche stanno imponendo la radicale metamorfosi. Il suo impegno sarà proseguito, nelle tre facoltà, dagli allievi: a Padova da Lucio Toniolo e da Luigi Giardini, a Bologna da Todari. Baldoni si impegna altresì, con l’allievo Allegro Giardini, nel primo sviluppo dell’allevamento bovino fondato sul mais. Maestro prolifico, tra i suoi allievi si debbono ricordare anche Venturi e Amaducci, che hanno dedicato il proprio impegno alle colture industriali, negli anni più recenti a quelle destinate alla produzione di energia.

Alle origini dell’epopea italiana del mais

Non è peraltro possibile ricordare il trionfo realizzato dal mais, in Italia, con l’introduzione degli ibridi americani, una delle vicende più significative della parabola dell’agricoltura italiana del Dopoguerra, senza ricordare Luigi Fenaroli, botanico e fitosociologo, succeduto nella direzione della Stazione sperimentale di maiscoltura di Bergamo a Tito Vezio Zapparoli. Vigorosamente sostenuto da Paolo Albertario, direttore del Ministero dell’agricoltura, che, perché possa, senza interferenze, realizzare la più rapida introduzione in Italia della grande novità agronomica made in Usa lo nomina commissario della Stazione, tra le prime scelte Fenaroli invia nelle università americane una decina di giovani laureati che al ritorno assumeranno, nell’industria, nell’università e negli istituti sperimentali, la guida della storica svolta della maiscoltura italiana.

Appena creata, la nuova maiscoltura italiana manifesterà le proprie ambizioni, alla metà degli anni ’50 realizzando, con materiale nazionale vitreo combinato a linee americane farinose, i propri ibridi, di cui propone quattro serie, la prima, comprendente le costituzioni della Stazione di Bergamo, portanti la denominazione Insubria, le altre tre contrassegnate Felsiena, dall’Istituto di agronomia di Bologna , Etruria, dall’Istituto di agronomia di Perugia) e Igr dall’Istituto di genetica per la cerealicoltura di Roma. La produzione di ibridi nazionali si sarebbe rivelata, peraltro, strada irta di difficoltà: incapace di vincere la competizione con le società americane che offrono prodotti sperimentati nella prima area maidicola del Pianeta, sarà presto abbandonata. In poco più di un decennio la maiscoltura italiana assurgerà, peraltro, a prima maiscoltura europea, a prima al Mondo per la produttività unitaria.

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