di GABRIELE FONTANA e LUIGI MARIANI
L'articolo è uscito in contemporanea sul sito de la " Società Agraria di Lombardia"
Green deal e F2F
Il “Green Deal” annunciato dalla Commissione Europea è un piano “ambizioso” che dovrebbe portare nel 2050 a un’Europa a un impatto climatico zero. Per raggiungere questo obiettivo il piano si articola in diversi documenti programmatici e di questi due riguardano in modo diretto il sistema produttivo agricolo, in prima istanza quello che nella traduzione italiana suona come “Dal produttore al consumatore” (Farm to Fork nella versione inglese), ma anche un secondo dedicato alla biodiversità. Concediamoci di definire il primo con un acronimo, F2F .... e di concentrarci su di esso.
In esordio F2F richiama la prospettiva generale del “Green Deal” per addentrarsi poi, più che specificamente sui temi agricoli, sul valore dell’alimentazione per il consumatore europeo. Troviamo considerazioni certamente condivisibili, come la necessità di difendere il reddito degli agricoltori e il riconoscimento – come smentirlo – che il sistema alimentare europeo è “uno standard a livello globale, sinonimo di sicurezza, abbondanza, nutrimento e qualità elevata”. Ma per F2F ciò non basta e più o meno esplicitamente insiste sulla necessità che tale sistema raggiunga una dimensione di sostenibilità ambientale che a tutt’oggi mancherebbe.
Ma se questa è l’assunto sui cui si fonda l’F2F, lo stesso avrebbe dovuto essere quantomeno documentato attraverso un’analisi dei punti di forza e di debolezza della sostenibilità ambientale, più che mai necessaria a fronte di un sistema produttivo come quello agroalimentare europeo, complesso e articolato.
L’F2F si sente invece in dovere di richiamarci all’”impellente necessità di ridurre la dipendenza da pesticidi e antimicrobici, ridurre il ricorso eccessivo ai fertilizzanti, potenziare l'agricoltura biologica, migliorare il benessere degli animali e invertire la perdita di biodiversità” dato che “i sistemi alimentari restano una delle principali cause dei cambiamenti climatici e del degrado ambientale.”, affermazioni che avrebbero a nostro avviso quantomeno richiesto qualche numero e qualche argomento per sostanziarle, mentre nel documento ci si limita a descrivere il problema dal punto di vista del “sentimento” del consumatore.
Una visione prospettica sul ciclo del carbonio?
Finalmente il documento giunge a un’affermazione che ci appare più prospettica: “Un esempio di nuovo modello di business verde è il sequestro del carbonio da parte di agricoltori e silvicoltori. Le pratiche agricole che eliminano la CO₂ dall'atmosfera contribuiscono all'obiettivo della neutralità climatica e dovrebbero essere ricompensate attraverso la politica agricola comune (PAC) o altre iniziative pubbliche o private (mercato del carbonio). Una nuova iniziativa dell'UE per il sequestro del carbonio nei suoli agrari (carbon farming) nell'ambito del patto per il clima promuoverà questo nuovo modello di business, che offre agli agricoltori una nuova fonte di reddito e aiuta altri settori a decarbonizzare la filiera alimentare.”
Su questo, in modo del tutto ingenuo, ci è venuto da pensare che la pratica agricola, grazie al governo della fotosintesi, sia per propria natura un potente “sequestratore di carbonio” che viene accumulato nella biomassa organica di cui il carbonio costituisce il 45-50% in peso secco. Ad attestare ciò è il fatto che l’agricoltura emette in forma di gas serra solo una piccola parte del carbonio che ha in precedenza assorbito con la fotosintesi, tanto che a livello globale emette annualmente 1,4 gigatonnellate di carbonio rispetto alle 12 assorbite da arativi, colture permanenti e pascoli. Da ciò discende che la cosa migliore che gli agricoltori potrebbero a nostro avviso fare per “decarbonizzare la filiera” sarebbe quella di potenziare ulteriormente l’attività di fotosintesi, il che si otterrebbe aprendo una finestra agli investimenti sull’innovazione che sarebbero in grado di garantire rendimenti più elevati, consentendo al contempo di creare più valore aggiunto, ridurre i costi di produzione e garantire più elevati standard di qualità e sicurezza. Questo potrebbe forse dedursi dal passo seguente: “Queste soluzioni richiedono investimenti dal punto di vista umano e finanziario, ma promettono anche rendimenti più elevati creando valore aggiunto e riducendo i costi.”
Verso quale innovazione?
La parola innovazione non ricorre spesso nelle 21 pagine del documento ma ad essa è comunque riservato un intero paragrafo (3.1. Ricerca, innovazione, tecnologia e investimenti). Senza dubbio utile il richiamo a internet a banda larga, ma per il resto il suggerimento appare così formulato “Le nuove conoscenze e innovazioni potenzieranno inoltre gli approcci agroecologici nella produzione primaria attraverso un partenariato specifico sui laboratori viventi (living labs) di agroecologia. Ciò contribuirà a ridurre l'uso di pesticidi, fertilizzanti e antimicrobici.”
E qui parlando di “nuove conoscenze” ci si sarebbe atteso quanto meno un richiamo a quanto possono offrire i progressi della genetica vegetale, grazie agli sforzi di caratterizzazione genetica, alle possibilità offerte dall’editing genetico (sempre che non venga omologato ai poveri OGM), alla possibilità di sviluppare varietà vegetali resistenti, agli agrofarmaci microbici o basati sull’RNA interferente, al microbioma vegetale, al crescente sforzo di mettere a disposizione agrofarmaci con minore impatto e maggiore efficacia, di migliorare la tecnica di distribuzione di questi e dei fertilizzanti, magari grazie a sensoristica e digitalizzazione .... Per tutto ciò forse bisogna cercare altrove. Eppure, modelli per promuovere l’innovazione ci sono già, come il sistema europeo di collaborazione tra ricerca pubblica e privata messo in atto per promuovere l’uso industriale di biomasse, che razionalmente sviluppa la filiera dell’innovazione a partire dalla ricerca, per arrivare alle applicazioni finali attraverso sistemi prima pilota e poi dimostrativi, con una efficace modalità di trasferimento tecnologico.
Molto più facile porre obiettivi generici e arbitrari come “La Commissione intraprenderà azioni ulteriori per ridurre, entro il 2030, l'uso e il rischio complessivi dei pesticidi chimici del 50 % e l'uso dei pesticidi più pericolosi del 50 %.”, oppure “La Commissione interverrà per ridurre le perdite di nutrienti di almeno il 50 % garantendo nel contempo che non si verifichi un deterioramento della fertilità del suolo. Ciò porterà a una riduzione dell'uso dei fertilizzanti di almeno il 20 % entro il 2030.”. E qui ci domandiamo se in assenza di una strategia di innovazione, la soluzione al problema della sostenibilità ambientale possa limitarsi al “raggiungere l'obiettivo di almeno il 25 % della superficie agricola dell'UE investita a agricoltura biologica entro il 2030.“
Eccessive aspettative sul bio
Sull’agricoltura biologica e su alcune altre affermazioni che ricorrono nel F2F, qualche puntualizzazione va senza dubbio fatta.
Premesso che non è qui in discussione il sacrosanto diritto per chi pratica l’agricoltura biologica in modo corretto e rispettoso delle leggi di rispondere alle richieste del mercato, si deve stigmatizzare il fatto che nel documento in oggetto ci si limita a proporre una sostenibilità di pura facciata, in quanto fondata sull’agricoltura biologica che si pretende di espandere fino a coprire il 25% degli arativi europei, il che si evidenzia come palesemente insostenibile se solo si ha la forza di andare oltre il luogo comune trito e ritrito secondo cui il biologico sarebbe il perno di un “sistema alimentare equo, sano e rispettoso dell'ambiente” per spingersi a ragionare in modo laico e non ideologico:
- per unità di prodotto e non per unità di superficie (altrimenti in termini ambientali si scoprirebbe che meno si produce e meglio è, anche se poi così crollano la sostenibilità sociale ed economica)
- secondo logiche di scala, valutando le questioni non solo sul singolo campo ma anche in termini complessivi
- sull’intera filiera considerando i segmenti a monte e a valle del campo
- su dati di pieno campo e non solo su dati da parcelle sperimentali.
Da tale approccio “laico e non ideologico “ emergono una serie di evidenze contrarie alla vulgata dominate di cui il documento della Commissione si fa portatore. Ne riportiamo alcune a titolo di esempio:
- In pieno campo il biologico produce dal 20 al 70% in meno del convenzionale (si vedano i dati in tabella 1, per i quali siamo pienamente disponibili a fornire la bibliografia citata), il che significa che l’espansione incontrollata del biologico richiederebbe di mettere a coltura nuove terre con irreparabili danni agli ecosistemi naturali (foreste, praterie).
- Ragionando per unità di prodotto emerge che la zootecnia da latte estensiva presenta emissioni di gas serra (3,6 kg di CO2 per litro di latte) che sono grossomodo triple rispetto a quelle della zootecnia intensiva (Capper et al., 2009). Emissioni triple rispetto a convenzionale si registrano per il riso (Bacenetti et al., 2016) e doppie rispetto al convenzionale per il frumento.
- Nei campi di mais, frumento e riso “convenzionali”, la biodiversità è ovviamente bassa (si pensi alle malerbe contenute con diserbanti di sintesi) ma ci si deve anche domandare cosa sarebbe accaduto nel passato prossimo se anziché promuovere l’innovazione tecnologica si fosse scelto di aumentare le superfici (come si era fatto fino alla fine del XIX secolo). Quanta superficie agricola avremmo oggi? La risposta a livello globale ce la danno Burney et al. (2010) i quali hanno stimato che se l’innovazione tecnologica si fosse arrestata al 1960 oggi avremmo (a) 3,2 miliardi di ettari di arativi contro gli 1,5 attuali (b) emissioni di carbonio pari a 6,1 gigatonnellate contro le 1,4 attuali. Fin qui sul piano delle emissioni. Si rammenta però che l’agricoltura emette solo una piccola parte di quanto ha prima assorbito con la fotosintesi. Circa quest’ultimo fenomeno si ricorda che la CO2 assorbita per unità di superficie attraverso la fotosintesi è sempre inferiore in biologico in quanto si produce sensibilmente meno (es: un'azienda biologica che produce 1,5 tonnellate per ettaro di granella di frumento tenero assorbirà 1,5 x 44/30=2,2 tonnellate per ettaro di CO2 mentre se nell’agricoltura convenzionale si producono 8 t/ha di granella si assorbono 11,7 tonnellate per ettaro di CO2. Tutti dati che sono in palese contrasto con l’idea preconcetta di sostenibilità del biologico.
- Riguardo a quanto detto al punto 3 si aprano finalmente gli occhi sul fatto che riducendo le rese dell’agricoltura europea con il massiccio passaggio al biologico si incentiveranno i disboscamenti in altre aree del mondo che saranno indotte a sopperire al fabbisogno europeo non più coperto dalla produzione interna. Si pensi ad esempio che la Francia da grande esportatore di frumento tenero (di cui è oggi il maggiore produttore europeo), con la transizione al bio potrebbe passare ad importatore netto, con effetti negativi sui livelli dei prezzi su mercati mondiali che metteranno non poco in difficoltà i paesi in via di sviluppo. Sul piano politico questo costituisce un autogol clamoroso e che ignora completamente la lezione storica che ci viene dalle primavere arabe, fenomeno indotto dall’aumento dei prezzi dei cereali che destabilizzarono vari Paesi del Nord Africa.
- Circa la sostenibilità
sociale è opportuno ragionare ponendosi la domanda che segue: a parità
di incremento demografico quale sarebbe stata l'entità della malnutrizione e
della povertà senza l'aumento delle rese verificatosi nel XX secolo e frutto
dell’intensificazione indotta dalla rivoluzione verde?
Varie inesattezze
Qui di seguito si riportano in rapida sequenza alcune inesattezze o errori che abbiamo colto leggendo il testo.
Qui di seguito si riportano in rapida sequenza alcune inesattezze o errori che abbiamo colto leggendo il testo.
- “L’aumento di frequenza degli incendi boschivi”: ma è possibile che la Commissione scriva documenti in cui non si considerano nemmeno i dati prodotti da tecnici in ambito UE che mostrano il sensibile calo in atto negli incendi boschivi? Ci riferiamo ai dati dello European Forest Fire Information System (EFFIS) (San-Miguel-Ayanz et al., 2016), che evidenziano cali significativi nel numero di incendi e nelle superfici percorse dal fuoco che, si badi bene, si verificano in coincidenza con un sensibile aumento delle superfici boscate.
- “Questioni ambientali, sanitarie, sociali e etiche”: che etica è sottesa alla promozione di agricolture passatiste che se estese in modo non controllato produrrebbero l’espansione altrettanto incontrollata dell’insicurezza alimentare a livello globale e sul cui impatto ambientale pesano le considerazioni sopra esposte, ivi compreso il fatto che comunque, contrariamente a quanto si crede o alla vulgata pubblicitaria, si usano comunque “pesticidi”, come evidenziato di seguito.
- “L’uso di pesticidi chimici in agricoltura contribuisce all’inquinamento del suolo, dell’acqua e dell’aria, nonché alla perdita di biodiversità”. L’agricoltura europea ha visto negli anni una riduzione significativa delle quantità di agrofarmaci utilizzati, ma soprattutto ha innovato in termini di sostenibilità ambientale dei prodotti usati, tanto che il rischio globale è significativamente diminuito e oggi la presenza di residui negli alimenti, quando ci sono, è parimenti significativamente diminuita, se non annullata, e al di sotto di qualsiasi soglia di rischio e di preoccupazione sanitaria. Ciò premesso, tale affermazione ignora il fatto basilare che, per esemplificare un aspetto dell’impatto ambientale, esistono “pesticidi” biodegradabili (ad esempio il Glyphosate) che sono rapidamente metabolizzati dai microrganismi del terreno e “pesticidi” non biodegradabili (ad esempio il rame ampiamente usato nell’agricoltura biologica e che persiste nel terreno per tempi lunghissimi). Il rame è certamente un fungicida utile e deve essere usato responsabilmente, ma resta il fatto che il suo profilo ambientale è peggiore rispetto a molti fungicidi di sintesi non impiegati in agricoltura biologica. Circa gli effetti positivi sulla biodiversità, se con questo intendiamo gli effetti su organismi non bersaglio, le etichette di “pesticidi” largamente impiegati in biologico (Azadiractina, Spinosad, Rame) non lasciano presagire vantaggi significativi. La diminuzione dell’impatto ambientale delle pratiche fitosanitarie resta un risultato dell’innovazione, in qualsiasi forma di agricoltura, e sono pratiche che, se svolte con diligenza, non rappresentano un rischio ambientale ingestibile. A ciò si aggiunga che la difesa con mezzi chimici può integrarsi in modo armonico con altre modalità di difesa delle colture, a partire dagli agrofarmaci a base microbiologica o dall’impiego di varietà resistenti alle avversità, frutto delle biotecnologie avanzate e comunque risultato di innovazione.
- “Inoltre il 68 % della superficie agricola totale è destinato alla produzione animale: 39,1 milioni di ettari coltivati a cereali e semi oleosi e 70,7 milioni di ettari di prati su 161 milioni di ettari di terreni agricoli (nell'UE-27, Eurostat 2019)”: qui non ci si rende conto che i prati non hanno un uso alternativo (a meno che non li si voglia tramutare in arativi) per cui non sfruttarli per la zootecnia sarebbe un peccato enorme. Per evitare la demagogia, Il conteggio andava invece fatto al netto dei prati e dunque su 90,3 milioni di ha (161 meno 70,7), rispetto ai quali i succitati 39,12 milioni di ha sono il 43%! E perché poi non ricordare che a livello globale l'86% degli alimenti zootecnici è costituito oggi da sostanze inadatte all'alimentazione umana (foraggi, paglie, sottoprodotti alimentari, scarti di processi agro-industriali, ecc.) e che la zootecnia globale consuma sì il 33% dei cereali ma produce il 25% delle proteine e il 18% delle calorie delle diete umane (Mottet et al., 2017)?
- “Il mercato degli alimenti biologici è destinato a continuare a crescere e l'agricoltura biologica deve essere promossa ulteriormente: ha effetti positivi sulla biodiversità, crea posti di lavoro e attrae giovani agricoltori, e i consumatori ne riconoscono il valore.”: circa gli effetti positivi sulla biodiversità, abbiamo già riferito più sopra e bisogna ricordare che comunque ogni forma di agricoltura riduce forzatamente la biodiversità, concentrando in un’area coltivata singole specie vegetali (altrimenti torniamo alla raccolta vagante ...). Osserviamo inoltre che “i consumatori ne riconoscono il valore” soprattutto osservando i prezzi che sono mediamente più che doppi rispetto a quelli dei prodotti di agricoltura convenzionale. I prezzi tanto alti sono il risultato dell’inefficienza produttiva propria del biologico e che la Commissione vuole evidentemente scaricare doppiamente sul cittadino europeo, sia tramite le tasse che servono per pagare i sempre più rilevanti incentivi dati a questa forma di agricoltura sia tramite prezzi di mercato tanto elevati.
- “Questo approccio contribuirà a raggiungere l'obiettivo di almeno il 25 % della superficie agricola dell'UE investita a agricoltura biologica entro il 2030”. Ci domandiamo se si stata fatta una valutazione di scenario degli effetti che il calo di produzione indotti da tale politica avrà sui mercati mondiali delle grandi commodity da cui dipende la sicurezza alimentare dell’intera umanità, così come sui mercati interni di tanti prodotti agricoli, stagionali o non. Temiamo di no. Peraltro, questa affermazione è in palese contrasto con il “piano di emergenza da attuare in tempi di crisi per garantire l’approvvigionamento alimentare e la sicurezza dell’approvvigionamento alimentare.”. Come si può mirare ad un tale obiettivo puntando sull’agricoltura biologica che per la sola Francia ridurrebbe da 7,7 a 2,9 tonnellate le rese per ettaro di frumento tenero di cui la Francia è il maggior produttore europeo?
- “Il Green Deal europeo è un'opportunità per conciliare il nostro sistema alimentare con le esigenze del pianeta e per rispondere positivamente al desiderio degli europei di prodotti alimentari sani, equi e rispettosi dell’ambiente.”: alla luce di quanto sopra documentato questa affermazione appare demagogica e priva di contatto con la realtà del settore agricolo-alimentare europeo, non riconoscendo gli sforzi fin qui condotti per produrre di più e meglio e non contemplando una reale strategia di innovazione.
L’Europa, in quanto detentrice di una tecnologia formidabile e che potrebbe ragionevolmente mettere a disposizione dell’intera umanità, alleviando così i problemi di insicurezza alimentare tutt’ora presenti, è oggi chiamata ad una intensificazione sostenibile che mantenga le rese al passo con l’incremento della popolazione globale. Sfuggire a tale responsabilità è un errore che pagheranno caro sia i consumatori sia le industrie di trasformazione che sempre più saranno costrette a dipendere dall’estero per gli input dei loro processi produttivi, così come già oggi accade per l’Italia che importa il 50% del frumento che alimenta la filiera di pane, biscotti e pasta e dei mangimi zootecnici che alimentano le filiere di due formaggi grana e dei due prosciutti crudi di Parma e San Daniele.
Un’ultima considerazione, politica. Sarebbe stato logico che un documento dal potenziale impatto sul sistema agricolo europeo in generale, e nazionale in particolare, venisse dagli organismi istituzionali dell’Unione Europea deputati alla gestione dell’agricoltura, sia a livello di Commissione che di Parlamento Europeo: ciò non è avvenuto e il tutto è passato da coloro che si occupano di tutela dei consumatori. Inoltre, sempre in funzione dell’impatto potenziale sui sistemi agricoli nazionali, è pensabile che a questi vengano imposti obiettivi generici e indifferenti alle peculiarità locali senza che il potere esecutivo e i parlamenti ne discutano e li approvino?
Quali possono essere le conseguenze per l’Italia, primo produttore europeo di 17 colture, secondo di altre 16 e terzo per altre 8 ancora, quasi tutte specializzate e a elevato valore aggiunto? Non si può non tenere conto, come primario interesse nazionale, di tutto questo, anche riconoscendo che in questo complesso sistema possono trovare un ruolo, e un ruolo che va valorizzato e difeso, anche forme di agricoltura che, in funzione del loro ruolo ricreativo, di supporto e integrazione al turismo, di testimonianza culturale, rimangono ancorate a modalità produttive “storiche”. Senza utopie e nel mantenimento di una responsabile libertà economica. L’alternativa non può essere quella di una “tecnocrazia” utopica calata dall’alto e non basta dunque dire che “ce lo chiede l’Europa”.
Un’ultima considerazione, politica. Sarebbe stato logico che un documento dal potenziale impatto sul sistema agricolo europeo in generale, e nazionale in particolare, venisse dagli organismi istituzionali dell’Unione Europea deputati alla gestione dell’agricoltura, sia a livello di Commissione che di Parlamento Europeo: ciò non è avvenuto e il tutto è passato da coloro che si occupano di tutela dei consumatori. Inoltre, sempre in funzione dell’impatto potenziale sui sistemi agricoli nazionali, è pensabile che a questi vengano imposti obiettivi generici e indifferenti alle peculiarità locali senza che il potere esecutivo e i parlamenti ne discutano e li approvino?
Quali possono essere le conseguenze per l’Italia, primo produttore europeo di 17 colture, secondo di altre 16 e terzo per altre 8 ancora, quasi tutte specializzate e a elevato valore aggiunto? Non si può non tenere conto, come primario interesse nazionale, di tutto questo, anche riconoscendo che in questo complesso sistema possono trovare un ruolo, e un ruolo che va valorizzato e difeso, anche forme di agricoltura che, in funzione del loro ruolo ricreativo, di supporto e integrazione al turismo, di testimonianza culturale, rimangono ancorate a modalità produttive “storiche”. Senza utopie e nel mantenimento di una responsabile libertà economica. L’alternativa non può essere quella di una “tecnocrazia” utopica calata dall’alto e non basta dunque dire che “ce lo chiede l’Europa”.
Gabriele Fontana, laureato in Scienze Agrarie, ha svolto la propria carriera professionale nel settore delle tecnologie innovative per il settore agroalimentare e industriale, in particolare delle biotecnologie vegetali. In più di quaranta anni di esperienza si è occupato principalmente di affari normativi e di rapporti con le associazioni professionali. Insegna Economia e Legislazione delle Biotecnologie all’Università dell’Insubria.
Luigi Mariani, agronomo libero professionista, condirettore del Museo Lombardo di Storia dell’Agricoltura e vicepresidente della Società Agraria di Lombardia. Presso la Facoltà di Agraria dell’Università degli Studi di Milano insegna Storia dell’Agricoltura dopo essere stato docente a contratto di Agrometeorologia e Agronomia generale.
O io a 80 anni sono diventato deficiente (ed è possibile) oppure vi è gente che come si diceva una volta: Fa i conti senza l'oste". Diminuire tout court, perchè è questo che si vuol fare, per legge concimazioni e protezione mediante l'uso di varietà vegetali antiche (definite più resilienti, ma è una sacrosanta balla)significa diminuire le produzioni agricole e quindi agli attuali prezzi far fallire le aziende agricole. Per contro si può. però, ipotizzare che la minore offerta, a parità di domanda di cibo, determini rincari presso i consumatori. Tuttavia dato che “Dal produttore al consumatore” è un parallelismo che ancora una volta non tiene conto dei conti senza l'oste, in quanto in mezzo ci sta la trasformazione e la distribuzione e questa non rinuncerà mai a quanto ritiene che gli spetti, significa che ci potremmo trovare di fronte a due scenari: 1° si rosicchia il reddito dell'agricoltore, ma questo oltre un certo limite smette di coltivare. oppure si trasferisce il rincaro sul portafoglio del consumatore. In questo caso però occorrerà che al consumatore si dia più potere di acquisto altrimenti fa la rivoluzione.
RispondiEliminaSi dice che delle derrate a basso costo se ne trovano sui mercati internazionali ed è vero. Tuttavia anche qui si possono prefigurare due scenari: 1° essendo solo il 10% della produzione planetaria totale di derrate che è posta sul mercato, degli acquisti più massivi farebbero schizzare i prezzi alle stelle (2008/2010 docet), 2° ma comunque l'acquisto sui mercati internazionali significa conferire la licenza di incidere negativamente sul clima ad altri (ammesso che sia così) per interposta persona, cioè l'esatto contrario di ciò che si vuole ottenere. Detto tutto ciò mi chiedo; ma per i nostri decisori politici è invalsa la prassi di fare loro la prova del chiodo (di carabiniresca memoria)prima di eleggerli?
fotografia perfetta
EliminaParole sante!
RispondiEliminaFinché certe cosiddette Organizzazioni sindacali agricole continueranno a fare gli interessi della propria classe dirigente invece che quelli degli agricoltori che dovrebbero rappresentare (guadagnando centinaia di migliaia di euro all'anno- i dirigenti....) chiunque potrà fare degli agricoltori quello che vuole...
RispondiElimina