di Antonio Saltini e con Tommaso Maggiore
1ª parte
Chi abbia seguito, per scelta personale o per la prepotenza delle circostanze, le vicende dell’agricoltura nazionale nei cinque decenni iniziati nel 1960, non può sottrarsi all’impressione di essere stato testimone di una vicenda assolutamente eccezionale, e storicamente irripetibile: ha assistito al radicale mutamento del volto agrario di un paese le cui terre erano coltivate, negli anni Sessanta, in parte cospicua nelle forme cantate dai versi di Virgilio, ne ha constatato la radicale metamorfosi, registrando la nascita ed il trionfo di una straordinaria molteplicità di comparti produttivi, che rapidamente conquistavano gli standard tecnologici più evoluti e si imponevano sui mercati nazionali e internazionali, assiste, da qualche anno, incredulo, al progressivo atrofizzarsi di settori capitali, alla dissoluzione del tessuto agrario di interi comprensori, nel singolare disinteresse della coscienza collettiva, nell’inerzia della classe politica, nel compiacimento di una cultura economica e di una classe giornalistica che sui rapporti tra un paese e la propria agricoltura hanno diffuso convincimenti nei quali è arduo distinguere la futile banalità dall’interessata menzogna.
Oggetto,
da qualche anno, di incredula osservazione, di riflessione, di
qualche nota pubblicata su fogli diversi, lo scenario
dell’agricoltura italiana al tornante del Terzo millennio si è
convertito, per chi scrive, in oggetto di confronto con amici antichi
quando un inatteso, e tardivo, incarico universitario ha ricreato una
perduta frequenza di incontri. La conversazione comune ha condotto al
proposito di suggellare cinque decenni di impegno nelle sfere diverse
della cultura agronomica con una riflessione comune sulle strade
percorse, nel lungo arco temporale, dall’agricoltura italiana, un
proposito che, date le competenze degli amici coinvolti, si è
profilato, dalle origini del progetto, tale da abbracciare le sfere
capitali dell’attività agricola. Condotte con la cordialità di
chi ha vissuto insieme una vicenda appassionante, le conversazioni
hanno dimostrato di intonarsi spontaneamente a essenziali chiavi
comuni: secondo le regole di ogni lavoro giornalistico la traduzione
su queste pagine di incontri e confronti non impegna, peraltro, che
l’estensore, non potendosi attribuire a ciascuno degli
interlocutori che la paternità delle affermazioni che siano loro
letteralmente riferite.
Ricercatori
e ricerche nelle prime facoltà italiane
Il
primo dei miei interlocutori è Tommaso Maggiore. Ragusano,
settant’anni, Maggiore vanta una ricchezza di esperienze di cui
pochi agronomi possono citare l’eguale: ha operato negli organismi
della sperimentazione e in facoltà diverse, concludendo la propria
avventura scientifica all’Università di Milano, (qui) per la quale ha
intrattenuto relazioni con una pluralità di organismi pubblici e
privati, misurando l’essenza delle correlazioni tra la scienza
universitaria e le espressioni diverse della società che di quella
scienza dovrebbe avvalersi per assicurare il soddisfacimento delle
proprie essenziali esigenze alimentari.
La
cultura agronomica nazionale ha prestato un contributo significativo,
esordisce Maggiore, al prodigioso sviluppo che l’agricoltura
italiana ha realizzato tra gli anni Sessanta e la fine degli anni
Ottanta: è stata in grado di farlo perché nei decenni precedenti si
erano consolidate le scuole agronomiche create per affrontare i
problemi delle cento agricolture d’Italia, un paese che
nell’Ottocento registrava diversità di esigenze, di tradizioni, di
colture tali da imporre la molteplicità dei centri di scienza,
universitari e sperimentali, che le autorità politiche istituirono,
progressivamente, misurandosi con le coazioni di disponibilità
finanziarie sistematicamente insufficienti e la difficoltà di
reperire gli specialisti cui affidare i nuovi istituti.
Se un primum deve imporsi ad una rassegna delle scuole dell’Italia agronomica, svolgendosi la nostra conversazione a Milano non è immotivato muovere dalla facoltà fondata, nel 1870, nel capoluogo lombardo, da Gaetano Cantoni, uno dei due uomini che a metà dell’Ottocento si impegnarono a superare l’immenso abisso che separava la cultura agraria nazionale, immota nei pregiudizi del conte Filippo Re, dalla nuova cultura agronomica della Francia, dell’Inghilterra, della Germania, la cultura di De Gasparin, di Lawes, di Liebig. Cantoni moriva nel 1887, gli succedeva sulla cattedra di agronomia uno dei coadiutori di maggiore prestigio, Vittorio Alpe, alla direzione della Scuola un chimico agrario - agronomo con spiccate inclinazioni alla vita politica oltre che alla ricerca scientifica, Angelo Menozzi. Ad Alpe sarebbe succeduto, durante la seconda guerra mondiale Gasparini di provenienza fiorentina. Tra le personalità di precipua levatura scientifica che hanno professato il proprio insegnamento nelle aule della facoltà milanese si devono ricordare altresì l’economista Arrigo Serpieri, il fisiologo animale Usuelli, il microbiologo Carlo Arnaudi, allievo di Samarani, al quale deve attribuirsi il merito di avere diffuso nell’allevamento lombardo la tecnologia dell’insilamento, che, discepolo di Pasteur, fondava sull’acidificazione del foraggio mediante gli acidi organici prodotti dai batteri lattici. Il fienosilo di Samarani assicurava uno strumento efficace agli agricoltori lombardi, tra i quali la cultura agronomica aveva radicato un aforisma caratteristico della Rivoluzione agraria dell’Ottocento: più foraggio più bestiame, più bestiame più letame, più letame più grano.
Se un primum deve imporsi ad una rassegna delle scuole dell’Italia agronomica, svolgendosi la nostra conversazione a Milano non è immotivato muovere dalla facoltà fondata, nel 1870, nel capoluogo lombardo, da Gaetano Cantoni, uno dei due uomini che a metà dell’Ottocento si impegnarono a superare l’immenso abisso che separava la cultura agraria nazionale, immota nei pregiudizi del conte Filippo Re, dalla nuova cultura agronomica della Francia, dell’Inghilterra, della Germania, la cultura di De Gasparin, di Lawes, di Liebig. Cantoni moriva nel 1887, gli succedeva sulla cattedra di agronomia uno dei coadiutori di maggiore prestigio, Vittorio Alpe, alla direzione della Scuola un chimico agrario - agronomo con spiccate inclinazioni alla vita politica oltre che alla ricerca scientifica, Angelo Menozzi. Ad Alpe sarebbe succeduto, durante la seconda guerra mondiale Gasparini di provenienza fiorentina. Tra le personalità di precipua levatura scientifica che hanno professato il proprio insegnamento nelle aule della facoltà milanese si devono ricordare altresì l’economista Arrigo Serpieri, il fisiologo animale Usuelli, il microbiologo Carlo Arnaudi, allievo di Samarani, al quale deve attribuirsi il merito di avere diffuso nell’allevamento lombardo la tecnologia dell’insilamento, che, discepolo di Pasteur, fondava sull’acidificazione del foraggio mediante gli acidi organici prodotti dai batteri lattici. Il fienosilo di Samarani assicurava uno strumento efficace agli agricoltori lombardi, tra i quali la cultura agronomica aveva radicato un aforisma caratteristico della Rivoluzione agraria dell’Ottocento: più foraggio più bestiame, più bestiame più letame, più letame più grano.
Un
impegno scientifico di precipua levatura avrebbe espletato, dall’alba
del Novecento, nella terza delle facoltà d’agraria create nel
Regno unificato, quella di Portici istituita l’anno successivo a
quella di Milano ma lungamente inattiva, Emanue,le de Cillis, cui deve
attribuirsi un contributo preminente al superamento degli
ordinamenti caratteristici, nel Mezzogiorno, della cerealicoltura
avvicendata al maggese del latifondo feudale. Ad un impegno parallelo
avrebbe assolto un altro agronomo meridionale, Pantanelli, direttore
della Stazione sperimentale di Bari quindi fondatore
della Facoltà di agraria (qui) e
primo docente di agronomia nel capoluogo pugliese. Accanto a De
Cillis si sarebbero formati Jannaccone, che avrebbe portato
l’insegnamento dell’agronomia, nel 1950, nella nuova facoltà di
agraria di Catania, e Raffaele Barbieri, che avrebbe onorato la
disciplina insegnando prima
alla facoltà di Sassari, quindi, nuovamente a, Portici.
Si
sarebbe interrotto, dopo gli esordi luminosi, il magistero agronomico
nella prima delle facoltà agrarie italiane, quella fondata, a Pisa,(qui)
da Cosimo Ridolfi nel 1844, che dopo il primo allievo dell’agronomo
toscano, il messinese Pietro Cuppari, dopo il trapanese Girolamo
Caruso ed il breve magistero di Italo Giglioli, forse l’unico
agronomo di cultura internazionale operante in Italia negli ultimi
lustri dell’Ottocento, non registra figure di rilievo fino ad
Avanzi, che nel secondo dopoguerra si circonda di un gruppo di
allievi, Ranieri Favilli, Benevenuti, Moschini,
Massantini
e
Tesi,
che insieme a
Tognoni
e Graifenberg
daranno vita ad una dinamica scuola per la nuova orticoltura
industriale,
e con Bonari,
ancora oggi attivo a Pisa, condurranno studi originali sugli
ordinamenti colturali.
Tra
le più antiche facoltà del Paese, in quella di Perugia,(qui) fondata nel
1896, introduce lo studio dell’agronomia Alessandro Vivenza,
costitutore vegetale, studioso di foraggicoltura, che prepara alcuni
allievi destinati a magisteri brillanti, primi tra gli altri
Grimaldi, che lascerà Perugia per Palermo, e Crogioni. Richiamato
a Perugia, Grimaldi lascerà la cattedra a Francesco Bonciarelli, che
vi salirà giovanissimo
dopo
una significativa esperienza presso l’Inra francese, mentre a
Palermo, dove la Facoltà è nata nel 1941, lascerà la cattedra a
Zanini, reduce, durante le bonifiche del Ventennio, dal ruolo
di
agronomo
sperimentatore alla Bonifica Pontina,
quindi, istituite le regioni a statuto speciale, da quello di
direttore dell’Ente di sviluppo della Sicilia. Crogioni salirà in
cattedra, quindi, a Torino, dove gli succederanno Sasso, Luppi,
quindi Andrea Cavallero.
Irrigazione
e studio dei nuovi ordinamenti
A
Bologna, fondata (qui) nel 1901, quarta tra le facoltà d’agraria del
Paese, l’insegnamento dell’agronomia inizia i propri fasti quando
la cattedra è affidata a Todaro, alle spalle una proficua esperienza
nel
settore sementiero
alla Stazione agraria di Modena, dove ha costituito
il primo laboratorio moderno per l’analisi delle
sementi
e, come costitutore, ha assolto all’impegnativo ruolo di unico
competitore dell’astro nazionale di Nazareno Strampelli. Per
conto del Ministero dell’agricoltura ha creato, quindi, a Bologna,
l’Istituto di allevamento vegetale, dove ha lasciato, come
direttore, l’allievo Bonvicini , costitutore di importanti varietà
di frumento, orzo,
sorgo
e pomodoro.
Sulla cattedra bolognese gli succederà Mancini, che vanterà tra
gli allievi Remigio Baldoni, una delle intelligenze più vivaci
dell’agronomia nazionale negli anni Sessanta e Settanta. Tra
gli allievi di Todaro si può ricordare Crescini, che il maestro
avrebbe voluto sviluppasse i propri interessi di miglioratore
vegetale, inviandolo, a questo scopo, a specializzarsi in Germania.
Tornato in Italia Crescini avrebbe trascurato, invece, il
miglioramento genetico, e,
dopo avere insegnato a Torino avrebbe occupato la cattedra di Milano
fino alla tragica scomparsa.
A
Bari Pantanelli ha apprezzato le doti di un assistente dalle origini
milanesi , Luigi Cavazza, che invia a perfezionare le conoscenze
sulla fisica del terreno in California. Tornato a Bari Cavazza
presterà un
contributo determinante allo sviluppo dell’irrigazione nelle
regioni meridionali , operando,
quale consulente della Cassa per il Mezzogiorno, per l’imponente
estendimento delle reti irrigue che, progettato negli anni Sessanta,
sarà realizzato nei successivi anni Settanta. Sul terreno
scientifico Cavazza si impone come lo scienziato italiano più
aggiornato alle nuove metodologie di indagine dell’agronomia
internazionale, come docente
forma, a Bari, un vivace nucleo di allievi che ne proseguiranno
l’opera non solo sul terreno dell’irrigazione e dell’agronomia
generale, come Angelo Caliandro, ma anche nelle coltivazioni erbacee,
come Vittorio Marzi, nell’orticoltura , come Bianco, nella
foraggicoltura. Lasciata Bari Cavazza insegnerà
a Bologna.
Negli
anni dell’insegnamento barese di Cavazza opera per alcuni anni
nella medesima facoltà Remigio Baldoni. Marchigiano, laureato a
Perugia, assistente a Bologna, quindi professore di agronomia a
Padova, vinta la cattedra si trasferisce a Bari per ritornare a
Padova, quindi di nuovo a Bologna. Spostandosi a latitudini tanto
diverse, ed in ambienti dalle peculiarità climatiche ed agronomiche
tanto dissimili, Baldoni vi imposta studi di lunga durata sugli
avvicendamenti colturali, di cui le esigenze economiche stanno
imponendo la radicale metamorfosi. Il suo impegno sarà proseguito,
nelle tre facoltà, dagli allievi: a Padova da Lucio Toniolo e da
Luigi Giardini, a Bologna da Todari. Baldoni si impegna altresì,
con l’allievo Allegro Giardini, nel primo sviluppo
dell’allevamento bovino fondato sul mais. Maestro prolifico, tra i
suoi allievi si debbono ricordare anche Venturi e Amaducci, che hanno
dedicato il proprio impegno alle colture industriali, negli anni più
recenti a quelle destinate alla produzione di energia.
Alle
origini dell’epopea italiana del mais
Non
è peraltro possibile ricordare il trionfo realizzato dal mais, in
Italia, con l’introduzione degli ibridi americani, una delle
vicende più significative della parabola dell’agricoltura italiana
del Dopoguerra, senza ricordare Luigi Fenaroli, botanico e
fitosociologo, succeduto nella direzione della Stazione sperimentale
di maiscoltura di Bergamo a Tito Vezio Zapparoli. Vigorosamente
sostenuto da Paolo Albertario, direttore del Ministero
dell’agricoltura, che, perché possa, senza interferenze,
realizzare la più rapida introduzione in Italia della grande novità
agronomica made
in Usa lo
nomina commissario della Stazione,
tra le prime scelte Fenaroli invia nelle università americane una
decina di giovani laureati che al ritorno assumeranno,
nell’industria, nell’università e
negli
istituti sperimentali, la guida della storica svolta della
maiscoltura italiana.
Appena creata, la nuova maiscoltura italiana manifesterà le proprie ambizioni, alla metà degli anni ’50 realizzando, con materiale nazionale vitreo combinato a linee americane farinose, i propri ibridi, di cui propone quattro serie, la prima, comprendente le costituzioni della Stazione di Bergamo, portanti la denominazione Insubria, le altre tre contrassegnate Felsiena, dall’Istituto di agronomia di Bologna , Etruria, dall’Istituto di agronomia di Perugia) e Igr dall’Istituto di genetica per la cerealicoltura di Roma. La produzione di ibridi nazionali si sarebbe rivelata, peraltro, strada irta di difficoltà: incapace di vincere la competizione con le società americane che offrono prodotti sperimentati nella prima area maidicola del Pianeta, sarà presto abbandonata. In poco più di un decennio la maiscoltura italiana assurgerà, peraltro, a prima maiscoltura europea, a prima al Mondo per la produttività unitaria.
Nessun commento:
Posta un commento